C’era una volta il dottore a cavallo
Arquata, esterno notte in autunno. Con temperature ancora miti, le foglie colorano gli alberi del viale, per volteggiare ancora poco nella danza estrema del congedo. Arquata, stessa scena ma con aria di neve e qualche lucore di ghiaccio alle pozzanghere. Un uomo, in entrambe, cammina a passo regolare, diretto a casa, porta una borsa da medico e si stringe nel cappotto. Si tratta del Dottor Alberto Marré, in una sera che dovette ripetersi innumerevoli volte per più di un quarantennio, dopo giornate di morte e vita, di segni del lavoro e della povertà, di piccoli precipitosi da accompagnare alla nascita e vecchi spauriti di un tempo cambiato a cui portare cura e conforto.
Alberto Marré, originario di Borzonasca, dopo aver prestato servizio nel primo conflitto e al nosocomio genovese di San Martino, fu l’unico medico di Arquata dal dicembre 1925 sino alla fine della seconda guerra mondiale; e qui rimase, finalmente con qualche aiuto nella professione, ancora più di una ventina d’anni. Alla sua memoria, da molti anni, è intitolata la scuola dell’infanzia.
Viene ritratto come un uomo di estremo rigore, di cui perfino quel cappotto era segno: incurante del meteo, lo traeva fuori dall’armadio per Ognissanti, quando lo indossava per recarsi in visita al cimitero. Salutava qualcuno per cui non c’era stato più tempo, e chi non aveva avuto salva la vita nonostante i suoi sforzi, e amici portati via dalla sorte. Ben presto, però, tornava a concentrarsi su chi si affacciava appena al mondo e alla speranza: l’assistenza alle partorienti e ai neonati rappresentava il suo fiore all’occhiello. Si era guadagnato una crescente fiducia, in tempi in cui la nascita veniva ancora considerata faccenda esclusivamente domestica e femminile, e nei quali le levatrici spesso consideravano con ostilità e sospetto la presenza del medico durante il parto.
Ma presto gli arquatesi avevano capito che non si trattava di una figura intrusiva: poco dopo il suo insediamento, in anni in cui le autorità comunali potevano decidere sugli ingaggi dei sanitari, il timore che venisse sostituito aveva scatenato addirittura manifestazioni di protesta.
Nascono tanti bimbi, tra le mani del dottore, forse più di quanti avesse immaginato. Già negli anni trenta si osservava una piccola crescita, ma dopo la guerra viene il boom economico e del cambiamento urbanistico locale.
Non solo le famiglie erano sovente numerose e le gravidanze precoci, Arquata stava crescendo in ogni possibile senso demografico. Si nasceva tanto. Nuove famiglie si trasferiranno, attratte dalla possibilità di lavoro, e l’apertura di fabbriche innesca il trasferimento di operai e impiegati che sposano ragazze della zona, e prendono definitivamente casa ad Arquata. Tra una Arquata sospesa tra Ottocento e regime fascista del suo arrivo, e l’Arquata cittadina industriale del suo pensionamento, Marré vede un grande divario. Ma il suo vanto permane e si sviluppa in mezzo ai turbinosi cambiamenti: nessuna mamma, con lui accanto, muore durante il parto.
Marré ha un altro grande punto d’orgoglio: l’ospedale. Quello che, da antica istituzione caritatevole, era stato inizialmente poco più di un ambulatorio e di un posto di primo soccorso, cui erano annessi semplici spazi per il ricovero soprattutto di anziani affetti da problemi cronici e malati indigenti, diviene un luogo più che adatto a terapie, degenze e anche interventi chirurgici. Il dottor Marré ne è il grande fautore, con il fondamentale supporto economico e “di pubbliche relazioni” della famiglia Gaslini (che ad Arquata possedeva una villa, anzi, due, a poca distanza dal municipio…ma questa è un’altra storia).
In mezzo, gli anni della guerra e della lotta partigiana: la necessità di garantire un servizio, feriti di ogni schieramento da curare, a volte con il rischio di arresto o peggio, gli episodi di bombardamento, tra cui quello particolarmente cruento che colpí la stazione sorprendendo molte persone, che Marré tentó di assistere sul posto, mentre attendevano il treno e non avevano rifugio.
Nei suoi primissimi giri in un paese intessuto tra campi e fornaci, tra casette del borgo e villini, Marré si spostava a cavallo: arriverà poi dai suoi pazienti in auto, e tornerà definitivamente a Borzonasca negli anni sessanta, dopo aver visto sorgere condomini, industrie, ciminiere.
Proprio in un nuovo condominio verso Serravalle abitava negli ultimi tempi, mentre alla sua dimora iniziale, in Viale della Rimembranza, si lega una diceria romantica. Pare che una signorina fosse innamorata del dottore a cavallo, così innamorata da cercare ogni sistema per attirare la sua attenzione, perfino da buttarsi in imprese come la realizzazione di aiuole a forma di cuore, che l’uomo avrebbe dovuto notare passando davanti al suo giardino. Marré, però, non corrispose tale passione, e manifestava anche molta riservatezza. Così, la signorina, sempre nubile, sempre più attempata, sempre vestita di bianco, come una dickensiana Miss Havisham, rimase sola, a guardarlo passare seminascosta da una tenda. Chissà se è vero, poi: in fondo, aver contato tanto per un paese può anche far nascere qualche leggenda.
Lo ricordo bene. Sempre con il cappello in testa, un poco più leggero nei mesi caldi, di panno nero appena l’autunno si mostrava. Non era il mio medico ma il dottor Balestrero quel giorno, stranamente, non c’era. Ero stato svegliato, bambino, dal dolore lancinante alle gambe. Il minimo movimento mi procurava un dolore insopportabile e la cosa mi costringeva a letto e in posizione statuaria. Venne chiamato il medico e arrivò il dottor Marrè. All’epoca era già molto vecchio o così a me sembrava. Aveva mani bianche e dita lunghe, affusolate e gelide. Entrò con un cortese buongiorno, mi visitò e uscì con un cortese buongiorno, dopo aver scritto su un foglietto un breve ricetta. Non aveva detto nulla, ma pare che questo fosse il suo costume. Mia mamma, naturalmente, si era ben guardata dal disturbare e non aveva chiesto nulla. Tornò nel primo pomeriggio senza essere stato chiamato e questo mise in grande apprensione tutto il quartiere. Il dottor Marrè era uno vecchio stampo, quello di ” medicus non accedat nisi vocatur” (il medico non varchi la soglia se non è chiamato). La sua venuta, ripetuta nello stesso giorno, era quasi una sentenza di morte. Nel frattempo però una vicina aveva fatto notare a mia mamma che avevo corso tutto il giorno cercando di raggiungere la palla giocata, nel campetto sotto casa, da ragazzi più esperti e più grandi di me: magari lì stava il problema. Nel frattempo mi ero un poco ripreso. Il medico entrò e disse: “Buongiorno”. In silenzio mi visitò mentre in casa non volava una mosca. Prima di uscire si trattenne un attimo sulla porta. A testa china come stava spesso, almeno in quel periodo, guardò mia mamma : ” Va meglio,meno male pensavo fosse polio”. Forse era il 1965
Diego Sabbi