ORI, L’OROLOGIAIO DI GAVI
Gavi Ligure, 31 marzo 1960 – Otto orologi hanno reso celebre in Inghilterra un anziano orologiaio di Gavi Ligure, il sig. Luigi Ori, proprietario di una minuscola bottega nella via principale del paese. Gli orologi sono vecchi, logori, valgono pochi soldi, ma sono stati conservati gelosamente dal 1942 ad oggi in una robusta cassaforte, quasi fossero un tesoro. Da diciotto anni il sig. Ori li considera come gli oggetti più preziosi del suo negozio: li tiene in efficienza, ne pulisce gli ingranaggi ogni mese, li controlla ogni settimana, li carica tutte le mattine e rifiuta di venderli. Non si tenga l’orologiaio per un tipo bizzarro. Piuttosto diremmo che è un tipo scrupoloso, di una onestà d’altri tempi.
Questo quanto riporta il quotidiano La Stampa di venerdì 1 aprile 1960. Ma qual è la storia che sta dietro questo comportamento eccentrico, “bizzarro” dell’orologiaio Ori di Gavi Ligure, oggi solo Città di Gavi? Anzitutto, senza presumere di saperne di più di Gino Nebiolo, grande e indimenticabile giornalista prima de La Stampa e poi in RAI e autore dell’articolo sul quotidiano torinese, mi permetto di modificare le date: il fatto con tutta probabilità è avvenuto alla fine di agosto del 1943, come d’altra parte indica Franco Marchiaro, corrispondente di Stampa Sera nel suo articolo del 22 aprile 1960. Originario di Chiavari, Luigi Ori aveva aperto il suo piccolo laboratorio nella centralissima via Mameli di Gavi a seguito, con tutta probabilità, delle sue nozze con la serravallese Piera Stringa. Apprezzato per la sua scrupolosa accuratezza nel lavoro, era stimato e ben inserito nella comunità gaviese. I fatti che lo hanno reso celebre in Italia e all’estero hanno avuto il loro inizio nella fine dell’estate del 1943.
Il Forte di Gavi aveva difeso la Serenissima Repubblica di Genova fino alla decisione del Congresso di Vienna di non ripristinare la Repubblica (contraddicendo il principio di legittimità che esigeva il ritorno delle dinastie e stati, spodestati dall’impero napoleonico) e consegnare il suo stato al Regno di Sardegna. Non essendo più baluardo difensivo di confine il Forte di Gavi subì un forte declino: disarmato prima, trasformato poi in luogo di detenzione civile e militare. Nella Prima guerra mondiale furono internati nel Forte prigionieri austriaci e soldati italiani disertori. Nella Seconda guerra mondiale il Forte divenne un carcere di massima sicurezza identificato a livello internazionale con la sigla campo PG n. 5 di Forte di Gavi. Viene aperto nel giugno del 1941 e viene descritto come «campo per ufficiali con una capienza di 200 posti». Viene precisato come «campo per prigionieri di guerra alleati segnalati come turbolenti». L’aggettivo ha un senso negativo solo per il fatto che questi prigionieri, in prevalenza inglesi, avevano tentato la fuga negli altri carceri dove erano stati internati in precedenza, ma a Gavi godevano rispetto e qualche forma di libertà, pur senza allentare il controllo da parte dei circa 400 militari addetti alla sorveglianza.
Nella primavera del 1943, esattamente il 21 aprile, al Forte c’era stato il tentativo di una sorprendente fuga, preparata da mesi. Già dall’autunno del ’42 i prigionieri inglesi e di paesi del Commowealth avevano iniziato lo scavo di un tunnel che da una cisterna sotterranea portava all’esterno. Undici prigionieri, fra cui Jack Prigle il più famoso, e il celeberrimo David Stirling, creatore delle micidiali SAS, avevano messo in atto nella notte tra il 20 e il 21 aprile 1943 la fuga. Solo Jack Pringle era riuscito a rimanere libero per quasi una settimana e catturato accidentalmente al confine con la Svizzera. La sorveglianza al Forte era ovviamente aumentata, ma il tenore dei rapporti tra prigionieri e truppe di sorveglianza italiane erano rimaste fedeli alle norme stabilite dalla Croce Rossa Internazionale. Anche se sotto scorta e stretta sorveglianza i prigionieri di guerra del Forte potevano uscire e recarsi in Gavi.
Come detto sopra eravamo alla fine di agosto del 1943, il Governo Mussolini era caduto e con esso il Fascismo, ma l’aria non era tranquilla: Mussolini prigioniero all’Isola di Ponza e poi dal 2 settembre al Gran Sasso, i tedeschi in evidente all’erta controllavano i punti strategici di buona parte dell’Italia centro settentrionale, l’incertezza di cosa sarebbe successo era palpabile. Era probabilmente il 30 agosto, caldo afoso e un sole che picchiava sui muri della via centrale di Gavi. Sulla porta a vetri del negozietto dell’orologiaio Luigi Ori, chiusa per evitare la calura esterna, si stagliano delle figure massicce. «Prego, entrate», invita gentile come sempre il sig. Luigi senza staccare lo sguardo da un orologio che, aperto, osserva attentamente col suo monocolo di ingrandimento. Lo scricchiolio della porta che si apre si confonde con un perentorio: «good morning, mister». Un tonfo secco, il monocolo di Ori si schianta sul tavolo, l’orologiaio apre la bocca sbalordito, gli occhi spalancati, zitto, interdetto, impietrito. «Buon giorno, signor Ori, è lei vero l’orologiaio?». Ori si ricompone, le mani ancora bloccate sull’orologio che controllava, la faccia si sposta sul nuovo interlocutore, un carabiniere in uniforme, poi di nuovo sul primo interlocutore. Davanti a lui un gigante dai capelli e barba rosso fuoco, sopracciglia foltissime su un nasone dalla nappa rossa a patata su una schiera annerita dal fumo di denti sorridenti, due occhietti celesti chiarissimi, una divisa con un numero sul taschino di sinistra. «Sì, sono io, ma… non so cosa ho fatto», si affretta a dire preoccupato rivolto al carabiniere. «Nulla nulla, un si preoccupi» si affretta a dire con chiaro accento toscano e con tono rassicurante rivolto all’evidente preoccupazione dell’orologiaio. «Questo è un prigioniero di Guerra su al Forte e vuole darvi alcuni orologi da aggiustare». «Ah, meno male; sa, di questi tempi… certo certo, mi faccia vedere». Il gigante rosso sempre col sorriso bonaccione stampato sulla faccia tira fuori dalla tasca un involto che srotola sul tavolo. Otto orologi scricchiolano sulla mensola lucida, Ori li osserva con occhio professionale: a parte uno che sembra d’oro, gli altri sono chiaramente di poco valore. «Fix clocks, please». «Vuole che voi li aggiustate» interviene il carabiniere. «Ah, ho capito. Sa, io so preciso. Chi paga?». «O nini, o che un ti fidi? Un so mi’a bischero. C’hanno le tessere, questi, anche se prigionieri». Sempre gentile, ma con la prudenza di chi è abituato a vivere del proprio lavoro: «sicuro, le tessere – precisa Ori – ma io con le tessere del Forte non ci compro niente, già con le mie ci si raccatta poco». «C’ha ragione, mira! Sa come si dice al mi’ paese? Senza lilleri, un si lallera! Però garantisco che sarà pagato, è tutto a posto». «Va bene, signor carabiniere. Allora vediamo di chi sono questi orologi, così potrò fare il conto preciso per ciascuno». Con le mani fa cenno al gigante rosso di che nome mettere sul cartellino di ciascun orologio. Il prigioniero capisce e indica i cartellini legati al cinturino di ciascun orologio con il nome e il numero di matricola del prigioniero: «Col. Page n. 169, cap. W.H. Murchie n.147, ten. Paterson n.141, ten. F.E. Wilson n.177, ten. R. B. Chariton n.174, ten. Forster n.170, ten. Grant n.190». «This his mine», «dice che questo è il suo» interviene il carabiniere spiegando i chiari cenni di possesso del rosso che indica il suo nome scritto sul cartellino: Tenente Robert Leith Mac Gregor. «Va bene, se ripassate la prossima settimana, saranno tutti pronti». «Good bye. Thank you» e allargando il sorriso a tutti i denti anneriti dal fumo, saluta inchinandosi all’impacciato orologiaio che risponde con una serie di goffi inchini. «Allora ci si vede la prossima settimana, va bene?» Ori si inchina anche a lui, il carabiniere, mentre lo scricchiolio della porta che si richiude smorza l’ultimo Thank you di Mac Gregor, il gigante rosso.
«Allora Luigi, che fai di bello?». «O che fo, rimetto a posto l’orologi. Dovevano venire a piglialli, ma ancora non si vede nessuno». «O chi doveva veni’?». «Quelli del Forte. Più di 10 giorni fa m’hanno portato questi orologi a aggiustare e ancora non vengono a prenderli e a pagarmi». «Ma chi erano, non erano mica i prigionieri inglesi?». «Sì, proprio loro. Me l’ha lasciati Mac Gregor, un pezzo d’uomo tutto rosso». «Ma te, Luigi, dove stai, a Gavi o in America?». «Perché, che c’è?». «Ma al Forte non c’è più nessuno. Dopo due giorni dall’8 settembre e il discorso di Badoglio, a Gavi e al Forte sono arrivati i tedeschi, hanno preso i prigionieri, l’hanno portati a Novi alla stazione e l’hanno spediti in Germania». «Senza lilleri un si lallera, diceva il carabiniere, ora, ho belle e capito, a lallerare ci vado io». «Non te la prendere, Luigi, tanto non saranno di valore, buttali». «Buttalli? Ma io li ho aggiustati e rimessi a nuovo. No di certo, qualcuno li cercherà prima o poi». «Sì, poi; campa cavallo. Ciao Luigi».
Ogni giorno l’orologiaio Ori tirava fuori dalla sua massiccia vecchia cassaforte la scatola di latta con dentro gli otto orologi con l’etichetta al cinturino, li controllava, li caricava e ordinatamente li riponeva nella scatola e in cassaforte.
Ori è un ligure paziente e ottimista, preciso al millimetro come vuole il suo mestiere… Era sicuro che a guerra finita i rispettivi padroni sarebbero tornati a riprenderseli
( Gino Nebiolo, La Stampa, 1960).
«Luigi, ma non essere ridicolo – Piera sua moglie impazientita della caparbietà del marito – buttali quegli orologi e falla finita di pulirli sempre». «Non se ne parla. Non li consegnerò a nessun altro che a loro stessi, i proprietari. Dovessi aspettare anche venti o trent’anni».
Agosto 1955, solita calura asfissiante del solleone a Gavi come ovunque. È mezzogiorno, la porta a vetri del negozietto scricchiola. Ori esce sulla via assolata. Chiude meticolosamente a chiave e si dirige a passi svelti verso casa in direzione della parrocchia. Su una panchina addossata al muro della chiesa e al riparo dal sole cocente due strani individui attirano la sua attenzione. Una bella signora, non più giovanissima ma piacente, indossa un lungo leggero abito giallo a fiori rossi, blu, viola e arancione; in testa un cappellino di paglia con un elegante nastro blu che termina con un ciondolino. Sta guardando in alto la facciata barocca del Comune quasi di fronte a lei. Accanto le siede un signore decisamente robusto e alto, camicia a scacchi tipo scozzese aperta sul petto villoso, pantaloni a mezza gamba di un arancione deciso, un paio di calzettoni a quadri blu e rosso gli arrivano al polpaccio e fuoriescono da due sandali marroni. Capelli e baffoni di un rosso acceso. Due così non possono non attirare l’attenzione e così succede a Ori. Si ferma un attimo di fronte alla panchina incurante del sole che gli picchia in fronte. «Mac Gregor!». Lo straniero, che sembrava appisolato, sgrana gli occhi azzurrissimi per fissarli sull’importuno che disturba la loro quieta sosta. La signora sposta solo la faccia lentamente. «Mac Gregor! Lei è Mac Gregor». Il rosso sulla panchina stringe gli occhi per concentrare la vista su questo sconosciuto e avanza leggermente il busto. «Yes, yes!». Allarga leggermente le braccia e muove il faccione rubizzo in segno di consenso.
«Who are you, please?». «Venga, venga con me, Mac Gregor!» Ori senza tanti complimenti afferra per un polso lo straniero e fa per tirarlo su, inutilmente vista la mole del rosso seduto. «What do you want?». La signora accanto sembra divertita e convince il rosso compagno a seguire lo strano italiano e lei stessa si alza sorridente e curiosa. Lo straniero visibilmente imbarazzato si alza e va dietro l’italiano che gli fa cenno di seguirlo, si volta indietro per controllare la signora che lo segue divertita. Deciso e quasi esaltato l’orologiaio apre la porta scricchiolante del suo laboratorio. Lo straniero si guarda attorno curioso e perplesso come a rimuginare qualcosa. Fuori la signora sventola un ventaglio di forma e colori spagnoli sbirciando tra l’oscurità del piccolo laboratorio. «Allora Mac Gregor, stia a vedere!» farfuglia Ori mentre con la mano incerta per l’emozione stenta a infilare la chiave della vecchia cassaforte. Trae fuori la scatola di latta, si volta col sorriso soddisfatto sulle labbra e la pone sul banco; con attenzione meticolosa come aprisse la pisside del tabernacolo toglie il coperchio mezzo arrugginito della scatola e con fare elegante come il più esperto gioielliere di via Montenapoleone sistema sul banco sette orologi, l’ottavo lo solleva in alto per mostrarlo al gigante rosso che sgrana gli occhi incredulo. «Ecco il suo orologio, Mac Gregor! Perfettamente funzionante, come nuovo!». Lo scozzese rosso gigantesco ha gli occhi sgranati, prende dalle mani dell’orologiaio, visibilmente soddisfatto, l’orologio, legge l’etichetta: Tenente Robert Leith Mac Gregor, il numero di matricola è sbiadito, illeggibile. Si volta e chiama la signora a venire dentro. Non è facile muoversi dentro il piccolo laboratorio tra scaffali e orologi pendenti, ma Mac Gregor ha la faccia più rossa dei capelli e parla concitato alla signora, che lo ascolta attenta per scoppiare alla fine in una risata rumorosa accompagnata da cenni di consenso, meraviglia e approvazione verso il piccolo orologiaio che a sua volta, sorride soddisfatto pur senza capire una parola del dialogo stretto tra i due stranieri davanti a lui. «My wife!!». «Sua moglie?!». «Yes, yes, my wife!». E con lei prendono in mano uno a uno tutti gli orologi dei prigionieri inglesi, commentando tra loro. «Or not! Or not!!». Mac Gregor stringe l’etichetta di un orologio, sembra quasi piangere, parlotta con sua moglie e le fa cenno verso di me. «I, io italiano pochino». Ori accenna di aver capito e mostra interesse. «Quello orologio essere di amico Robert, Colditz, Germania, dopo Gavi, prigionia, morto… ta ta ta… ucciso Sten, machine gun… ta ta ta!». Luigi comprende il dolore e il disagio di Mac Gregor; quindi anche per allentare la tensione: «Sia ben chiaro Mac Gregor, io a lei do solo il suo orologio. Quando tornerà in Inghilterra avvisi gli altri per venire da me a ritirare i propri orologi». La signora mostra di aver capito e con fare divertito spiega la richiesta a suo marito. «Yes, yes, correct, correct!». Il gigante rosso stringe la mano di Ori e assieme a sua moglie esce dal laboratorio quasi spinti da Ori che chiude a chiave e con un cenno di saluto si dirige veloce verso casa dove sicuramente l’aspettano i rimproveri di Piera, sua moglie, per il ritardo. Mac Gregor e signora lo vedono increduli allontanarsi frettoloso, si guardano e scoppiano in una fragorosa risata: «Incredible Italian».
Marzo 1960, sono trascorsi 5 anni da quell’incredibile incontro a Gavi. Luigi Ori nonostante i suoi 63 anni continua il suo speciale mestiere di orologiaio scrupoloso e meticoloso. Martedì 29 marzo, sono quasi le 11 del mattino. «Ori, Ori,… Luigi…!». «Che c’è Tonino, che strilli, cos’è successo? Mi butti giù la porta, sta attento!». «Vieni, dai, sbrigati. Una telefonata da Roma». «Una telefonata? Da Roma? E chi mi cerca?». «Non lo so, ma sbrigati, è un’interurbana da Roma e cercano te, Luigi Ori!». «Sì, sì, sono io, ma c’ho fatto?». Ori entra nel vicino Caffè del Moro tra la curiosità evidente degli avventori ammutoliti, si avvicina alla cabina guardandosi attorno come a dire «Non so niente, io non ricevo mai telefonate». Prende il ricevitore. «Pronto!». La voce è quasi tremante, non riesce a capacitarsi di quella telefonata, è preoccupato. «Ori, Luigi Ori, orologiaio a Gavi?». «Sì, sono io, ma non so niente». «Che piacere mister Ori, son Robert, Robert Mac Gregor!». Mac Gregor? Ori tira un sospiro di sollievo e risponde. «Buon giorno Mac Gregor, in che posso servirla? Le s’è rotto di nuovo l’orologio?».
No, My friend, amico mio. L’orologio perfect. Io essere Roma con amici degli orologi, tu riparati. Io parlare meglio italiano. Spiego: 5 anni fa tornato Inghilterra con mia moglie, cercare amici orologi. Difficult, difficile trovare. I, io scrivere giornale Daily Telegraph e raccontare tua storia. Tutti Inghilterra conoscere orologiaio Ori e Gavi. Trovato miei amici e ora Roma, next days, prossimi giorni noi Gavi da Luigi Ori and orologi. Pleased, contento Ori?.
Silenzio, «Sì, sì! Contentissimo Mac Gregor. Preparo gli orologi e vi aspetto». Al clic della cornetta Ori guarda il ricevitore, poi in giro. Tutto il bar aspetta in silenzio di capire. «Niente, niente – l’orologiaio esce dalla cabina e dal bar impettito, come se nulla fosse – Lavoro, lavoro!».