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1922, lo scudetto diventa biancoceleste

Introduzione.

Sempre più frequentemente, sovente con il corredo di una documentazione fotografica accurata e a volte inedita, ci stiamo confrontando con saggi e volumi che ricostruiscono le storie del calcio italiano a suoi albori. E’ una letteratura che guarda con interesse soprattutto al calcio delle piccole realtà, in cui il il football nasceva per lo più come evoluzione dell’attività delle società ginniche, incontrando però poi un crescente consenso perchè giocato all’aperto e quindi fruibile anche dal pubblico e, per tale ragione, momento di aggregazione e divertimento. Se individuiamo il primo dopoguerra come momento di svolta verso un calcio più strutturato, in campo e fuori, in cui si affacciano teorie tattiche e strategie gestionali, la storia dello scudetto della Novese acquista un rilievo e un significato che vanno al di là della semplice affermazione sportiva. Uno scudetto vinto certamente in una competizione che non raccoglieva le realtà più attrezzate e competitive ma che aveva comunque alle spalle idee, visioni e progetti, legati a conoscenza e competenza, oltre a un solido legame col territorio. La fitta letteratura prodotta in questi anni racconta bene il percorso dei bianco-celesti e merita di essere riconosciuta come strumento di fondamentale importanza per il racconto di quella impensabile ma meritata affermazione.1

“Anche il campionato federale è finito. U.S. Novese batte Sampierdarenese: 2-1
CREMONA, 28 maggio: Il match si è disputato in un ambiente saturo di entusiasmo e di elettricità. L’entusiasmo lo avevano portato i buoni cremonesi che erano accorsi sul campo; l’elettricità gli irrequieti partigiani delle due squadrò, venuti in gran numero dalla Liguria e dal Piemonte. Il contrasto fra i partigianite stato forse più violento di quello fra i giooatori. Ognii fase di gioco, si può dire, è stata sottolimeata da applausi o da rumori, e sovente la partita parve ad un pelo dall’essere sospesa per l’intemperanza del pubblico. I dirigenti dell’U. S. Cremonese, l pubblico stesso — quello di Cremona, s’intende — hanno fatto del loro meglio per portare in porto la partita, riuscendo ad impedire la minacciata invasione del campo. Il match è stato accanitissimo, ma tecnicamente poco bello. Esso ha dovuto protrarsi nei due tempi supplementari per giungere ad una soluzione. Entrambe le squadre erano degne della vittoria. Nella prima mezz’ora di gioco la superiorità fu della Novese, poi la Sampierdarenese si riprende e segna subito un goal, su corner. Il secondo tempo vede l’U. S. Novese all’attacco; poi la Sampierdarenese è a un pelo dal cogliere un nuovo punto, ma negli ultimi minuti Novi domina: una intricata melée (mischia, ndr) favorisce il pareggio. I tempi supplementari sono stati attaccati con grande ardore, malgrado che la temperatura fiaccasse molte energie. Verso la fine del secondo quarto d’ora l’U. S. No¬ vese riesce finalmente a segnare un altro punto, vincendo cosi l’incontro ed aggiudicandosi il titolo di campione federale italiano.”


Mario Ferretti

Così la Gazzetta del Popolo, nella sua edizione del 29 maggio 1922, raccontava l’atto finale del campionato federale di calcio che assegnò lo storico, unico scudetto della storia della società biancoceleste. Quell’anche del titolo dell’articolo, che riepilogava la cronaca della partita, svelava in maniera inequivocabile la scarsa considerazione con cui un giornale influente come la Gazzetta del Popolo aveva seguito le vicende di quella manifestazione, ritenuta di secondo piano rispetto a quella che vedeva coinvolte le grandi del football di quel tempo. E qui occorre fare un passo indietro e soffermarsi sul clima e gli equilibri che dominavano il mondo del calcio italiano in quei mesi. Nell’estate del 1921, infatti, si era verificato quello che le cronache del tempo descrivevano come lo “scisma”. Tutto nasceva dall’evidente scontento dei grandi club, insoddisfatti della gestione del campionato di Prima Categoria, in cui convivevano realtà che sotto il profilo organizzativo e tecnico avevano oggettivamente poco da spartire tra loro. Il nascente calcio metropolitano o, semplicemente, quello più attrezzato ad alti livelli, dunque, non accettava più di partecipare a tornei che, nel tempo, si erano ingigantiti a dismisura: un numero esagerato di squadre imponeva che si giocassero troppe partite e, per un mondo che ormai occhieggiava al professionismo, questo significava anche trasferte sovente disagevoli e rischio di qualche figuraccia.

Vittorio Pozzo,2 futuro commissario della Nazionale, proprio in relazione a questa situazione di evidente ingovernabilità, in quei mesi aveva elaborato, un progetto (non caso definito “Progetto Pozzo”) che ipotizzava di scremare drasticamente gli organici dei campionati, sulla base di precisi criteri che rimandavano al valore tecnico della squadra, all’anzianità del club e alla sua solvibilità economico-finanziaria. Un’idea che non poteva piacere alla stragrande maggioranza delle società, con un’ipotesi di campionato articolato su 2 gironi da 12 squadre l’uno e l’estromissione di 40 dei 64 club aderenti alla FIGC, l’organo di governo del calcio. Di qui la scissione, ratificata nella riunione del 24 luglio della stessa FIGC, con una votazione in cui le società “minori” ottenevano una schiacciante minoranza.

Nonostante i tentativi di mediazione dei giorni successivi, il dado era tratto, con la scissione e l’inevitabile creazione di una nuova federazione, la Confederazione Calcistica Italiana (CCI) che comprendeva la Pro Vercelli, laureatasi campione d’Italia proprio in quei giorni, la Juventus, il Torino, l’Alessandria, il Casale, il Novara, il Genoa, l’Andrea Doria, lo Spezia, il Savona, la Milanese, il Milan, l’Internazionale, il Legnano, il Brescia, il Bologna, il Modena, il Mantova, il Padova, i Neroverdi lagunari, l’Hellas Verona e il Vicenza, a cui si aggiunsero. dal girone centro-meridionale, Pisa e Livorno. E non finiva qui perché le adesioni continuarono ad arrivare, tanto da rendere necessaria la creazione di un livello inferiore di campionato, con spareggi finali in modo da garantire un’interazione tra i due livelli. Per l’irrigidimento della FIGC, dunque, l’Italia, per la stagione 21/21, si accingeva a vivere 2 campionati contrapposti e, indiscutibilmente, di valori molto differenti, dal momento che. nei ranghi della stessa FIGC, non erano di fatto restati club di prestigio con palmares irrilevanti.


Al via del torneo FIGC, pertanto, si ritrovarono 47 club, suddivisi in sezioni regionali. In quella piemontese prevalse la Novese che, superate successivamente le seminali, si giocò la finale con la Sampierdarenese.
Per la Novese si trattava già di un traguardo insperato anche se costruito con una determinazione in cui si mischiavano competenza e sagacia diplomatica. Nata appena due anni prima, con la denominazione Unione Sportiva Novese, la società univa, all’atto della sua fondazione, risorse ed energie di Novi FBC e Libertas FBC, i due sodalizi in attività negli anni precedenti. Per le prime “gesta” del calcio a Novi Ligure, si deve però andare addirittura al 1899, quando, analogamente a molte altre città del Nord-Italia, la pratica del football era diretta emanazione delle società ginniche. A Novi Ligure, i primi calciatori furono i soci della “Forza e Virtù” di cui si legge nelle cronache relative a tornei a Tortona e Casale Monferrato. A partire dal 1910, con il suo distacco dalla società originaria, la Forza e Virtù dava vita al Novi FBC e giocava le sue prime amichevoli affiancata poi, dal 1912 dalla Libertas FBC che in breve tempo aveva assorbito tutte le formazioni del territorio. Allenata da Alberto Parodi, la Libertas schierava, tra gli altri, Libero Parodi, Carlo Gambarotta e Giovanni Rebuffo. I due Parodi, Gambarotta e Rebuffo avrebbero poi fatto parte della futura Novese. Ma fu l’incombere della guerra a vanificare i segnali di crescita del movimento calcistico, ormai evidenti in città. Molti furono i calciatori chiamati al fronte, mentre il campo della Collinetta, teatro delle partite di quegli anni, venne addirittura requisito per convertirlo alla coltivazione del grano.


La necessità di fondere il massimo impegno in un’unica società di calcio parve chiara con la fine degli eventi bellici quando, per iniziativa di tre giocatori del Novi FC, Natale Beretta, Agostino Montessoro e Armando Parodi si avviò la fase di costituzione della Novese. “Per desiderio e volontà di numerosi sportivi”, il 31 marzo 1919 il nuovo sodalizio si costituiva ufficialmente nominando come presidente il cavalier Pietro Catalano. Ma l’esperienza di Catalano era destinata a durare poche settimane. Il 28 luglio, infatti, per acclamazione, una nuova assemblea di soci eleggeva a capo della società Mario Ferretti, emblematicamente poi passato alla storia col soprannome di Sire. La scelta cadeva su un personaggio che da subito non avrebbe nascosto le sue strategie ambiziose e lungimiranti, dalla realizzazione de “Il Bianco Celeste”, vero e proprio house organ del club, attento e puntuale nel diffondere la voce della società, all’idea di costruire un nuovo impianto sportivo per “dotare di comodità moderne” sportivi e tifosi. Un orientamento che puntava all’edificazione di uno stadio in linea con le ambizioni di una città, già alla ribalta per le imprese del Campionissimo, Costante Girardengo.

Il progetto diveniva realtà nel giugno del 1920, non senza provocare critiche e un acceso dibattito tra le forze politiche locali.3 Alla sua realizzazione concorrevano il sostegno di alcuni imprenditori novesi, quello dello stesso Ferretti, oltre alle risorse derivanti da una pubblica sottoscrizione. L’opera, realizzata nella parte orientale della vecchia Piazza d’Armi, veniva inaugurata il 6 giugno 1920, senza peraltro che venisse approntata la realizzazione delle tribune. Quel giorno, un perentorio 4-0 contro le riserve del Casale dava avvio a una serie di amichevoli di fine stagione, sempre salutate da una vasta ed entusiastica partecipazione. Ma l’intenzione, nemmeno troppo nascosta del club biancoceleste, era quella di iscriversi al massimo campionato di Prima Categoria. Un obiettivo per il quale era partita una fitta corrispondenza tra la stessa società e la FIGC con un dettagliato memoriale che il club di Ferretti aveva prodotto a sostegno della propria candidatura. Esaminato il caso, la Federazione non riteneva che la società biancoceleste fosse in possesso dei requisiti per il passaggio alla categoria superiore, chiusura resa ancor più insanabile dalle posizioni assunte dalle società piemontesi, e tra queste la Novese, in merito ad alcune decisioni federali in materia di organizzazione dei campionati, con la decisione, da parte degli stessi club di dare vita a una nuova organismo, la LIGC. Uno strappo che sarebbe stato presto ricucito, senza però che la Novese raggiungesse il proprio scopo. E si ripartì per la nuova stagione, coi bianco-celesti in Promozione e le loro avversarie rassegnate a subirne lo strapotere.

Aristodemo Santamaria

Da mesi, infatti, la società biancoceleste andava costruendo un organico di qualità, assolutamente idoneo a reggere il confronto con squadre di categoria superiore. In momenti diversi, nell’estate del 1920 erano stati ingaggiati giocatori capaci e già affermati come il 32enne Aristodemo Santamaria, campione d’Italia col Genoa nel 1915, il 24enne Neri e il portiere Stritzel, 27 anni, in arrivo dalla Triestina, di cui era stato uno dei fondatori, atleta dal vissuto avventuroso in giro per l’Europa e certamente meritevole di un racconto a parte. A loro, si sarebbero aggiunti, oltre a calciatori provenienti dalle società novesi come Grippi, Lazoli II dall’Alessandrina, Bertucci e Bagnasco della Doria e Toselli della Rivarolese. E quel campionato di Promozione si rivelò, come temevano le avversarie, un’autentica passeggiata per i bianco-celesti, guidati da una commissione tecnica diretta da Santamaria e seguiti, in veste di massaggiatore, da Biagio Cavanna, già preparatore di Girardengo e poi Guerra e Coppi. L’evidente divario di valori tra Novese e avversari portò a uno svolgimento del tutto anomalo di quel campionato di Promozione, con molte rinunce e vittorie assegnate “a tavolino” a Santamaria e i suoi. Il 29 maggio 1921, nella gara casalinga contro la Trinese, si chiudeva ufficialmente la stagione. Il 3-1 finale sanciva una superiorità di valori, peraltro mai in discussione, con 58 gol all’attivo e solo 4 subiti.

Ma altri problemi erano in agguato e quel salto di categoria tanto atteso e meritano doveva confrontarsi con i contrasti e le contrapposizioni all’interno della Federazione che avrebbero portato alla nascita di leghe differenti e due campionati. L’intraprendenza di Ferretti, consapevole del livello certamente non eccelso del torneo a cui si era iscritta la sua società, portò, tra gli altri, all’ingaggio dei fratelli Cevenini, guidati dal talentuosissimo Luigi per tutti Zizì, ingaggiati dall’Inter e del prezioso Vercelli, prodotto del fiorente vivaio dell’Alessandria. Superata agevolmente la fase eliminatoria regionale, i bianco-celesti se la vedevano con i padovani del Petrarca e la Pro Livorno e, superandoli, accedevano alla finale per l’assegnazione del titolo da giocarsi contro i rossoneri della Sampierdarenese. Due finali, entrambe terminate in parità, portavano alla “bella” e qui torniamo al 22 giugno di quel 1922 a Cremona, sede scelta per ragioni di ordine, dal momento che a Ferrara, città originariamente scelta per la finalissima, contro la squadra locale, la Sampierdarenese aveva staccato il biglietto per l’ultimo atto della competizione.

Di quella Novese e di quel giorno, Carletto Gambarotta autore del gol che consegnò lo scudetto ai bianco-celesti raccontò così a Gianni Mura4:

“Caro lei, tutti eran professionisti, mica solo Zizì. Stritzel, portiere, triestino; Vercelli, numero 2, veniva dall’ US Torinese, Grippi, 3, palermitano, ma militare a Trieste col segretario Beretta, subito agganciato, Cevenini I e III, numeri 4 e 9, più Asti, 11, dall’ Ambrosiana, Bertucci 5 dall’ Andrea Doria, Toselli 6 dalla Rivarolese, Neri 8 e Santamaria 10 anche loro genovesi. Di Novi, solo io, l’ unico a lavorare con mio papà, avevamo un’ officina meccanica, e un negozio di bilance. Allenamento solo il giovedì, gli altri figuravano come impiegati al cotonificio Colombo, il cui direttore amministrativo era Ferretti, in pratica ammazzavano il tempo. Gli allenamenti li dirigeva Santamaria: molta ginnastica, corda, dribbling fra pigne di mattoni per affinare il piede, molte prove sull’ uno-due, che era il modo migliore di andare in porta. Qui prima della guerra allenava Fresia, un modenese, uno come oggi Platini. Ho giocato nell’ Alessandria, mi voleva poi la Reggiana ma mio papà non era d’ accordo, ma lei mi chiede come si giocava. Più o meno alla velocità di oggi, ma applicando il metodo. Si tirava di più in porta. C’ era più spettacolo, si giocava davvero, oggi al massimo si gioca 50 minuti. Dunque, la partita di Cremona. Io ero un tipo alla Fanna o alla Laudrup, veloce, stringevo e avevo un bel tiro. Però giocavo anche laterale, cioè terzino, una volta ho marcato Levratto senza mai farlo tirare in porta. A Cremona ha segnato prima l’ Andrea Doria con Mura, ha pareggiato Neri, poi c’ è stato l’ episodio che ha incendiato la gente. I nostri tifosi erano una trentina, venuti con poche macchine, i loro 1600 con un treno speciale. Passando vicino al nostro Vercelli, il terzino Grassi, un veneto, gli ha detto: va in mona ti e to mare. Vercelli era un bravo ragazzo, ma guai a toccargli la madre. Gli ha sparato un cazzotto al mento. Grassi è andato giù picchiando la testa contro il palo, svenuto, sembrava morto, è stato fuori mezzora, l’ arbitro Agostini di Firenze non ha visto niente. Ho segnato il 2-1 all’ 8′ del secondo tempo supplementare: da Santamaria a Asti, sulla sinistra, cross, il terzino loro è scavalcato, io accompagno la palla col petto e all’ altezza del penalty, come esce il portiere, trovo la lucidità per metterla dentro di esterno destro”. E poi? “Poi è successo il finimondo, il prefetto ha chiamato le guardie regie, fuori dagli spogliatoi ho preso un calcio nel sedere che mi ha sollevato da terra, Santamaria ha beccato una bottiglia di birra nello stomaco, volavano sassi grossi così, all’ albergo ci hanno scortato uomini armati. Siamo rientrati a Novi alle due di notte e ci hanno raccontato dell’attacco al treno”

“Sui libri non ho letto niente: com’ è andata?”, lo incalzò ancora il giornalista

“Che quelli in macchina sono tornati a Novi e hanno detto che i genovesi ci volevano linciare, così i novesi hanno fatto un’ imboscata al treno dei genovesi, appena c’ è la salita e rallenta, al ponte dello Zerbo. Sassate e revolverate, e pim e pum di qua e di là, nel buio. Però non è morto nessuno”. Mi vede un po’ stranito: “Cosa credeva? Gliel’ ho detto, è cambiato poco in campo e fuori. Dappertutto. Giocare a Pisa e Livorno, era duro. Cazzotti, ombrellate, sassi: sempre stati. Però una volta nessuno usava il coltello, nessuno”.

Le critiche all’operato dell’arbitro della gara, ferocemente accusato di favoritismi da cronisti e supporters della Sampierdarenese, tenevano banco nei giorni seguenti mentre prendeva sempre più la voce di un disimpegno economico di Ferretti nella gestione del club. E il traguardo, così insperato eppure prestigioso, lasciava spazio a qualche legittima apprensione sul futuro del club.

  1. Per la ricostruzione delle vicende relative alla storia della Novese si rimanda a S. CAVAZZA, Una Novese da scudetto: 1921/22, Scuola Tipografica S. Giuseppe, Tortona, 1969; M. GHIGLIONE, L’arduo cimento. Storia dell’Unione Sportiva Novese, 1919-1926, Amazon Italia Logistica srl, Torrazza Piemonte, 2019. Per gli approfondimenti sul calcio italiano nell’immediato primo dopoguerra E. BRIZZI, Il meraviglioso giuoco. Pionieri ed eroi del calcio italiano 1887-1926. []
  2. Impossibile riassumere in poche righe l’attività di Vittorio Pozzo (Torino, 1886/1968) che, nel 1921, in qualità di direttore tecnico del Torino, viene incaricato della stesura di un progetto di riforma dei campionati di calcio che originò una forte contrapposizione tra i club e la nascita di due federazioni e due campionati. Calciatore, poi selezionatore per la Nazionale Olimpica a Giochi di Stoccolma del 1912, sempre mantenendo il suo ruolo di dirigente alla Pirelli e scrivendo per La Stampa, Pozzo guida gli Azzurri alla doppia affermazione nei Mondiali del 1934 e 1938 e alle Olimpiadi del 1936. Lasciava la panchina della Nazionale nel 1948. Documenti relativi alla sua attività di tecnico e giornalista, catalogati e riordinati dallo stesso Pozzo, sono conservati in un fondo a lui dedicato presso l’Archivio di Stato di Torino. []
  3. Il Paese Sportivo, 5 gennaio 1920 []
  4. Repubblica, 31 gennaio 1986 []

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