Notturno. Luigi Bailo e Gabriele D’Annunzio
I due si conoscevano. Luigi Bailo aveva accompagnato il Vate in un volo su Vienna l’anno precedente. D’Annunzio, costretto a tenere una benda sugli occhi a causa di una grave ferita di guerra e a rimanere immobile nel suo letto scrisse “Il notturno” interamente al buio su piccole striscioline di carta che vennero assemblate dalla figlia Renata. L’opera contiene i pensieri e le riflessioni del poeta che ricorda i compagni morti valorosamente in battaglia. Lamentandosi col destino, e con la retorica che gli è abituale, per essere stato defraudato da “sorella morte” che regala ad altri una fine eroica, in “Notturno” ricorda un episodio avvenuto il 16 febbraio 1916. D’Annunzio, infatti, avrebbe dovuto far parte dell’equipaggio di uno tra i velivoli destinati a effettuare un bombardamento su obiettivi militari austriaci a Lubiana. In seguito a un contrattempo, il poeta arrivò tardi: il suo posto era stato preso dal tenente colonnello Alfredo Barbieri. Questi e Luigi Bailo trovano la morte nei cieli di Lubiana. Solo Oreste Salomone si salvò, ferito, riuscendo a riportare l’aereo a terra.
Ecco, dal Notturno di D’Annunzio, il brano che riporta la tragica fine di Luigi Bailo e del suo compagno di volo.
“Stanotte il letto oscilla e vibra come l’ala doppia tesa tra mare e cielo. Per bere il vigore dell’Adriatico apro la bocca, ma nessun sorso fresco m’entra nella gola. L’iodio mi fa una bocca di metallo, una gola d’acciaio. L’acciaio è arroventato nella fucina del mio occhio ardente e temperato nella pozza del mio sangue spesso. Grido e non odo il mio grido. La faccia smorta di Alfredo Barbieri è su la proda del letto, come sul bordo della carlinga, ma senza la maschera e senza la celata di cuoio. Il gesto del pilota mi passa nel braccio intorpidito, ma non me lo muove. Vedo il guanto nerastro di Oreste Salomone nell’atto di scansare il corpo greve caduto contro il volante che Luigi Bàilo ha abbandonato per rizzarsi in piedi a far fuoco da poppa contro l’avversario mentre roteando gli passa nella mira. Il corpo ripiomba a destra. La testa penzola. La celata si riempie come una tazza rotonda. La spruzzaglia incomincia, simile allo sfavillìo del tizzo che si consuma nella rapina del vento. Luigi Bàilo ritorna a proravia per la passerella tra i due serbatoi. Non ha più l’arma in mano. Con la mano si regge il braccio stroncato. Resta un solo pilota valido al governo. È necessario ch’egli sia protetto, perché riconduca alla Patria l’ala e la soma. Il ferito si china sul compagno, per fargli scudo, egli invalido e disarmato. Vedo, a traverso la maschera, a traverso le lane e le pelli, la trasfigurazione sovrana d’uno stretto viso d’uomo: il dio nel ciborio. Ecco che più a dentro è ferito il ferito, dalla terza raffica. Trapassato è lo scudo magnanimo. La volontà risfavilla nello sfavillìo della porpora. Barcolla, si piega indietro, si appoggia al serbatoio, cerca di riannodare le ginocchia che gli si slegano. Non vuol cedere. Può servire tuttavia da scudo. È necessario. Oreste si volta di tratto in tratto a guardarlo. Distoglie una mano dal volante per toccare il fratello con un gesto di conforto. Si volta ancóra; e lo vede disteso nella passerella, tra rame e rame, supino: un sacco di sangue. Era il superstite una vita; ora è tre vite, e tutto l’amore indomabile. Ho il petto pieno di grido, e non odo la mia voce. Il letto oscilla, sbanda, e poi precipita. Un deserto di sasso, sgretolato e forato, viene precipitosamente incontro al mio occhio che non si chiude. Gli attimi sono eterni. La caduta non ha fine.“
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