Natale con don Giuseppe
Ci sono giorni che restano impressi e ne ricordiamo le più piccole inezie; alcuni si cancellano senza lasciare traccia come se mai fossero esistiti; altri sfumano e perdono i contorni, ma lasciano in noi impronte indelebili mantenendo invariate le sensazioni provate, l’essenza e la sostanza del momento.
Di quest’ultimo tipo sono i miei ricordi legati a un Natale di tanti anni fa: schegge di memoria, ritagli di immagini che riaffiorano come veloci scatti fotografici.
Per rimediare a questa difficoltà non c’è niente di meglio che sfogliare un vecchio album di fotografie che aiuti a ricollocare i pezzi al proprio posto.
La prima foto è di un giovane professore di religione delle medie, Don Giuseppe Turrici, il vice parroco che ha ridato vita e lustro alla Casa del Giovane, facendo sì che quello stabile nascosto, appoggiato alla chiesa, fosse il rifugio preferito per noi ragazzini: tutti i pomeriggi, in attesa che il vortice ciclonico del Don ci trascinasse in qualcosa da fare. Scrivo genericamente “fare” perché questa era la parola magica. Per Don Giuseppe parlare, pensare, predicare erano importanti, ma di più lo erano il fare e il rifare ancora.
Aveva l’innata capacità di scavalcare la noia, di evitare l’inattività, di lanciarsi a rotta di collo, che si trattasse di una predica, un campo estivo, una partita di pallone o delle giostre per le quali – va detto – non mancava di aprire il portafoglio per chi non poteva permetterselo.
Siamo a ridosso del Natale per una raccolta di stoffa e vestiti per la Caritas. Qui don Giuseppe è’ ritratto intento a riunire una banda di giovani e non. Come un condottiero sta per sguinzagliarli in ogni strada e vicolo di Serravalle, dal centro fino alla più remota periferia. Sullo sfondo si intravede un cielo grigio come un gatto certosino e si riescono quasi a toccare il freddo e un’umidità appiccicosa e fastidiosa. Nessuno però si cura di nasi rossi e mani gelate. L’incarico è stato recepito e va portato a termine: suonare più campanelli possibili per consegnare a tutti un sacchetto giallo da riempire.
E poi un altro giro a ritroso, un esercito in corsa a raccogliere i sacchi pieni inseguendo il camion che li porterà a destinazione.
Voltando le pagine dell’album ci si avvicina alle feste a grandi passi.
C’è una foto di gruppo: la band con i gemelli Carlone, Piero Grosso, Sericano alla batteria e il grande capo Maurizio Moro alle tastiere, reclutato dal Don per organizzare un coro di ragazzine per la messa di Natale.
Ecco la 500 blu: Maurizio poteva provare solo di sera, ma le nostre famiglie non si fidavano a lasciarci uscire a piedi. Così il Don, che mai e poi mai avrebbe gettato la spugna, aveva trasformato la sua auto in corriera. Ci scarrozzava avanti e indietro, stipate in non meno di sei o sette nel minuscolo abitacolo dove ci contorcevamo in un intricato groviglio di teste, braccia e gambe.
E qui siamo dietro l’altare della parrocchia. In prima linea le ugole d’oro: la Cristina Ponassi, la Rosella Martino, la Paola Gilardo e la Lucia, sorella di Maurizio. Nelle retrovie la Paola Rampa, sulla quale spesso mi accasciavo visto il mio interesse pressoché uguale a zero per il canto. Volevo lo stesso partecipare e allora per passatempo mi perdevo a seguire con gli occhi gli intarsi sul legno del coro, rianimandomi di tanto in tanto grazie a uno “scrollone” della Paola, solo per un veloce e inutile passaggio in playback.
Ma al Don il coro non bastava: voleva fare altro, sempre fare. Uno spettacolo natalizio al teatro dei Luigini: perché no?
Un progetto in stile Don Giuseppe, una kermesse teatrale e musicale di grande impegno, con l’intento primario di coinvolgere il maggior numero di persone. Aveva deciso che il fulcro dell’esibizione sarebbe stato un passaggio del Vangelo, corredato della colonna sonora del coro dietro le quinte; e, affinché lo show risultasse completo e coinvolgente, di balletti e scenette varie. Da quel momento le ore libere dalla scuola erano state un continuo ininterrotto susseguirsi di preparativi e prove dove nessuno, proprio nessuno, poteva stare con le mani in mano.
Scorrendo l’album riconosco Piero Camera Panapeo e il Bona, Daniele Bonafiglia, sul palco con il lungo barbone di Giovanni Battista, un po’ impacciato con la tunica marrone.
Questo invece è Lorenzo Benzo. Ci ha lasciati maledettamente troppo presto ma qui lo vediamo sorridente con il viso squadrato come una montagna e la tonaca bianca di Gesù.
Risate fragorose risuonavano sotto al palco per i costumi mezzo improvvisati e gli imbarazzi che il Don in quattro e quattr’otto stemperava con un sorriso e una battuta.
L’ultimo scatto riguarda la performance per riprodurre una canzone, un successone dell’epoca, Super Superman di Miguel Bosé. A Serravalle si diceva che Fabio Poddighe assomigliasse al cantante italo-spagnolo. Forse è vero se lo guardiamo in questa foto in jeans, cintura colorata e t-shirt bianca con le spalline arrotolate. Una credibile pop star, per giunta con due ballerine di supporto, la Tiziana Callegari e l’Emanuela Ferrari, in tuta fluo e scaldamuscoli secondo i dettami del neonato fitness.
Certo, oggi abbiamo internet per rivedere e studiare movimenti all’infinito; allora deve essere stata una faticaccia memorizzare la coreografia vedendola di sfuggita alla tv.
Alla fine dello show ci eravamo guadagnati applausi sperticati, non foss’altro perché il pubblico era in percentuale altissima composto da parenti e amici e noi, sbirciando curiosi dal sipario, non sapevano se esserne soddisfatti o increduli.
A questo punto devo confessare una bugia: questo non è un vero album di fotografie. Non avevamo in tasca il cellulare e nessuno si trascinava dietro la macchina fotografica in queste occasioni. E’ solo una serie virtuale di ricordi, frammenti di figure che non sono scivolate via e mi sono rimaste in testa. Non sono neanche sicura che la raccolta Caritas e la recita siano avvenute nello stesso anno e ho dovuto chiedere aiuto alla mia amica Paola, che ringrazio, per mettere il tutto meglio a fuoco.
C’è qualcosa di molto più importante che tuttavia non ho dimenticato e sono certa nemmeno chi ha vissuto quei giorni di Natale: la sensazione che, uniti e focalizzati verso la stessa meta, potevamo realizzare senza intoppi una semplice recita o un progetto tanto ambizioso da rendere partecipi un sacco di serravallesi che, con slancio e generosità, non avevano esitato a svuotare i loro armadi. Con un moderno drone, dall’alto avremmo avuto l’impressione di essere a casa Minions, tanto il paese era costellato dai puntini gialli dei sacchetti sui marciapiedi. Perché l’atmosfera fosse perfetta e ogni cosa andasse nella giusta direzione però ci era voluta una scintilla, il contagioso e inesauribile entusiasmo di Don Giuseppe, con in mente, a Natale come ogni altro giorno, un solo obiettivo: fare.
A Vignole abbiamo avuto come Parroco Don Giuseppe. E’ stata una fortuna per i nostri ragazzi, Instancabile, diretto, generoso, altruista. Un ricordo indelebile.