San Martino (e la sua fiera)
Che tempo fa? Scarnebbia. Una risposta secca e apparentemente vaga, eppure su questo termine dialettale a Serravalle non ci sono dubbi. In Italiano potrei dire uggiosa, lattiginosa, umida ma non riuscirei a rendere l’idea con una singola parola inequivocabile. Scarnebbiare è ciò che succede quando è nuvoloso e l’aria carica di umidità forma una leggera coltre di goccioline, di condensa che bagna tutto. Non è pioggia e a volte è accompagnata da una nebbia sottile, a volte dal nebioun, cioè da uno strato così denso e fitto di nebbia che non si vede a un metro di distanza.
I cambiamenti climatici hanno ridimensionato questo fenomeno, anni fa invece era molto frequente soprattutto a novembre, il mese della fiera di San Martino.
Pareva, sto parlando della fine degli anni 70 quando facevo le medie, che l’arrivo delle giostre segnasse da spartiacque tra l’autunno e l’inverno, come se i giostrai insieme al carico di autotreni e roulotte avessero il magico potere di trascinarsi appresso anche il mal tempo.
Scarnebbia o nebioun prendevano possesso del paese in combutta con un abbassamento della temperatura a livelli di freddo becco, di vera e propria zerda.
Ciò non riduceva per nulla la nostra voglia di fiondarci ogni pomeriggio nella piazza del mercato dove gli autoscontri, la giostra per bambini e altre amenità erano già in funzione nei giorni antecedenti la fiera.
Spesso eravamo imbacuccati e costretti dalle nostre madri, che non avevano ancora sperimentato la comodità dei piumini, in loden blu navy o verde color costume tirolese, tanto che sembravamo copie in miniatura di impiegati di banca. Unica nota davvero fashion, di gran moda allora, era il cappellino a tema tartan calato sugli occhi, fatto dello stesso materiale delle coperte di plaid. Forse la geniale trovata di riconversione di uno stilista/imprenditore in possesso di magazzini zeppi di avanzi di stoffa per coperte non più in auge come negli anni 60.
Portavamo tutti, e questi erano belli e indistruttibili, i jeans Roy Rogers che si pagavano poche lire al mercato del martedì.
Le nostre mise stridevano con i vestiti dei giostrai, alcuni dei quali non troppo più grandi di noi. In paese, dove di foresti non se ne vedevano praticamente mai, erano il sommo grado della trasgressione. I pantaloni sdruciti, i giubbotti di pelle, gli stivali impolverati, i capelli scompigliati che da parecchio non incontravano le forbici, le dita ingiallite per le sigarette fumate a ripetizione, gli atteggiamenti spavaldi, facevano pensare a una vita felice e libera dai vincoli di casa, scuola e chiesa ai quali noi eravamo abituati. Poi però alcuni di loro comparivano come alunni spaesati nelle nostre aule, vagabondando di mese in mese in una classe diversa in un paese diverso, e capivi che la loro vita non era così libera e felice, che la sicurezza si limitava ai confini dei baracconi. Al di là erano pesci fuor d’acqua.
A proposito di pesci, ogni anno una delle attrazioni era il lancio di un set di palline verso strette bocce di vetro. Facendo centro si vinceva un pesce, consegnato dentro un sacchettino di plastica trasparente pieno d’acqua. I casi sono due: o la ragazza addetta al gioco aveva nel retro uno stock enorme di pesciolini che sostituiva in continuazione, oppure l’acqua doveva contenere un che di salvifico e miracoloso, perché quelli appesi ai manici delle buste erano pesci in piena salute, rossi e pasciuti, in trepida attesa di cambiare indirizzo e raggiungere festanti le dimore dei vincitori. Invece ogni volta che ne portavi uno a casa, nonostante gli concedessi il contenitore più grande che avevi e lo rimpinzassi di mangime che eri andato a procurarti di corsa, in meno di ventiquattr’ore si faceva triste e sconsolato, finché lo vedevi galleggiare stecchito a pancia in su e tua mamma lo eliminava senza complimenti attraverso lo scarico del wc.
Il mio amico Martin narra che il suo lo aveva trovato addirittura esanime sul pavimento dopo un balzo fuori dalla boccia. Un evidente caso di suicidio.
Il giorno della fiera, evento al quale partecipava in massa tutta la popolazione serravallese e limitrofa che non aveva a disposizione ipermercati, mercatoni, outlet o retail, le bancarelle – meglio dette in serravallese i banchi – occupavano le vie principali su ambo i lati. Da mattina a sera la gente bighellonava avanti e indietro alla ricerca di qualcosa da comprare. Per poco che si avesse da spendere, un acquisto ci stava per forza.
In un angolo della piazza poi c’era il banco di un tipo che sapeva come far aprire i borsellini. Era un furgone sistemato in modo tale che l’imbonitore rimanesse in alto, alla sommità della mercanzia esposta: articoli di ferramenta, suppellettili, attrezzi per la casa, l’orto, il cucito, il giardinaggio. Non ho mai capito come facesse a non farsi fregare niente dalla gente ammassata davanti a una tale marea di carabattole. Eppure, sicuro di sé, partiva all’attacco col microfono decantando qualità strabilianti della merce: il togli-pelucchi a batteria che resuscitava maglioni infeltriti, la spugna per far risplendere i fuochi dei fornelli, il taglia-peli per il naso che prometteva risultati sorprendenti e duraturi, il kit di cacciaviti con il manico di plastica che avrebbe avuto vita eterna ma che invero durava da Natale a Santo Stefano.
I paesani all’epoca non avevano visto ancora le vendite on line. Per le signore c’era Postalmarket, dove potevano acquistare per corrispondenza cose introvabili nelle botteghe, ma la fiera era l’occasione perfetta per gustare le novità dal vivo. E il tizio prometteva prezzi imbattibili. Mia mamma aveva comprato la Petronilla, un pentolone in alluminio, in realtà sono due uno dentro l’altro, che fungeva da forno elettrico. Il coperchio aveva all’esterno dei cavi e all’interno, oltre alla resistenza, un vetro centrale fissato con le viti per il controllo della cottura. Guardandola davanti vedevi un’innocua pentola, dall’alto l’impressione invece era di trovarsi pericolosamente accanto a una mina anticarro inesplosa. Avevamo fatto nostro un oggetto pesantissimo e ingombrante, tornato utile solo durante le vacanze estive alle Capanne di Cosola.
A noi ragazzini di tutto ciò non importava niente, il solo scopo della fiera era finire in bellezza gli ultimi giri sugli autoscontri.
A pochi metri dal pungiball dove giovanotti un po’ tamarri stretti in giubbotti di jeans imbottiti di candido peluche si scagliavano su un pallone a pera penzolante per far sfoggio di forza sovrumana, c’era il baraccone degli autoscontri, una sorta di palafitta a 40 centimetri circa da terra, illuminata da variopinte luci intermittenti da discoteca.
Oggi sembra incredibile ma c’era la ressa e a fine giro ti dovevi buttare nella mischia per accaparrarti una macchinetta.
Dopo qualche corsa, finiti i pochi spicci in tasca, si restava per ora in fila sul bordo ad osservare le vetture girare e cozzare una contro l’altra, mentre la musica partiva a tutto volume in un’adrenalinica compilation di hit internazionali che in tv non sentivi mai. Knock, knock knock on wood… I got chills they’re multiplying … Ma ma my Sharona… ci riempivano le orecchie e soverchiavano il rumore metallico dei nostri piedi che battevano sul perimetro della pista in acciaio zigrinato. Ritmavamo il tempo o forse tentavamo solo di scacciare il gelo che ci procurava facce in scala dal rosso al paonazzo.
La ragione per cui gli autoscontri erano per noi irresistibili sta forse nello scopo stesso del gioco. Non è chiaro se devi evitare gli incidenti o provocarli, devi sfuggire le altre macchine o picchiarci dentro più forte che puoi? Come va affrontata la vita? Lancia in resta o con pazienza e prudenza? Un dilemma esistenziale vecchio come il mondo, un meccanismo proposto, senza che magari se ne rendano conto, anche agli adolescenti del ventunesimo secolo attraverso una caterva di giochi elettronici. Allora era uno dei pochi a disposizione. Inoltre in questa bolla pomeridiana ambisex, quelli che cominciavano a fiutare l’esistenza e l’essenza di due sessi differenti, avevano una chance da non lasciarsi sfuggire per interagire, scambiare occhiate, studiarsi. Accenni in divenire di qualcosa che poteva avere un lieto fine oppure no, in un battito di ciglia.
Per quelli ai quali al contrario di pensare al cuore non passava neanche per l’anticamera del cervello, era molto più appagante il panino con la porchetta dell’immancabile banco dei salumi con affisso in alto il testone imbalsamato e setoloso di un cinghiale che diventava minaccioso quando appariva in mezzo alla nebbia, illuminato in chiaroscuro solo dalle fioche lampadine appese al tendone del banco.
Oppure il camioncino dei dolci con il torrone bianco e luccicante, il cui odore dolciastro si mescolava all’effluvio pungente delle mandorle tostate.
La lunga fila di persone in processione tra le bancarelle intanto toccava e testava la qualità di lana, lenzuola e tendaggi con una mano, mentre l’altra la pucciava dentro al sacchetto bisunto delle frittelle, sfizioso cavallo di battaglia della Pro Loco.
Altri si fermavano davanti alle gabbie degli animali. Erano gli anni, per fortuna gli ultimi, in cui cuccioli di gatti e cani, canarini e cardellini, porcellini d’India e cocorite verde prato si rannicchiavano uno sull’altro intirizziti dal freddo con la speranza che qualcuno li comprasse portandoli al caldo verso un futuro meno tribolato.
Quando alle sei del pomeriggio era buio pesto e il nebbione scendeva a dismisura, quelli che avevano ormai gli arti irrigiditi, li vedevi assiepati all’angolo dove il lampione creava un cono di luce sulla postazione delle caldarroste. A quei tempi andavamo tutti nei boschi a raccogliere castagne e ne avevamo mucchi in casa, per questo suppongo che il cartoccio avesse la sola ragion d’essere per il tempo d’attesa davanti al braciere incandescente e perchè per mezz’ora ti scaldava le mani.
Alla sera, quando gli ambulanti ritiravano la merce e se ne andavano, al posto dei banchi comparivano sull’asfalto cataste di scatole e carta straccia mescolate alle foglie secche cadute dagli alberi. I bambini tornavano a casa con le dita appiccicose per lo zucchero filato rosa shocking, e gli adulti controllavano gli acquisti con il dubbio di aver fatto un affare oppure no.
Cesarino, il gran capo degli autoscontri, col pensiero già rivolto alla baracca da smontare e alla partenza verso la prossima meta, prima di spegnere le luci avvicinava ancora una volta la bocca al microfono: forza ragazzi, vai col gettone, ultimo giro, si parte!