Libri, opuscoli, libelli, pamphletOltregiogoStoria

Il Chitandrino, un antico vino locale scomparso

Spesso la narrativa storica viene fruita dal lettore più sotto l’aspetto della storia, delle vicende trattate, che non sotto il profilo della documentazione, che ne costituisce lo sfondo e l’ambientazione.

Si tratta di un fatto comprensibile, infatti il lettore che si avvicina a questo tipo di letteratura lo fa più per amore della trama: in fondo si mette a leggere un racconto, un romanzo e ciò che gli interessa è vederne lo svolgimento e il finale, poco importa se quei particolari che definiscono il contesto, conferendogli credibilità e concretezza, siano un’invenzione dello scrittore o un dato reale da lui raccolto attraverso delle ricerche.

Diverso è il caso di chi si avvicina a un testo di questo tipo se è animato dalla passione storica, perché sarà molto più motivato a soffermarsi sulle informazioni relative all’epoca trattata e, soffermandosi, magari anche a farci qualche piccolo ragionamento.

Essendo io una modesta scrittrice di testi narrativi a sfondo storico, mi sono ritrovata in questa situazione rileggendo un’opera che mi ha sempre intrigato molto per i suoi riferimenti al nostro territorio: parlo del Folchetto Malaspina di Carlo Varese.

Carlo Varese (Tortona 1793 – Rovezzano 1866) fu uno scrittore ascrivibile alla corrente dei manzoniani, cioè agli autori che rifacendosi alle opere dell’inglese Walter Scott si dedicavano alla stesura di romanzi storici.

Edizione del Folchetto Malaspina del 1865, seconda edizione riveduta dall’autore. Ristampa a cura della Pro Julia Dertona, Tortona, 1984

Il Folchetto Malaspina è appunto uno di questi testi a sfondo storico, particolarmente pregevole ai nostri occhi perché ambientato nelle nostre zone.

I fatti narrati si svolgono nel XII secolo, all’epoca dell’assedio di Tortona da parte di Federico il Barbarossa. Ovviamente il protagonista è il giovane che dà il titolo all’opera, figlio del signore di Montebore, quando il luogo era conosciuto per il suo castello quasi imprendibile e meno per essere la denominazione di un formaggio pregiato.

Folchetto è il classico eroe buono, reduce dalle Crociate ed esponente di spicco della fazione dei popolari all’interno del libero comune di Tortona.

Non è questo il contesto però per approfondire le vicende trattate nel romanzo di Varese, magari ci torneremo in un altro articolo, quello che invece vogliamo sottolineare è la grande quantità di informazioni storiche che vi sono contenute, informazioni sicuramente tratte da documenti, ma anche frutto di tradizione orale di cui è quasi impossibile ritrovare le tracce.

Nel romanzo, che ricordo è ottocentesco, vengono descritti aspetti paesaggistici, usanze medievali, e molti luoghi di grande interesse storico come l’Abbazia di San Pietro in Precipiano, località nel Comune di Vignole Borbera, sulla riva destra della Scrivia, legata alla storia della città romana di Libarna, luogo a cui Varese dedica una parte approfondita, citando anche gli studi contemporanei in merito del canonico Bottazzi.

Sicuramente a inizio ottocento, sia Bottazzi che Varese, hanno potuto osservare tracce archeologiche oggi scomparse, come i resti dei piloni del ponte romano di Libarna che congiungevano parte della città con l’altra sponda del fiume.<1

Essendo una lettrice di Chieketè so che altri articoli hanno approfondito l’argomento, quindi procederei in direzione di Precipiano, ripromettendomi di tornare sull’argomento qualora suscitasse dell’interesse.

Dell’importante Abbazia di cui lo zio del protagonista, Giordano Malaspina, è l’Abate, Carlo Varese fornisce una descrizione piuttosto generica delle strutture, sicuramente molto modificate a inizio ottocento, a parte la torre, ma si sofferma in modo minuzioso sullo stile di vita dei monaci, frutto sicuramente di suoi studi storici, essendo lo scrittore anche un fine conoscitore della nascente antropologia culturale.

Ritratto di Carlo Varese, tortonese di nascita, conosciuto come romanziere, ma in realtà medico, operante per un certo periodo a Voghera.

Ecco come Carlo Varese ci descrive l’itinerario per arrivare al luogo del Monastero:

Superati questi ostacoli, il sentiero scorre lunghesso la Borbiera (dice proprio così, non solo la Scrivia, la Capraia, pure la Borbera, segno che, nell’Ottocento, questi corsi d’acqua erano denominati al femminile) e sul terreno spesso molle e fangoso delle alluvioni sempre mobili e varie, conduce ad un meschino villaggio [non se la prendano i cittadini, sicuramente quel “meschino” significa “piccolo e povero”], e che la Borbiera stessa lambisce, e talora spaventa, e che vien detto Vignole [toponimo legato alla coltivazione della vite]. Qui giunto il viaggiatore che cerca la terra di Varinella, abbandona il torrente piegando a sinistra verso Chitandrino [ecco comparire il primo riferimento], luogo assai rinomato per la bontà de’ suoi vini, si avvolge per una strada sassosa, che appena merita nome di strada: dopo due ore di stentato cammino egli arriva alla meta del suo viaggio, quando è stato abbastanza fortunato da non rompersi il collo tra i precipizi che lo fiancheggiano.

Oltrepassato il bosco anche al dì d’oggi chiamato Barilati, è forza calare in un torrente detto la Capraia, le acque simili a quegli spensierati che sciupano in sei mesi la rendita di un anno, mormorano con orgoglio in primavera e in autunno, intanto che sono condannate ad un umiliante silenzio nelle successive stagioni. Siccome però la strada s’inoltra per un bel pezzo rasente al letto del torrente stesso, è facile concepire che il selciato non deve essere troppo favorevole a chi lo corre in fretta; e ciò per la ragione inversa che ai nostri giorni fa plauso all’invenzione delle rotaie di ferro destinate ad offerire una resistenza minima alle vetture e alle bestie che le trascinano.

Piccola annotazione di tipo letterario:  faccio notare che, al di là del linguaggio ottocentesco, nella scrittura di Carlo Varese c’è posto per molta ironia, che modernizza tantissimo i contenuti del libro.

Dalla descrizione che abbiamo appena esposto, si capisce che l’autore conosceva molto bene i luoghi e che questi erano, ai tempi, molto più impervi degli attuali, rendendo l’Abbazia, forse sorta su di un’area sacra di Libarna2, un luogo protetto dalla conformazione naturale del territorio. L’autore così la descrive:

Al confluente dei due torrenti Scrivia e Borbiera, in una valle, che sta di fronte all’antica strada Postumia…nelle vicinanze di Libarna e in gran parte costrutta cogli avanzi di quella infelice città, sorgeva l’abazia di Precipiano, opera della divozione di Liutprando re dei Longobardi. Dissi sorgeva, benchè tuttora, cadenti sì, ma abitati sieno in gran parte gli appartamenti che già ricettarono gli antichi loro padroni: però la chiesa, un’ala del fabbricato, e soprattutto un curioso tempio sotterraneo che serviva di cantina al soppresso monastero, non sono adesso che un mucchio di macerie le quali attestano l’antica magnificienza. Questo tempio, a giudicarne dagli avanzi, dovea essere uno dei più antichi monumenti che vantar potesse la desolata Tortona.

Cartolina raffigurante il parco della Villa di Precipiano con la torre abbaziale.

Nella foto risalente agli anni ‘50 del novecento è bene in evidenza la torre abbaziale che ha subito numerosi interventi di ristrutturazione susseguitisi nel tempo.

Torniamo però all’argomento principe di questo articolo, cioè il Chitandrino, il vino che veniva prodotto in loco dalle vigne situate sui possedimenti del monastero:

…quel tempio che più tardi, né so per qual ragione, venne destinato a custodire un esercito formidabile di tini, di botti e di fiaschi, che non poco contribuivano a far amare dai loro vicini quegli ottimi claustrali.

Il pregiato Chitadrino veniva dunque prodotto dai monaci stessi all’interno dell’Abbazia e deriva il suo nome dal toponimo sopra citato riferito alla zona in cui si trovavano le vigne.

Immagine scherzosa, sul tema scherza anche Carlo Varese, che illustra il disappunto di due monaci anziani nello scoprire un giovane frate che, per zelo, ha effettuato troppe “degustazioni”.

I monaci furono sicuramente buoni vinificatori, come dimostra la leggenda che riguarda l’invenzione dello Champagne che viene attribuita a Dom Pierre Pérignon (1668, nell’Abbazia di Saint-Pierre Hautvillers); si tratta di una leggenda la cui veridicità è dubbia, mentre sicuramente vero è il fatto che le comunità monastiche furono custodi del sapere enologico.

Dalla contea di Champagne ritorniamo alle nostre vigne, vigne che oggi non esistono più, vigne che si trovavano sulle alture alla confluenza della Scrivia e della Borbera (ormai la chiamerò così pure io).

Queste vigne producevano il vino che Carlo Varese ripetutamente descrive come pregiatissimo. Ma che vino era il Chitandrino?

Nel romanzo non ci viene detto se fosse vino rosso, si sarebbe detto nero qui da noi, o bianco, ma dai cibi descritti come consumati sulla mensa deduciamo che sicuramente fosse un vino rosso, anche piuttosto robusto e di alta gradazione.

I cibi offerti agli ospiti di riguardo del monastero di Precipiano erano

grossolane vivande, di carne di bue e di maiale avvolte nel pepe, e di braciuole di quest’ultima carne porcina fritte col pane grattugiato, oltre a certa salsa…che chiamavasi “piperata”.

Sembra evidente che un tale pasto fosse accompagnato da un vino rosso e nella descrizione mi colpisce la braciola impanata forse antenata della bistecca alla milanese e la salsa cosiddetta piperata che ricorda i bagnetti che accompagnano il classico bollito alla piemontese.

Leggendo il riferimento a questo vino scomparso, essendo oggi la zona priva di vigne, mi sono chiesta se per caso si trattasse di un’invenzione di contorno dello scrittore, ma la sua conoscenza dei luoghi mi ha convinto del contrario.

Quindi mi sono messa alla ricerca di toponimi che, oltre allo scontato Vignole, potessero confermare l’esistenza di questo vino.

Così ricercando ho trovato che ancora oggi esiste una strada, sulla riva destra della Scrivia, che parte da Varinella e si dirige verso Vignole, che si chiama appunto Strada Chittandrino e che esiste anche una cascina il cui nome è appunto Chitandrino. Il nome della strada contiene una doppia “t”, frutto di una variazione linguistica avvenuta nel tempo.

Non contenta di averla trovata online, sono andata a cercarla e l’ho trovata, scoprendo anche che nel 2002, in seguito all’evento alluvionale che aveva danneggiato il ponte tra Arquata e Vignole, questa antica strada era stata utilizzata per deviare il traffico.

Durante la stessa perlustrazione, giunta a Precipiano, non visitabile essendo una struttura privata, ho potuto riscontrare una scritta su di un edificio che dimostra che fino a non moltissimi anni fa su quei sedimi era presente una grande tenuta agricola, così importante da avere una portineria a lei dedicata.

Oggi, a parte la villa e il bel parco, la tenuta è stata sostituita da edifici a scopo industriale che non poco hanno modificato quello che poteva essere il paesaggio naturale e agricolo del posto.

Resta il fascino, se si è capaci di dedurlo, per un luogo che ha visto l’alternarsi delle epoche storiche fin da tempi antichissimi.

Via Chittandrino a Varinella (Comune di Arquata)
La scritta “Tenuta Precipiano – Portineria”.

Concludendo possiamo affermare che il Chitandrino non è un vino d’invenzione, ma si tratta del prodotto di vigne ormai scomparse di cui Carlo Varese ha raccolto la memoria, un vino che abbiamo immaginato rosso per il suo abbinamento a succulente carni, un vino che non c’è più e di cui non possiamo assolutamente evocare il gusto.

Come suggerito in precedenza il Folchetto Malaspina è un’opera di grande interesse, non solo letterario, ma anche storico per le innumerevoli informazioni relative al nostro territorio, come quella relativa alla strega, o come la chiama lo scrittore maliarda, Pattumeia con il suo antro a Varinella. Ma questa è un’altra storia che, se vi piace, vi racconterò un’altra volta.


  1. L’esistenza di edifici romani a Precipiano e di un ponte che li collegava a Libarna è dedotta dal Bottazzi sulla base di reperti da lui visionati ma non trova riscontro negli studi archeologici più recenti ↩︎
  2. v. nota 1 ↩︎

3 pensieri riguardo “Il Chitandrino, un antico vino locale scomparso

  • Davide Canazza

    I resti di una pila del ponte che collegava Libarna a Precipiano erano visibili ancora pochi anni fa, e forse esistono ancor oggi. Ho una foto scattata alla fine degli anni ’90 di quei resti.

  • Marisa Morassi

    A casa mia , località Erzi .essendo stata casa abitata dai monaci Olivetani monaci dipendenti da Pecipiano ,poi appartenuta alla Fabbriceria di Ronco Scrivia c’era una vite di uva nera con piccolissimi acini ,che maturava a luglio per Sant’anna tutti la chiamavano “ Uva di Sant’anna .vitigno medioevale ,a Variano l’avevano in molti.Poi tolta da mia mamma, per mettere una rosa.
    Quella casa era usata dai frati Olivetani per abitazione . Il loro reddito economico più importante era concentrato su ciò che , la natura offriva ..Un grosso essiccatoio per castagne essendo tale proprietà vicina ai boschi Vicino al fiume Borbera esisteva una fornace per fare la calce essendo prezioso il materiale del Bricco della Bolla ( la montagna che, apre l’inizio della Val Borbera sulla sinistra della strada andando verso Cabella ) Dai racconti della mia nonna paterna.Il vitigno Chitandrino cambiò nome in “Uva di Sant’Anna “.

  • Andre vignoli

    Gran nell’articolo, che ci lascia curiosità. Approfondisci, Mariangela!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *