I binari della mia vita: aereo, traghetto, treno
L’aereo non è il mio mezzo di trasporto preferito. Ho anche fatto un corso in Alitalia, cento anni fa, di due giorni (costo, se ben ricordo, due milioni di lire). Arrivati nella sede di Fiumicino, misero i partecipanti intorno a un tavolo affinché raccontassero le loro paure. Dopo quattro o cinque interventi credevo di essere Mandrake: chi aveva paura di uscire dal Raccordo Anulare di Roma senza la moglie, chi tremava al pensiero dei fulmini anche in un bunker, chi dormiva con la luce accesa. Poi arrivò un Comandante di lungo corso e ci rassicurò a ogni domanda. Si passò alla visita tecnica in un hangar dove potemmo constatare, ad esempio, che i circuiti per la discesa del carrello sono tre (tubi di colore diverso paralleli) oltre al meccanismo manuale e altre amenità. Al pomeriggio del secondo giorno, uno alla volta, andammo nella cabina simulata di un Boeing, dove fanno le prove ai piloti. Entrai e il pilota mi disse: «Dove vuol andare?» e io: «Da Roma a Genova». Sul “parabrezza” comparve la pista dell’aeroporto (ovviamente finto) ed avemmo il permesso di “decollare”. Sembrò tutto vero con la salita parallela alla costa, i vuoti d’aria, il rumore, i contatti radio. Ero gasato, sarei andato sull’Apollo 13 bis. La fine del corso era un volo di linea gratuito Roma – Milano e ritorno con psicologo e istruttore. Praticamente ero nel mio elemento, potevo insegnare ai piloti. Ci fecero andare in cabina a guardare e atterrammo, quasi tutti contenti e soddisfatti di quel week-end costoso e impegnativo.
Prima del corso Alitalia avevo fatto Roma – Cagliari e ritorno, più alcuni viaggi Genova – Cagliari. Forse uno o due Genova – Roma, sempre invocando l’aiuto delle preghiere di mia madre. Orbene, dopo qualche tempo mi invitarono all’Università Complutense di Madrid: c’era la combinazione al lunedì Genova – Zurigo con il Concordino e poi Zurigo – Madrid con un grattacielo volante. Il primo tratto andò bene: passai sopra casa mia, le Alpi erano uno spettacolo e così via. Nell’attesa a Zurigo iniziò un temporale apocalittico e quando salii era buio pesto. In volo mi accorsi di non sentire i motori e mi agitai. Il labile ostacolo tra la sicurezza datami dal corso Alitalia e il terrore ancestrale post Icaro crollò miseramente. Dopo due ore, ero bollito, scesi e presi un taxi. Anche lì pioveva maledettamente e su una specie di tangenziale l’auto sbandò raschiando il guard-rail: l’autista mi guardò stupito perché ridevo: non sapeva da che stato d’animo provenivo. Per farla breve al venerdì sera il professore che mi aveva invitato mi disse: «OK, allora domani facciamo un sopralluogo sull’Alta Velocità, poi andiamo all’aeroporto». «Scusami» gli dissi «ma a casa vado in treno». E lui «Ma hai il biglietto aereo per il ritorno!». Ammiccando e socchiudendo un occhio gli risposi: «Devo fermarmi a Valencia per una cosuccia». Fece un sorriso complice e non disse più niente. Partii alle 8 di mattina e dopo 24 ore esatte arrivai ad Arquata con sosta a Port Bou e cambio a Ventimiglia.
In un’altra occasione il mio viaggio avvenne in traghetto, con partenza da Olbia, e di qui proseguii in treno per Chilivani, piccolo centro in provincia di Sassari. Là mi aspettavano due geometri per accompagnarmi al cantiere della galleria tra Bonorva e Macomer. Feci l’erudito stupendoli con il far risalire il nome della stazione all’amante del progettista della ferrovia. A distanza di quasi 40 anni scopro di aver detto una delle tante mie stupidate. Ecco cosa riporta Wikipedia: «Questo insediamento nacque durante la costruzione della linea ferroviaria Cagliari-Golfo Aranci e della sua diramazione per Sassari e Porto Torres, avvenuta nella seconda metà del XIX secolo ad opera della Compagnia Reale delle Ferrovie Sarde diretta da Benjamin Piercy… Una delle teorie riguardo alla denominazione Chilivani fa risalire il nome dello scalo ferroviario e della borgata che lo circonda da quello di una principessa parsi, chiamata Kiliwani, che l’ingegner Piercy aveva conosciuto durante il suo lungo soggiorno in India, dove lavorò per la realizzazione delle ferrovie reali. La verità è che il nome di Chilivani è molto più antico: in un documento del 1643 della Mensa vescovile di Alghero è infatti citato “Su saltu de Quilivane” (cioè, l’agro di Chilivani)». Se qualcuno vede i due geometri in quello stupendo deserto può scusarmi con loro? Grazie.
Nel mio peregrinare per l’Alta Italia ogni tanto andavo a Verona dove c’era una Società di Ingegneria che stava progettando il Parco Ferroviario Roja di Ventimiglia. Stranamente un giorno la riunione finì molto presto e, tutto contento, presi il treno per Milano che aveva un leggero ritardo. Scesi di corsa in Centrale: la coincidenza con il diretto per Ventimiglia era dopo pochi minuti ma proprio sul binario adiacente vidi il cartello giallo a scritte nere appeso alla carrozza di coda. Saltai su e il convoglio partì. Mi venne il dubbio perché in genere il binario dei treni per Genova era tutt’altro però in un compartimento notai un signore che alla mattina saliva a Voghera, così mi rassicurai e sedetti quasi di fronte a lui. Non riuscii neanche a posare la borsa che a Lambrate svoltammo verso la linea per Venezia e gridai: «Si sono sbagliati! Fermi! Dobbiamo prendere la destra verso Rogoredo!» Il compagno di viaggio, molto calmo, mi disse: «Questo è un treno per Venezia» ed io sempre agitato: «Ma lei non è di Voghera?»
«Sì, ma non posso andare a Venezia?».