L’acquedotto romano di Libarna – parte seconda
UN’IPOTESI DI RICOSTRUZIONE
Le nostre considerazioni preliminari
La zona di arrivo dell’acquedotto, lo studio del terreno con l’ausilio del GNSS e di Carte Tecniche Regionali di Piemonte e Liguria (scala 1:5.000), ci ha permesso di ipotizzare una pendenza media e la revisione dei dati ha tenuto conto di:
- Il letto del Rio Borlasca si allarga a 350 m slm, proprio sotto località La Cava, cioè a 750 metri da Pietrabissara; secondo i nostri calcoli la presa era a 290 m slm. La foto che il Monaco riporta sembra sia stata scattata in una zona aperta e non in una profonda gola. I ruderi sono imponenti. Potremmo ipotizzare una diga a quota 350, dove la valle è sufficientemente larga per avere un bacino artificiale in muratura e una piscina limaria che serviva a controllare la quantità̀ e la velocità dell’acqua, nonché a far decantare eventuali impurità: da lì si dipartivano dei tubi (fistule) che la portavano in basso, alla presa vera e propria dell’acquedotto in riva destra idrografica. In questo modo la portata non risentiva di sbalzi eccessivi e la pendenza del canale al suo inizio era minore. All’imbocco del canale (incile) era necessario far entrare l’acqua lentamente e gradualmente.
- E’ possibile che i detriti di risulta della cava, posta sul lato sinistro del ruscello, abbiano occultato i resti dell’acquedotto descritti dal Monaco nel 1936. Una presa a 350 m slm avrebbe comportato una pendenza iniziale del 19% per circa 400 m, veramente improponibile. Forse sotto la cava i resti osservati e descritti da Giulio Monaco riguardavano la piscina limaria sopra citata.
- Dopo quota 350 m slm il corso d’acqua precipita in una gola strettissima dalle pareti quasi verticali in sponda sinistra fino al ponte stradale di Pietrabissara. L’opera doveva essere in un canale a mezza costa sulla destra, meno ripida, dove ancora oggi esiste una strada di accesso alla cava.
- Il tratto fino all’ex confine tra la Provincia di Novi Ligure e quella di Genova (Pietra Pertusa) e da lì al Belvedere, è più facilmente ipotizzabile, compresa la galleria descritta dal Bottazzi e da Giulio Cordero di San Quintino;
- Il Poggi nel 1908 scrive che il canale si vedeva sopra e sotto la strada al Belvedere e poi compariva al Molino sulla sponda sinistra del ruscello; il Rio Acquafredda doveva essere attraversato con un ponte tradizionale;
- Utile la descrizione dei ritrovamenti nelle vicinanze di Casa del Bianco visti da Giorgio Monaco nel 1936;
- In località Ronchetto c’è la galleria a quota 261,73 m slm, che fa da perno alla nostra ricostruzione. L’erosione veloce delle marne ha alterato i luoghi: possiamo ipotizzare una valle più stretta;
- L’acquedotto attraversava con un ponte il Rio Lavandaia (il più alto del tracciato, forse 20 metri) per arrivare al versante della località La Costa.
- Il proseguimento verso Libarna continuava lungo le pendici del monte;
- Iniziava poi un canale parte scoperto e parte interrato che passava alle spalle di Arquata;
- In località Vaie e lungo la strada Campora doveva esserci un ponticello; alcuni punti sono stati indagati dalla Soprintendenza torinese;
- Con un basso viadotto nel tratto finale giungeva quasi a Libarna al castellum, sopraelevato di almeno 8 metri rispetto al piano di campagna (km 9);
Con il castellum le acque entravano in città e da lì insieme ad altre dovevano alla fine confluire nel Rio della Pieve o nello Scrivia ma, come mette in rilievo Alice Dazzi, gli studi idraulici all’interno delle città romane ben difficilmente sono oggetto di ricerche dettagliate: pozzi, canalizzazioni, condotti fognari e le stesse condutture alimentate dagli acquedotti non essendo monumentali attirano meno l’attenzione degli studiosi. Anche per Libarna è quindi necessario un approfondimento sulla gestione delle acque essendo perdipiù una situazione geomorfologica particolare con immissari (acquedotti, canali, falda, acqua piovana) ed emissari (Rio della Pieve e lo Scrivia) che doveva equilibrarsi con le necessità della popolazione e con il suo assetto edilizio. Questo gestione delle acque necessita ancora di altre indagini essendo estremamente complessa ma ha dato senz’altro ottimi risultati durante la vita della città. L’intasamento di questi canali nel periodo di abbandono è stata una delle possibili cause del crollo degli edifici e del probabile successivo impaludamento di parte del terrazzo quaternario.
Lunghezza e pendenza
L’analisi e la formulazione dell’ipotesi dell’acquedotto di Libarna è stata predisposta attraverso l’uso integrato di un rilievo sul campo tramite strumentazione GNSS topografica di precisione e di analisi spaziali e cartografiche effettuate all’interno di una piattaforma GIS dedicata. Sul campo sono stati infatti rilevati in modo accurato i punti noti dove sono stati rinvenuti ed identificati i resti strutturali dell’acquedotto. I punti rilevati sul terreno e che sono stati utilizzati quali capisaldi ritenuti affidabili nell’ipotesi ricostruttiva. I punti battuti sul terreno sono stati quindi inseriti e gestiti all’interno di una piattaforma GIS nella quale sono stati estrapolati una serie di layer cartografici specifici relativi ai dati territoriali d’interesse. Una volta predisposta la base cartografica descritta si è proceduto in modo empirico alla stesura dell’ipotesi di tracciato tenendo conto della pendenza calcolata e dei capisaldi di passaggio battuti sul terreno.
La lunghezza in linea retta tra Pietrabissara e Libarna è di circa 6.800 m; ubicando la presa nel Rio Borlasca a circa 290 m slm e il punto di arrivo a Libarna a 228 m slm più gli 8 m del castellum, il dislivello tra partenza e arrivo è di 54 m, da cui risulta una pendenza media dello 0,8%. In questo caso però occorreva scavare una galleria tra il Rio Borlasca e il Belvedere di 720 metri, più altre brevi, mentre il percorso su viadotto ad archi doveva essere 4.900 metri. Il manufatto sarebbe passato nell’alveo dello Scrivia con la conseguenza di richiedere fondazioni onerose, piloni di adeguata robustezza contro le piene e un’altezza, allo sbocco della forra di Pietrabissara, di 50 metri.
Il tracciato con una lunghezza di 9.000 metri circa e dislivello sempre di 54 metri, ha una pendenza media dello 0,6%. L’effettiva distanza sarebbe di 9,65 km dal centro di Libarna, ma riteniamo che il castellum fosse in periferia. Pur con tutta la prudenza possibile, accettiamo quindi il risultato dello 0,6%. Certamente la pendenza variava a seconda della morfologia o delle necessità idrauliche: essa non era regolare negli acquedotti e non seguiva una regola, soprattutto in galleria per le difficoltà ad utilizzare gli strumenti dell’epoca al buio e in condizioni di spazio ristretto, mentre lo è di più sulle arcate.
Il fattore economico e costruttivo obbligò, nel nostro caso, gli ingegneri romani a seguire le curve di livello molto in alto. L’opera più impegnativa era l’attraversamento del Rio Lavandaia di fronte a Località La Costa: preferirono lo scavo di brevi gallerie, di cui non conosciamo la lunghezza originaria, e di uno o due ponti. La deviazione ha una lunghezza di più di 500 metri ma lo stato dei luoghi in precedenza alla ferrovia diretta Arquata – Ronco, fa supporre che questa ha senz’altro riempito con il suo rilevato un lungo tratto a cavallo del ruscello.
La portata
Il calcolo della portata è estremamente aleatorio non potendo tener conto delle perdite, dell’attrito delle pareti, delle quantità di acqua aggiunte lungo il percorso e della sua velocità. Se ne ricava per le velocità scelte una portata tra 288 ¸ 576 m3/ora. Ovviamente il Rio Borlasca, con gli eventuali apporti dell’Acquafredda e del Lavandaia, doveva garantire almeno la portata minima teorica di 288 m3/ora.
Esistevano apporti laterali lungo tutto il tracciato, principalmente dal Rio Acquafredda (anche detto del Mulino) e dal Rio Lavandaia, più altri acquedotti minori nelle vicinanze di Libarna. Non mancavano certo dei canali di derivazione dallo Scrivia, pozzi e case che raccoglievano l’acqua piovana dai tetti.
Come era fatto
Per avere un paragone dei materiali lapidei impiegati dagli ingegneri romani in Valle Scrivia ci si può riferire a quelli usati negli edifici di Libarna. Essi provenivano:
- dalla Formazione Geologica Oligocenica di Monastero affiorante a Grondona, a Molo e Monastero in Val Borbera, arenaria a grana fine, impiegata per il teatro, edifici pubblici e privati; sono arenarie compatte, facilmente lavorabili e con maggiore resistenza all’alterazione.
- dall’arenaria di Serravalle per l’anfiteatro e i lastricati (arenaria giallastra a grana grossolana, facilmente cavabile a poca distanza); questa roccia è più attaccabile dagli agenti metereologici essendo porosa.
- marmi non reperibili in loco;
- ciottoli calcarei e metamorfici dello Scrivia abbondantemente impiegati per l’acquedotto.
- sabbia dello Scrivia;
- forse i calcari di Voltaggio;
- argilla.
Elemento determinante per ottenere un legante è la temperatura necessaria alla cottura: per la calce siamo a più di 800°. Gli ingegneri romani arrivati a Libarna avranno dovuto compiere innumerevoli esperimenti per ottenere quanto a loro serviva: la calce innanzitutto con la scelta del calcare o della marna da cuocere, l’argilla per i mattoni, il legno adatto a impalcature, le pietre da costruzione e tracciare le mulattiere per la provvista dei materiali.
Per ottenere la calce aerea potrebbero essersi riforniti a Voltaggio delle dolomie e dei calcari dolomitici. Per la costruzione abbiamo visto che si usavano anche ciottoli di diversa pezzatura che erano principalmente calcari e calcari marnosi oppure rocce metamorfiche, tutti elementi lavorati dall’acqua dei torrenti. La galleria esistente al Ronchetto è fatta con pietre di dimensioni di 20÷40 cm di lunghezza e 10÷15 cm di spessore, poste di piatto ad arco, legate con gran quantità di calce e che provengono dal Rio Lavandaia. La copertura del canale, nei tratti all’aperto, serviva per evitare polvere e animali, nonché per eludere l’aumento di temperatura dell’acqua. Lungo il percorso, ogni circa 240 passi, vi erano dei cippi aventi lo scopo di segnalarne la presenza e delimitare lo spazio riservato al canale che era circa 15 piedi (4,5 metri) da ogni lato della struttura idraulica.
I ruderi di Cà del Bianco hanno invece una malta a base di calce aerea con un aggregato sempre di sabbia locale. Anche qui è evidente il passaggio dell’acqua per la presenza di vuoti con ricristallizzazione di carbonato di calcio. Questa differenza può essere collegata a diversi tipi di cottura, oppure all’uso di calcari più o meno puri. I campioni prelevati nel 2019 dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Torino nell’anfiteatro di Libarna, hanno rilevato una malta con matrice legante bianca carbonatica e un aggregato medio di 2-3 mm. Vi è una frazione sabbiosa naturale con l’aggiunta di cocciopesto rosso, per conferire idraulicità all’impasto. Sorprendente è la composizione della malta impermeabilizzante utilizzata nell’acquedotto di Nîmes secondo George F.W. Hauck: calce, sugna e succo di fichi acerbi.
Abbiamo visto che il Bottazzi segnalò grossi mattoni cotti mentre il Monaco vicino alla Cava di Pietrabissara vide un arco a piedritti di mattoni: noi abbiamo trovato un grosso frammento di mattone il cui spessore è di 6 cm. Non abbiamo elementi probanti per definirlo romano se non il confronto positivo con quelli di Libarna: sarebbe il primo reperto di quell’epoca trovato tra Pietrabissara e Cà del Bianco.
Conclusioni
Lo studio dei tracciati proposti da altri Autori, le ricerche di campagna, l’uso del GNSS e di una cartografia con software dedicati, ha permesso di tracciare un percorso dell’acquedotto che meglio ricalca la tradizione degli ingegneri idraulici romani. Ciò ha portato a stimare la lunghezza tra la presa nel Rio Borlasca e il castellum, essenziale per il calcolo della portata. Si è ricostruito un profilo longitudinale che mette in rilievo le opere adottate per superare ruscelli e rilievi, escludendo l’esistenza di lunghi tratti su archi che avrebbero comportato impegnativi cantieri in fase di costruzione, soprattutto nell’alveo dello Scrivia, perché le strutture in elevazione possono comportare cedimenti differenziali con relative fessurazioni e aggravano la manutenzione.
I nostri parametri di portata media, pur compresi in un ampio intervallo, confermano quelli di altri ricercatori o si avvicinano a quelli di opere analoghe. Questa però deve essere la base di partenza per ulteriori affinamenti che, con auspicabili nuove acquisizioni archeologiche, confermeranno o meno i nostri risultati. Rivestono altrettanta importanza i sistemi di canalizzazione fognaria nella città romana con l’individuazione degli emissari nel Rio della Pieve e nello Scrivia.
Un’ultima domanda concerne la possibilità di salvare il manufatto al Ronchetto, la galleria lunga circa 10 metri: l’erosione della marna in cui è alloggiata secondo Edoardo Morgavi arriva in determinati punti a 2 cm all’anno, ci si deve aspettare quindi che abbia vita breve. Se gli Enti Pubblici avessero le risorse necessarie innanzitutto si dovrebbe fare un rilievo laser scanner 3D dell’interno e uno tradizionale di quanto affiora, nonché l’impiego di un drone professionale per il posizionamento e l’inserimento tridimensionale nel contesto dei calanchi. Forse la soluzione definitiva è quella di smontare l’opera e ricostruirla a Libarna, pur presentando costi e incertezze di realizzazione notevoli. L’area inoltre è un Sito di Interesse Comunitario (SIC IT1180030 “Calanchi di Rigoroso, Sottovalle e Carrosio”).
Complimenti per l’articolo. Riguardo alla malta impermeabilizzante utilizzata nell’acquedotto di Nîmes, secondo George F.W. Hauck segnalo (anche se immagino sia cosa nota) che l’utilizzo di della ricetta indicata da Plinio (utilizzo di sugna, fichi e calce) ha una sua spiegazione che è stata studiata e spiegata negli anni 90 dal dipartimento di Restauro della Facoltà di Architetettura di Genova (prof. Torsello). La sugna reagisce agli zuccheri dei fichi e fa fermentare la calce che quindi quando si indurisce risulta caratterizzata da una miriade di piccoli fori. Questo genera l’equivalente di un laterizio porizzato, il POROTON, dalle spiccate capacità isolanti. Se ricordo bene se ne parla nel libro di una delle assistenti del Prof. Torsello: “Le ricette del restauro” di Carla Arcolao, Marsilio.