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Il Ponte del Carmine in Val Borbera. Un simbolo di storia, molte ipotesi di ricerca

Il Ponte del Carmine negli anni Trenta

Ci sono spazi, edifici, strutture architettoniche, che rappresentano simboli importanti per i territori in cui sorgono, e restano strettamente legati alla vita, alla cultura e alle tradizioni delle donne e degli uomini che vi abitano, o che vi hanno scritto pagine importanti di storia.
Il Ponte del Carmine, in Val Borbera, è sicuramente uno di questi luoghi-simbolo. Noto anche come Ponte Rotto, è il viadotto fatto saltare dai partigiani della brigata Oreste il 3 ottobre 1944 per impedire a nazisti e fascisti di penetrare con mezzi e armi pesanti in alta valle.

Nell’ottantesimo anniversario di questo avvenimento, a sua volta uno dei simboli della resistenza ligure-alessandrina, vogliamo proporre alcune brevi note aperte sul futuro: l’intento è quello di evidenziare le ragioni che fanno del Ponte del Carmine un paradigma attorno al quale è possibile sviluppare la ricerca storica e il lavoro della memoria, non solo riguardo alla resistenza ligure-alessandrina, ma anche alla storia sociale della Val Borbera.

LA STORIA SOCIALE DELLA VALLE

“La Camera segnala con compiacenza l’apertura di una nuova strada consortile provinciale fra Serravalle e Rocchetta-Ligure.
Questa strada che traversa le montagne che separano Serravalle Scrivia da Rocchetta Ligure ha una grandissima importanza commerciale, ed ha già ridestato la vita ed il commercio in questa parte dei nostri Appennini”.

Così, con un certo trionfalismo, Il Ministero di industria, agricoltura e commercio annuncia nell’agosto 1879[1] l’apertura della nuova strada, considerata un’opera di fondamentale importanza per il progresso dell’alta valle, ma anche del novese e dell’Oltregiogo:

“Quest’opera darà nuova vita ad uno dei più estesi mandamenti del nostro Circondario, aprirà l’adito a luoghi ora affatto inaccessibili e quasi selvaggi, fornirà i voluti mezzi di esportazione alla legna da ardere, che in quei paesi straordinariamente abbonda, e porrà fine all’obbrobriosa segregazione di quelle oscure ed inospite convalli”.

Con queste parole, sette anni prima, il periodico Novese “La Società” [2] aveva descritto l’importanza civile ed economica della nuova arteria stradale.
Di quella strada il Ponte del Carmine rappresenta sicuramente una delle realizzazioni architettonicamente più ardite, sia sotto il profilo costruttivo che scenografico.

1874: costruzione del Ponte del Carmine

La nuova strada toglie dall’isolamento l’Alta Valle Borbera con i suoi sette comuni e i suoi quasi 15.000 abitanti, che in precedenza potevano raggiungere il fondovalle solo con mulattiere e sentieri impervi. L’agricoltura povera della valle ne trae benefici evidenti ma, come spesso accade nelle valli di montagna, determina anche un processo di segno opposto: l’inizio della emigrazione che, in successive riprese, rappresenterà uno dei temi ricorrenti nella storia della Val Borbera porterà allo spopolamento progressivo e inesorabile della vallata. Nel bene e nel male, la nuova arteria segna dunque un momento cruciale per il futuro della Val Borbera, diventa il fulcro su cui fare perno per ricerche sulla storia sociale della valle (il tema del lavoro, della condizione femminile, dell’emigrazione, dei saperi contadini, delle tradizioni e del folklore).

PONTE ROTTO

Il 3 ottobre 1944 gli uomini della brigata Oreste, il nucleo partigiano che darà vita alla Divisione garibaldina Pinan-Cichero, decidono di far saltare il Ponte del Carmine.

È un atto di grande importanza sia sotto il profilo militare che per i successivi sviluppi della storia partigiana nel basso alessandrino. Così, quando Giambattista Lazagna, vice comandante della Divisione, scrive il suo libro in gran parte autobiografico, decide di utilizzare proprio un riferimento a quell’azione per il titolo: Ponte rotto[3].

Ponte rotto è uno dei primissimi volumi dedicati alla resistenza firmati da un protagonista della Resistenza: scritto tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, non è solo un libro di memorialistica, ma un vero e proprio tentativo di scrivere la storia della resistenza tra Genova e l’alessandrino basato su una solita base documentaria.  Il libro conquista nel tempo una vasta notorietà, legata anche alle vicende personali del suo autore, e diventa così uno dei primi simboli del “bisogno di scrivere” che produrrà, nel corso dei successivi decenni, una enorme mole di memorialistica e saggistica, di valore anche molto diverso, ma sempre utile e importante come documentazione di uno dei momenti più significativi della storia italiana contemporanea.

Proprio prendendo le mosse dal volume di Lazagna, sarebbe dunque di grande interesse riscoprire quel patrimonio di pubblicazioni dedicate “alla guerra, alla guerra di liberazione e alla guerra civile”[4] che riguardano la VI Zona partigiana ligure, ovvero il territorio che si estende da Genova sino a tutto l’Oltregiogo, per rileggere, grazie ad essi, la storia, i valori e le speranze delle donne e degli uomini che vissero quell’esperienza.

LA RESISTENZA E LA ZONA LIBERA PARTIGIANA

Carrega Ligure, 1944. Membri del Comando della VI Zona Ligure con alcuni partigiani della brigata Oreste e i componenti di una Missione Alleata.

I partigiani decidono dunque di far saltare il Ponte del Carmine per impedire ai nazifascisti di penetrare, con mezzi militari pesanti, in Alta Valle Borbera. È una zona di grande importanza strategica per tutto il movimento di resistenza ligure-alessandrino, perché qui sono dislocati molti distaccamenti che usano questa base per attacchi all’autostrada, alle ferrovie e ai presidi militari dei paesi di fondo valle. Ma l’Alta valle rappresenta anche il territorio dove si concentrano importanti centri dirigenti del partigianato della VI Zona ligure: qui hanno la loro sede il comando della brigata Oreste e poi della Pinan-Cichero, il Comando della VI Zona ligure e alcune missioni alleate paracadutate intorno al Monte Antola. L’interruzione stradale rende più sicura e agevole l’attività di tutti questi centri operativi partigiani.

Tuttavia, il “ponte rotto” non svolge solamente, ed egregiamente, il suo scopo di difesa del territorio dell’alta Valle, ma con il tempo finisce così con l’assumere una importanza assai più complessa.
In primo luogo, esso viene riconosciuto come una sorta di zona franca dove hanno luogo numerosi scambi di prigionieri tra nazifascisti e partigiani, come ci ricorda Marco Balduzzi nel suo recente libro-intervista:

“I cambi avvenivano generalmente al Pertuso, dove c’era il ponte rotto; alla linea di confine tra il territorio nostro e il territorio occupato. Noi al Pertuso bendavamo i prigionieri e gli facevamo fare dei giri contorti perché pensassero che ci fossero campi minati, mentre non erano affatto campi minati. Tutti i cambi sono avvenuti al Pertuso” [5].

Il Ponte Rotto, e la piccola località di Pertuso, situata poche centinaia di metri all’interno della nuova e quasi inaccessibile zona controllata dai partigiani, diventano anche luogo di scambio di prodotti tra i paesi dell’alta valle e le località della Valle Scrivia (in particolare legname in cambio di beni di prima necessità), e sono utilizzati come località di trattative tra partigiani e nazifascisti, compreso un ultimo drammatico incontro nell’imminenza della Liberazione:

La Brigata Oreste sfila per le vie di Genova liberata

“Nella serata del 23 aprile ci fu – a Pertuso – l’ultimo incontro con il tenente Uthet della Marina germanica, che fu particolarmente
minaccioso, anche se si vedeva che era in stato di preoccupazione e di ansia. Uthet portò l’ultimatum di Meinhold: ricordo che è stato drammatico, quell’ultimo incontro; c’è stato uno scontro, anche verbale”[6].

Il “posto di frontiera” di Pertuso è talmente importante che, alla vigilia dell’insurrezione, si presenta in questa zona franca anche il vescovo ausiliario del Cardinale di Genova Boetto, il futuro Arcivescovo Giuseppe Siri, per intavolare trattative relative alla Liberazione di Genova e alla resa dei tedeschi[7].
Infine, la distruzione del Ponte del Carmine contribuisce, in modo decisivo, a creare le condizioni per l’avvio della Zona Libera dell’Alto Tortonese, uno dei più longevi esperimenti di amministrazione diretta del territorio da parte delle formazioni partigiane, che ebbe caratteristiche originali e complesse che attendono ancora di essere studiate come meritano.
Senza dimenticare, come scrisse il sindaco di Rocchetta Ligure, che anche la popolazione civile ebbe “incalcolabili benefici” dalla distruzione del ponte, poiché “la regione poté non essere spogliata del bestiame e degli altri prodotti agricoli, né poté essere bombardata” [8].
Tutti temi che possono e devono essere studiati e approfonditi, anche grazie all’utilizzo di fondi archivistici locali sino ad ora quasi del tutto inesplorati, a cominciare dai piccoli ma preziosi archivi comunali.

RASTRELLAMENTO

L’interruzione della strada Serravalle-Rocchetta pone ai nazifascisti un ostacolo insormontabile per poter effettuare attacchi in forza, rapidi e improvvisi, ma non impedisce del tutto l’ingresso in Alta Valle attraverso strade secondarie e i valichi montani. Sono infatti molte le incursioni tra l’estate 1944 e l’inverno 1945, e tra esse particolarmente grave e pauroso è il rastrellamento dell’inverno 1944 condotto dai “mongoli”, ossia da prigionieri russi di origine orientale arruolati nell’esercito tedesco. Queste truppe seminano il terrore tra le popolazioni civili, con furti, violenze, incendi di case e fienili, e infieriscono in particolare sulle donne durante tutte le lunghe settimane del rastrellamento, partito dal pavese per concludersi in Valle Borbera e in Valle Curone.

Già nel lontano 1967 Giampaolo Pansa nel suo Guerra Partigiana tra Genova e il Po[9] aveva denunciato gli stupri e le violenze di massa compiuti dalle truppe in rastrellamento, pubblicando alcuni documenti e testimonianze poi ripresi da altri autori e più recentemente da interventi reperibili in rete.

Ora è possibile studiare con maggior precisione questa pagina, grazie alla disponibilità di nuove fonti, come ad esempio le relazioni delle Commissioni di censura postale[10] che riportano moltissimi e drammatici stralci di lettere scritte da abitanti della Val Borbera, come quello che segue:

“Qui abbiamo passato dei brutti momenti, abbiamo passato 6 g. pessimi, sono entrati i mongoli truppe tedesche. I tedeschi sono molto bravi, lasciano stare tutti, ma però i mongoli facevano quello che volevano – quante ne hanno rovinate – ragazze di 14 anni. Hanno portato via maiali, biancheria, galline”[11].

Al termine del rastrellamento, la situazione si presenta talmente complicata che il Comando partigiano decide di intervenire in modo deciso:

Giuseppe Balduzzi (Marco secondo)

Un giorno viene Boggeri, il podestà di Cabella – l’avevamo lasciato lì, in carica; non l’avevamo sostituito – e mi dice: “Qui c’è un problema: ci sono queste ragazze, queste donne che sono rimaste incinte e non sanno a che santo votarsi”.
C’era, a Cabella, come sfollato, ma di origini locali, il professor R. che era un simpatizzante dei partigiani. Io gli ho esposto la situazione: “Qui, caro mio, bisogna superare certe convinzioni, perché non si possono abbandonare queste donne, bisogna che interveniate”.
R. era un cattolico e mi dice: “Se c’è qualche altro modo, ma io come cattolico non posso e non voglio. Abbi pazienza, ma è contro i miei principi”.
Insomma, abbiamo dibattuto fino alle due di notte, a cercare di convincerlo
di intervenire. Alla fine ho preso la decisione, gli ho detto: “Guarda, di fronte a testimoni io ti minaccerò con le armi, dimodoché la responsabilità di tutto cada su di me, e con il Padreterno te la vedrai tu”. A ventidue anni me ne sono preso di responsabilità, eh?
Lui mi guarda e mi dice: “Ci penserò”, e tanto ci ha pensato che a Cabella e frazioni bambini mongoli non ne sono nati, non so se mi spiego[12].

Le settimane del rastrellamento, insieme all’esperienza della Zona libera partigiana, attendono ancora di essere indagate per comprendere a fondo i rapporti tra partigiani e popolazioni in questa situazione “estrema”, e in che modo l’esperienza dei venti mesi di lotta partigiana ha inciso sulle mentalità collettive. Un tema di fondamentale importanza per analizzare la storia dell’Oltregiogo e delle vallate liguri-alessandrine agli albori dell’Italia repubblicana.

FEDE E DEVOZIONE POPOLARE

Il Ponte del Carmine deve il suo nome al culto della Madonna del Carmelo, o del Carmine, la cui devozione è molto sentita in val Borbera e in particolare proprio nei due comuni ai lati opposti delle “strette”, il tratto di strada su cui sorge il ponte: Borghetto Borbera e Cantalupo Ligure. Non è dunque un caso se proprio verso il “Ponte rotto”, il 12 giugno 1945, si snoda una imponente processione di “ringraziamento” per “scampati pericoli” dei fedeli di Cantalupo Ligure e di tutta la valle, come recita la lapide collocata proprio nel punto in cui il ponte era crollato sul versante cantalupese.

Un’altra grande manifestazione di devozione ha luogo l’anno successivo, alla presenza questa volta di don Giuseppe Pollarolo, prete partigiano – e poi prete-operaio – notissimo per i suoi filmati che illustrano momenti della vita partigiana nei distaccamenti[13]. Fu lui a presiedere la ”grandiosa processione e il vespro”. Ma con il ritorno della pace e il sapore della libertà, la Festa del Carmine torna alla sua antica tradizione, in cui sacro e profano si intersecano strettamente. La festa infatti si protrae sino a sera con l’inaugurazione, subito dopo la processione, ”del campo sportivo con l’incontro tra l’U.S. Cabellese e l‘A.S. Cantalupese”. Anche don Pollarolo non disdegna di partecipare a questi momenti extra funzione, dapprima ”con un brillante discorso” con il quale ”interessò il numeroso pubblico nell’ampia piazza”, e, alla sera, proponendo la sua passione per la cinematografia con la proiezione di ”un importante film”.

Quasi inutile sottolineare che le manifestazioni di devozione popolare, nelle loro molteplici forme e significati, quasi sempre caratterizzate da questo intreccio tra sacro e profano, segnano praticamente tutti i momenti della vita sociale in Valle Borbera, così come avviene in tutti i territori montani e contadini. È dunque impossibile affrontare la ricerca sulla storia sociale della vallata senza indagare a fondo il rapporto con la fede nelle sue diverse manifestazioni. Anche qui, si può contare su un patrimonio documentario notevolissimo, come quello conservato negli archivi parrocchiali, che rappresenta spesso anche un bene culturale di grande rilievo e importanza, sempre più a rischio di andare perduto.

RICOSTRUZIONE

“Il 3 ottobre 1944 u.s. in seguito ad attacco di forze tedesche […] le forze Partigiane della Divisione PInan-Cichero interrompevano la strada provinciale SErravalle-Cabella Ligure  […] facendo saltare con mina il ponte in cemento armato ad unica arcata sul Rio Carmine.
[…] Con la tanto auspicata liberazione questa vallata del Borbera rimaneva completamente isolata a tutte le comunicazioni e tutti i traffici che affluivano da e per il Novese erano completamente paralizzati.
Di fronte a questo insostenibile stato di cose questa amministrazione in accordo con quelle dei Comuni di Cabella e di Mongiardino decide di riattivare il traffico […] mediante la costruzione di una strada idonea al passaggio dei veicoli ed autoveicoli leggeri”[14].

Come scrive il Sindaco di Rocchetta Ligure, la ricostruzione del Ponte del Carmine è naturalmente uno dei primi impegni del dopo Liberazione.
Il primo impulso per l’avvio dei lavori parte direttamente dalla Pinan-Cichero che tuttavia, nel giro di pochi giorni, a inizio maggio 1945, lascia le redini del progetto di ricostruzione “ad un’apposita commissione”[15]. Ma i partigiani, se lasciano rapidamente le responsabilità amministrative alle nascenti Giunte comunali, continuano però a dedicare attenzione alla ricostruzione del ponte: il 15 maggio, pochi giorni dopo aver ceduto la guida della commissione, il Comando della divisione Pinan-Cichero versa al sindaco di Rocchetta Ligure Giovanni Lovotti la somma di 30.000 lire ”quale contributo partigiano per la pronta riattivazione del transito al Ponte del Carmine”[16].
In effetti i lavori partono subito: viene immediatamente costruita una passerella per il transito pedonale e di veicoli leggeri, e poi, tra il 1946 e il 1947, con il concorso di tutti i Comuni della Valle e di Altri Enti, il ponte viene rapidamente ricostruito.

Luglio 1947: il nuovo POnte del carmine in costruzione

Un nuovo ponte, e una nuova storia per la Valle. Ma, come sempre è accaduto per la Valle Borbera, anche questa nuova storia è ambivalente e contraddittoria.
Da una parte troviamo un progressivo rilancio del turismo e della valorizzazione del territorio, con iniziative di carattere economico, ludico, sportivo e culturale, anche di recentissima realizzazione. Ma dall’altra bisogna registrare il progressivo e inesorabile declino della Valle, rappresentato simbolicamente dal processo di spopolamento. I 15.000 abitanti dei 7 Comuni dell’Alta Valle Borbera di fine Ottocento sono diventati 1.800 ai nostri giorni.
Ciò che resta intatto è un patrimonio di cultura, saperi, tradizioni, storie e storie di donne e uomini che merita, e attende, di essere studiato e valorizzato.


[1] Ministero industria, agricoltura e commercio, BOllettino di n otizie commerciale, 20 agosto 1879. P. 22.

[2] “La Società”, 9 giugno 1872.

[3] Il libro di Lazagna Ponte rotto venne stampato per la prima volta per le Edizioni “Il Partigiano nel 1946 e poi in successive ormai introvabili edizioni. L’ultima edizione, ancora facilmente reperibile in commercio, è dovuta alle Edizioni Colibrì nel 2005 (ultima ristampa 2019)

[4] Riprendo l’espressione dal notissimo volume di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza, Bollati Boringhieri, 1991.

[5] Lorenzo Torre, Marco Secondo Marco. Polizia partigiana in val Borbera, 1943-1945. Divisione Pinan-Cichero, Impressioni Grafiche, 2023, p.128.

[6] Lorenzo Torre, Marco Secondo Marco, cit., p. 165.

[7] Lorenzo Torre, Marco Secondo Marco, cit., p. 155-160.

[8] Cfr. Archivio del Comune di Rocchetta Ligure, Relazione del Sindaco, 27 agosto 1945.

[9] Giampaolo Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, Laterza, 1967, riedizione ampliata cun una intervista all’autore 1997. Per il rastrellamento invernale, cfr. pp. 309-311 di quest’ultima edizione.

[10] Daniele Borioli, Roberto Botta, Civili, militari e fascisti di fronte al conflitto negli atti della Commissione centura postale di Alessandria, in ”Quaderno di storia contempornaea”, n. 17-18, pp. 59-78.

[11] Archivio di stato di Alessandria, fondo RSI, “Relazioni sulla corrispondenza censurata” , Settimana 25-31 dicembre, stralcio n. 53 da Cantalupo Ligure.

[12] LOrenzo Torre, Marco Secondo Marco,, cit. Pp. 101-102.

[13] Cfr. Omaggio di devozione alla Beata Vergine, in ”Il Popolo Dertonino”, 22 agosto 1946-

[14] Cfr. Archivio del Comune di Rocchetta Ligure, Relazione del Sindaco, 27 agosto 1945.

[15] Archivio del Comune di Rocchetta Ligure, Presidente CLN, Ripristino passaggio di Pertuso, 11 maggio 1945.

[16] Archivio del Comune di Rocchetta Ligure, Ricevuta n. 1, 15 maggio 1945.

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