Di sicurezza sul lavoro e altre storie
Quando, nell’agosto del 1969, la proprietà del Delta S.M.L. fu ceduta dall’IRI al 50% alla S.M.I. (Società Metallurgica Italiana, del gruppo Orlando di Firenze), si gridò allo scandalo, nonostante fosse arcinoto che l’azienda serravallese fosse decotta e perennemente in perdita. Trapelò che l’accordo prevedesse la gestione da parte della società toscana e l’acquisizione del restante 50% attraverso il rapido risanamento del bilancio e l’estinzione dei debiti che erano davvero ingenti. In effetti, però, se l’operazione intrapresa dalla SMI fosse riuscita, avrebbe portato alla proprietà esclusiva dello stabilimento e del suo giro d’affari con un impegno stimato all’epoca in una decina di miliardi di lire, a fronte di un valore reale delle sole strutture di quasi 25.
Si temeva, anche, una drastica ristrutturazione con riduzione di personale. Temevano, soprattutto i transfughi SMI che da Brescia, da Fornaci di Barga e da Campo Tizzoro, in passato, avevano lasciato la SMI per il Delta per condizioni economiche più favorevoli, ruoli di maggior prestigio e, per alcuni, anche per un appartamento nelle case Delta di via Borgonuovo.
In realtà le preoccupazioni riguardavano tutti indistintamente, specialmente a livello impiegatizio, perché passando la gestione a un’azienda molto ben strutturata a livello centrale, tante funzioni aziendali erano diventate chiaramente doppie e quindi superflue.
Nella confusione che seguì, il sindacato decretò l’occupazione dello stabilimento, che si protrasse per un mese intero.
Dopo quel mese di lotta, le parti ritornarono a incontrarsi e ricevute sufficienti garanzie da parte dell’IRI che si impegnò a ricollocare in aziende del gruppo Finmeccanica gli impiegati in esubero e a non ridurre in maniera coatta gli operai, gradualmente riprese la produzione. Alcuni furono messi in Cassa Integrazione e vi restarono per lungo tempo, finché fu trovata loro una sistemazione. Furono incentivate le uscite, agevolando prepensionamenti o dando una buonuscita congrua.
Così da un organico di 900 dipendenti si passò in pochi mesi a meno di 800, alcuni dei quali in cassa integrazione e senza prospettive per il futuro.
Sparì di scena l’ing. Ivo Potenza, il presidente, e con lui altri pezzi grossi della precedente gestione, come il dott. Diglio, capo del personale.
L’ing. Vincenzo Chiaramonte restò come Direttore, il dott. Fiorentino smise di essere il capo del reparto Monete e diventò direttore di Produzione con funzioni di vicedirettore, mentre il direttore amministrativo, dott. Parodi che restò con l’IRI, fu sostituito da un giovane grossetano già capo dell’Ufficio Tempi Metodi e Costi, molto in gamba, però grintoso e scorbutico, il sig. Giuliano Renzetti.
La paura residua che angosciava i dipendenti di Serravalle era il fatto che la SMI, disseminati in tutta l’alta Italia, aveva stabilimenti altrettanto grandi (alcuni come quello di Fornaci di Barga, addirittura il triplo più grande del Delta) e che quindi, una volta diventata proprietaria al 100% poteva essere libera di chiudere lo stabilimento, come era già avvenuto in altre occasioni della neonata storia industriale dell’Italia.
Si andò avanti fra alti e bassi fino a dicembre.
Fu completata la costruzione di una grande tettoia su una parte cementata del piazzale metalli.
Povera tettoia… L’ing. Bertandi di Tortona l’aveva progettata con pilastri moderni a suo dire autoportanti, stretti alla base e larghi alla sommità, e con pochi tiranti di collegamento fra le campate, a suo modo di vedere inutili; prima di Natale aveva superato con successo il collaudo del genio civile; il cinque gennaio crollò su sé stessa accartocciandosi, dopo la nevicata continua dei primi quattro giorni del ’70.
Non c’ero, quando si verificò l’episodio; ero tornato a casa dai miei, in Calabria, per le feste natalizie. Seppi della cosa la mattina del 7 gennaio nel treno che dal Sud mi riportava a Serravalle, che a Genova diventava il treno dei pendolari per il primo turno.
Due di loro entrarono nel mio scompartimento e dopo i saluti del caso mi raccontarono dell’accaduto, condendolo con la solita ironia genovese.
“Ci è andata bene che non c’è stato nessun danno alle persone però ci è andata male un’altra volta, – mi dissero – pensa che sotto c’erano il direttore tecnico e il geometra e sono rimasti indenni perché protetti da un trabattello che ha fatto loro da scudo al momento del crollo”.
La tettoia fu ricostruita, con altro progetto, più tradizionale, a tempo di record. La SMI acquistò dalla Vezzani di Ovada e fece installare sotto di essa una potente paccottatrice, una enorme pressa idraulica che doveva ridurre il volume dei rottami trasformandoli in paccotti pronti al forno dopo la cernita. A nessuno sfuggì che le dimensioni ottenibili dei paccotti erano di molto superiori a quelli utili per i BB e cominciò a circolare con insistenza la voce che la SMI avrebbe fatto nascere una nuova fonderia con forni molto più grandi di quelli attuali.
In quel frangente così delicato, come un fulmine a ciel sereno, mi arrivò la cartolina precetto e nonostante il precedente esonero fui chiamato alle armi nel corpo dei bersaglieri. Prestai servizio dal febbraio al settembre del ’70, scrissi una lettera di scuse all’Azienda per aver dichiarato al momento dell’assunzione “OBBLIGHI MILITARI ASSOLTI” pensando che la mia avventura nell’industria del nord si fosse definitivamente conclusa. Invece ricevetti una cartolina dall’Ing. Chiaramonte che mi spronava a consolarmi per essere capitato in “una simpatica arma” e ad aver fiducia che al ritorno avrei trovato il mio posto di lavoro senza problemi. Terminai il servizio di leva dopo circa otto mesi e a ottobre tornai a Serravalle e mi rimisi a lavorare. Fino a Marzo del 1971 le agitazioni sindacali si ripeterono quasi giornalmente, con modalità sempre diverse , anche a scacchiera; l’azienda decise la serrata che si protrasse per tutto il mese. In aprile, raggiunto finalmente un accordo, si tornò a lavorare.
Arrivò a Serravalle con l’incarico di vicedirettore, da Firenze, l’ing. Learco Rabotti, “l’uomo della SMI” una figura che resterà per sempre nei miei ricordi come incrollabile punto di riferimento; furono trasferiti dallo stabilimento di Brescia tre tecnici di assoluto rilievo: Maccanti, Scalfi e Collini.
Collini fu inviato a fare il vice capo officina meccanica, mentre Maccanti e Scalfi, chiusi nella biblioteca dell’ufficio tecnico lavoravano di continuo, esclusivamente e in gran segreto ad un progetto di cui nessuno sapeva dire nulla. La stanza era sempre chiusa a chiave e quando qualcuno entrava venivano coperti preventivamente con fogli di carta i disegni presenti sui loro tecnigrafi. Del resto, gli unici a cui era consentito l’accesso oltre all’ing. Chiaramonte e all’ing. Rabotti che seguiva il progetto di persona, erano gli altri progettisti e disegnatori dell’ufficio, ma solo per prendere o riporre lucidi dall’archivio per fare cianografie. Anche questo alimentava le voci che radio babbaleo propalava: c’era in vista una nuova fonderia, il che, secondo i ben informati avrebbe ridotto ulteriormente il personale.
Una mattina, l’ing. Rabotti, che ancora non conoscevo di persona, mi convocò nel suo ufficio. All’orario stabilito mi presentai in segreteria, in tuta da lavoro e scarponi antinfortunistici, e fui subito accompagnato da lui. Lo trovai che stava mangiando un panino. Si scusò, terminò di bere la bottiglietta d’acqua minerale e mi confidò che non aveva più consumato un pasto nelle ultime 36 ore, per cui aveva una fame “diabolica”, disse proprio così.
Era di bell’aspetto, sui 35 anni, molto elegante e, per tanti versi, mi ricordava Robert Kennedy. Volle sapere quali mansioni svolgevo, ogni dettaglio. Notò che il mio lavoro in officina elettrica mi piaceva molto e se ne compiacque. Mi chiese quali fossero i principali problemi, riferiti alla manutenzione elettrica e alle scelte delle priorità per gli interventi. Notò il mio imbarazzo quando mi chiese dei rapporti col capo della manutenzione. Era fuor di dubbio che io mi trovavo benissimo con il mio capo officina, Bruno Paini, e mi sentivo onorato e fiero di essere suo vice, ma i miei rapporti con il geom. Boiardi, capo della Manutenzione da cui entrambi dipendevamo, non erano proprio idilliaci. Non gli ero simpatico per tre motivi: il primo perché ero calabrese e mi considerava un impulsivo e testardo, secondo i più beceri stereotipi; il secondo, che a suo dire confermava il primo, è che non sapevo né ubbidire né tacere e non mi facevo scrupolo di mettermi in contrasto con lui anche se aveva quasi vent’’anni di esperienza più di me, e l’ultimo perché “facevo troppo di testa mia ignorando le dinamiche aziendali che prevedevano rispetto obbedienza e sottomissione al giudizio dei più esperti”.
Nonostante ciò, assicurai che il mio rispetto per il capo era fuori discussione e che spesso avevo fatto buon viso a cattivo gioco per non contraddirlo ed evitare l’acuirsi dei nostri contrasti.
Improvvisamente cambiò argomento e mi chiese cosa sapessi della prevenzione degli infortuni, se conoscessi quale fosse la frequenza con la quale si verificavano nello stabilimento, se avessi mai partecipato a una indagine per chiarire la dinamica di un incidente sul lavoro.
Mi colse del tutto impreparato, risposi di aver ricevuto, come tutti, mesi prima, un libretto rosso con le nome di prevenzione e di igiene sul lavoro e di conoscere bene i rischi che comportava l’elettricità. Null’altro.
Telefonò alla mensa aziendale chiedendo alla signorina Erminia di preparare un altro panino con tonno e lattuga e di recapitarglielo con un’altra bottiglietta di acqua minerale, poi continuando, mi disse che tra l’organizzazione Delta e quella SMI, per quanto afferiva l’antinfortunistica c’erano delle differenze fondamentali: per il Delta la l’impiegato della Sicurezza era una funzione dell’Ufficio Personale e si limitava a fare le denunce l’INAIL, mentre i provvedimenti tecnico-organizzativi per limitare i rischi, i rapporti con l’Ispettorato del Lavoro erano lasciati ai capi reparto interessati, sporadicamente con la collaborazione di qualcuno dell’’Ufficio Tecnico, e quelli con la pretura ad uffici legali esterni; in SMI la Sicurezza era una funzione autonoma in ambito tecnico, alle dirette dipendenze della direzione di stabilimento e l’addetto alla prevenzione degli infortuni e igiene del lavoro seguiva tutte le materie riguardanti la stessa, ogni aspetto, dal normativo al legale (col supporto di un Ufficio Legale in sede), all’aspetto tecnico soprattutto. Mi disse anche che per questo motivo, l’impiegato che seguiva la sicurezza dall’ufficio del personale era stato lasciato all’IRI, e che per fare le denunce all’INAIL si riteneva sufficiente che l’Ufficio Personale incaricasse uno dei suoi impiegati, fermo restando il fatto che la descrizione della dinamica restava compito esclusivo del tecnico della sicurezza, che in futuro sarebbe stato designato anche per lo stabilimento di Serravalle. Continuò ancora per un quarto d’ora a raccontarmi che ogni ufficio sicurezza degli stabilimenti era parte di un coordinamento e che tutte le esperienze venivano condivise a cura di un coordinatore centrale che si faceva carico di diffonderle. Tutti quei particolari mi convinsero che l’ing. Rabotti e la SMI tenevano molto alla sicurezza sul lavoro, però continuavo a domandarmi come mai per tutto quel tempo l’ingegnere avesse continuato a fare quei discorsi solo con me. Ero certo che i nostri elettricisti di recente non avevano subito alcun infortunio, né avevano provocato o subito incidenti.
Quello che l’ingegnere mi disse addentando il secondo panino, risolse i miei dubbi. Lui e l’ing. Chiaramonte avevano pensato a me per il ruolo di tecnico della sicurezza. Avrei dovuto lasciare l’officina elettrica e trasferirmi all’Ufficio Tecnico. Avrei dovuto conoscere i colleghi degli altri stabilimenti che svolgevano quella mansione e, con loro partecipare a una serie di incontri di formazione professionale che la SMI aveva programmato per il 1971, presso la Sede e presso società di consulenza di Milano, Torino e Genova, per rischi particolari quali il rumore, il rischio chimico, il rischio elettrico e l’antincendio. Avrei frequentato a Serravalle già dai prossimi giorni, insieme ad altri giovani periti come Urbano, Ballestrero, Perazzi e Capizzi un corso di metallurgia e tecniche di produzione tenuto dal dott. Ruggiero, Capo del settore Collaudo.
Mi parlò col tono di chi desse per scontata la risposta positiva e questo mi turbò, ma per quanto mi dispiacesse lasciare l’officina elettrica (in fondo avevo studiato duro per diventare perito elettrotecnico) la novità di quel lavoro mi entusiasmava e la determinazione di quel giovane ingegnere mi dava una carica notevole. Per cui risposi sì senza nessun ulteriore ripensamento.
Così dall’indomani mattina cambiai lavoro, pronto ad affrontare con determinazione uno stato di cose nient’affatto favorevole e una mentalità in quell’epoca diffusa, comune a tante attività lavorative in tutta Italia, che riteneva gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nell’industria pesante, uno scotto da pagare, evitabili soprattutto “rimanendo desti”, dove i capireparto erano i padre-padroni incontrastati e consideravano ogni intervento di analisi dei rischi nel loro reparto una indebita ingerenza. Alcuni di loro, tuttavia, agendo come un buon padre riuscivano ad ottenere un incondizionato rispetto dai loro dipendenti, il che faceva sì che le norme, almeno quelle interne, venissero tutto sommato rispettate e quindi si evitava il verificarsi di infortuni sul lavoro; in altri casi, però accadeva il contrario: gli ordini dei capireparto e dei capisquadra che esponevano a rischi non perfettamente controllati (perché quel lavoro da sempre si faceva così) venivano eseguiti sempre senza discutere e quindi alla minima distrazione, o accenno di stanchezza, l’infortunio si concretizzava.
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