Ricordi isolesi parte 3 – Memorie mistiche
La Messa delle sei contava più punti, forse quanto quella cantata della domenica alle 11. Mi vengono in mente quelle mattine invernali: crosta di ghiaccio ai vetri, lenzuola di flanella, mutande lunghe e maglia di lana, il fiato condensato nello specchio subito dopo esserti passato due dita bagnate sugli occhi, un caffè con la napoletana, il cappotto e via. La sacrestia e la chiesa erano ancora più fredde di casa mia, il curato indossava i paramenti sacri e Berto l’aiutava. Anch’io mettevo la tonaca nera con la cotta bianca e mi accodavo a lui che entrava nel presbiterio. Riuscivo a scorgere nella semi oscurità le solite vecchiette, qualche operaio che poi andava a lavorare e la luce delle candele accese alla statua della Madonna della Guardia che ancora vincevano la fioca luce che filtrava dal rosone sulla parete dell’abside. Rispondevo ripetendo frasi in latino che adesso ricordo musicali, atrofizzate, consumate e ondeggianti nella cantilena dialettale. Arrivava infine, dopo un tempo che sembrava interminabile, il liberatorio “Ite Missa Est” e potevo aggiungere, oltre ai punti nella gara tra chierichetti, un nuovo mattino alla vita spensierata di allora senza minimamente immaginare che l’avrei rimpianto.
La precedente canonica aveva un’atmosfera medievale con quel bellissimo orto circondato da un muro e l’abside dell’oratorio che lo invadeva. Addentrarsi in quell’edificio non era facile e a noi piccoli sembrava enorme: al primo piano ci stava l’arciprete Don Patrone e al secondo il curato di turno. La prima sorpresa era la doppia finestra nella sala del parroco, forse unica in Isola. Oltre al freddo forse impediva agli spiriti maligni di entrare. Al piano superiore si trovava un lungo corridoio con alcune stanze numerate, probabilmente per i sacerdoti di passaggio o perché ospiti alle varie feste religiose. Ma ciò che attirava la nostra attenzione era la misteriosa porta con la targhetta “00” chiusa a chiave. Stanza del vescovo? Oppure colma di segreti liturgici? Confessionale per misteriosi personaggi? Addirittura, c’era chi asseriva fosse la comunicazione diretta con il Paradiso. Fatto sta che noi, esploratoti abusivi, ci guardavamo bene dal chiedere spiegazioni. A metà scale c’era il passaggio diretto alla parrocchiale che veniva utilizzato per non uscire all’aperto: è il portichetto che tutt’ora si vede tra canonica e chiesa. Adiacenti ci sono due stanze. Un finestrino, collocato strategicamente in una di esse, permetteva, non visti, di assistere alle funzioni religiose. La nostra spiegazione era più prosaica: da lì la perpetua poteva capire quando era il momento di buttare la pasta e ne sono convinto anche adesso. Ritornando allo “00” su quella porta mai aperta, con l’esperienza capimmo che l’eventuale sedia con baldacchino altro non era che quella banale tazza di ceramica presente in tutte le case. La vita riserva sempre amare delusioni.
Una semplice porta ti può incantare per la sua forma per il colore per la luce. È un messaggio all’inconscio con quell’uscire allo scoperto o entrare nel caldo della famiglia. Se è la soglia di una chiesa in un pomeriggio dai colori pastello è anche una questione di misticismo. Negli edifici religiosi nulla è per caso, ogni elemento è lì per comunicarti i qualcosa, e se lo sai apprezzare diventa un valore aggiunto. Questo vale anche per la chiesa di Montessoro, che ha la facciata rivolta a Ovest in un contesto particolare, così che al tramonto d’estate puoi scrivere “L’infinito” meglio di Leopardi.
Ci sorbivamo la novena di maggio: entravamo in chiesa che era ancora chiaro e uscivamo con il buio, ma riuscivamo ancora a giocare tra Chinettone e Piazzale. Seguiva poi il pellegrinaggio alla Guardia: comitiva statisticamente equilibrata dal più giovane al più vecchio, chi con la borsa dei panini e il thermos di caffè, chi con l’intenzione di pranzare in una delle numerose trattorie. L’apice ovviamente era il viaggio sulla guidovia dove avevamo una vettura prenotata. L’incrocio con un altro convoglio alla Gaiazza ce lo godevamo dal finestrino.Non pochi di noi sognavano di fare l’autista di quel mezzo. Si cantava “Evviva Maria, Maria evviva” mentre i rami di ciliegie quasi mature frustavano le nostre facce protese fuori dal finestrino. Scesi al capolinea iniziava il pellegrinaggio vero e proprio con i fedeli intruppati dietro l’Arciprete, come le testuggini dell’esercito romano. Vedevamo finalmente l’ampia superficie con le scale verso il Santuario ed entravamo dalla parte degli ex voto: ogni anno rimanevamo a bocca aperta davanti a protesi, elmetti scheggiati, manubri sfasciati, foto macabre e quadri naif. Arrivava poi la Messa con comunione obbligatoria e relativa fame per le tre ore digiuni.
Che noia la predica! Sorvolo sul pranzo e passo subito alla foto ricordo che abbiamo ancora oggi nei cassetti: i bambini in fondo, anche seduti o accucciati, poi i giovani quindi gli anziani. Non escludo che tra i secondi qualcuno avesse intenzioni poco pie, men che meno indifferenti al sesso opposto, perché lassù potevano nascere infatuazioni durature. Iniziava infine un ritorno meno chiassoso verso Bolzaneto. Due o tre si addormentavano, mentre i più ligi recitavano il rosario. I nostri trofei consistevano in reste di canestrelli, e orribili sfere nevicanti per la nonna; porta immagine da cruscotto e rosario per i genitori. Per noi piccozza o borraccia in plastica, il tutto con effige della Madonna. Il treno locale, carrozza cento porte e panche in legno, ci scaricava finalmente sul primo binario di Isola dove ci accoglieva sorridente il capostazione.
La paura ha salvato gli esseri viventi ma non è piacevole, soprattutto se raggiunge certi livelli. Passeggiando da solo nel bosco questi semplici principi mi accompagnano e vorrei incontrare qualcuno che discende dal verso opposto al mio. Qualcuno appena uscito da una casupola dove il camino ha sempre un filo di fumo, qualcuno che ha le mani callose e i denti macchiati dal toscano, un uomo ormai sconosciuto, mitizzato, rimpianto, troppe volte sottovalutato e disprezzato. Il suo dialetto diverso dal mio, inquinato da troppi termini moderni, da troppe concessioni alla lingua ufficiale, ci permetterebbe comunque di scambiare i soliti convenevoli sul tempo, sulle stagioni e sui miei vecchi. Scivoleremmo poi a criticare le tasse, la sfortuna di suo figlio militare nel meridione, la moglie con le ossa che scricchiolano, il tetto cadente, il costo dello stoccafisso. Tutto ciò è il livello della precarietà esistenziale, della necessità che Dio ci aiuti, la spiegazione delle Rogazioni “a fulgure et tempestate, libera nos Domine; a peste, fame et bello, libera nos Domine; ut fructus terrae et conservare digneris – Te rogamus audi nos”. Ecco che nessuna nostra paura può essere paragonata alla vita di quel sant’uomo ed è per questo che l’Inferno ha cominciato a riempirsi solo con la modernità.
Alla fine del 1806 il parroco di San Michele Arcangelo, don Giuseppe Bonini, pregava nella sua chiesa buia aspettando l’alba. Era il momento di maggior contatto con Dio sorretto da quell’atmosfera in cui un labile profumo d’incenso, un evanescente e tremolante riflesso dei candelabri, preannunciavano il raggio di sole che avrebbe spezzato l’opaco quadro mistico. Il diavolo parigino aveva da poco vietata la sepoltura in chiesa, in quella cripta che da secoli ospitava i parrocchiani per quel sonno vicino alle reliquie dei Corpi Santi ed ai loro cari ricordati in ogni funzione religiosa . Vita e Morte continuavano così, senza intervallo, generando l’aspettativa del Giudizio tra i sepolti e gli animati. Altre tombe si intuivano sotto quel rustico pavimento di mattoni e sassi, uomini di prestigio, abati e parroci. E poi quell’urna che dal 1629 conteneva gli scheletri dei Martiri Stefano e Innocenzo sarà interdetta da quel francese che requisisce conventi, che ha bruciato Arquata e razziato mille chiese? Quel raggio di luce adesso trionfante sulla parete lo rasserenò confermandogli la certezza dell’infinito essere della sua Fede.