Back in the 70’s…
Per qualche ragione, o forse è solo una mia strana convinzione, i bambini riescono a compiere nell’arco di una giornata molte più cose di un adulto, apparentemente per loro il tempo sembra scorrere più lentamente. Da bambina di tempo ne avevo a bizzeffe e in quello che avanzavo su un foglio A4 disegnavo una casa, poi due, poi tre e facevo nascere un piccolo centro abitato. Collegavo le case con una strada e via via aggiungevo tutto il necessario, lampioni, marciapiedi, perfino le cassette per le lettere e le tende alle finestre. Finito il primo foglio ne incollavo un altro con lo scotch e congiungendo con precisione i margini vedevo sorgere municipio, chiesa, ospedale, scuola e negozi vari.
Con l’aggiunta di altra carta sopra e sotto, il percorso proseguiva verso i monti e il mare. Il risultato era una cartina colorata che poteva crescere a piacere, una sotto marca della “Città Ideale” che mai avevo sentito nominare.
Mia mamma Angela, che aveva interrotto gli studi troppo presto causa guerra ma adorava studiare, non faceva passare giorno senza mettermi sotto il naso qualcosa da leggere. Poteva essere una favola, un fumetto, un libro di storia, un classico per ragazzi o un giornale qualsiasi, unico requisito era che contenesse caratteri stampati. Con siffatto bombardamento di storie e personaggi reali o letterari, non era difficile fantasticare sulle persone che avrebbero animato la mia città perfetta. A volte li riconoscevo camminando per mano con mamma lungo le vie del paese. Ad esempio nel foglio color ocra della spiaggia, la sedia sdraio sotto l’ombrellone sarebbe stata appannaggio di Mercedes, la mamma di Baciccia Bignardi. Non la incontravo spesso ma in quelle rare occasioni cadevo in contemplazione: era la Brigitte Bardot adocchiata sfogliando le pagine delle riviste. Bellissima e così diversa dalle donne del paese, sfilava vestita e pettinata all’ultima moda. La quintessenza di quello che propinava la tv si concretizzava con lei anche nelle nostre strade.
Dopo tanti anni ho pensato a come potrebbe essere la cartina non tanto di un luogo ideale ma della Serravalle dei tempi in cui ero bambina. Salire in stile Marty McFly sulla Delorean di Ritorno al Futuro impostando le lancette sugli anni ’70.
La prima pagina comincerebbe con i consumatissimi scalini di mattoni rossi delle scuole dove di lì a poco avrei frequentato le medie. Era il punto di incontro tra me, che arrivano dalla Piazza del Mercato, e le amiche di Via Berthoud e Porta Genova. Sotto un cielo azzurro Puffo colorerei una spianata di ghiaia che termina all’asilo delle suore dove abbiamo passato ogni torrido pomeriggio di luglio. Sarebbe un caseggiato bianco e minuscolo all’ombra dell’imponente vecchia scuola, già allora di un giallo massacrato dal tempo.
Ci vorrebbe un pallone per le ore nel cortile giocando a palla avvelenata, la matita viola per i lividi che portavo a casa per le pallonate da rugbista della Paola (fortuna che eravamo quasi sempre nella stessa squadra) e un bel verde Veronese per la “toppia” sotto la quale era imposta l’ora di cucito, attività che mi piaceva tanto quanto finire sotto un treno.
L’unica tecnica che vagamente capivo era il mezzo punto, purtroppo le suore erano tutte destrorse e io con la destra non ho mai imparato nemmeno ad allacciarmi le scarpe. Quando completavo una fila di punti da sinistra a destra, per ovviare a un movimento del tutto innaturale, invece di ricominciare da destra passavo tutto il filo sotto il canovaccio e riprendevo da sinistra con il risultato di sprecare una quantità industriale di filo e produrre un materasso in miniatura invece di un ricamo. Suor Daniela le tentava tutte per riconciliarmi con l’arte del cucito ma forte del fatto che nemmeno gli sforzi di mia nonna Lina mi avevano redento dal vizio di scrivere con la mano du diovu (grazie mamma per non averci neanche provato), come Penelope procedevo noncurante e imperterrita nel mio lavoro “di fino”.
Un altro oggetto che non potrebbe mancare nel ritratto dell’asilo è il cassettino di legno scuro all’ingresso della sala dove si faceva catechismo o si cantavano canzoni tipo “il coccodrillo come fa” o “se sei felice eccetera..”, acrobazie canore in cui di nuovo non eccellevo neanche un po’. Il cosiddetto botteghino, appeso ad una altezza calcolata per essere accessibile solo ad un adulto e comunque rigorosamente chiuso a chiave, veniva aperto con solenne lentezza da Suor Maggiorina, che somigliava a Papà Castoro delle favole, solo dopo che avevamo abbozzato una parvenza di fila indiana e dimostrato di poter versare l’obolo per questo buffo rito di eucarestia gourmet. All’interno c’era un repertorio di mentine e caramelle che parevano avere la stessa età del mobiletto e delle quali, senza essere per nulla “smorbie”, abbiamo fatto grandi scorpacciate fino al giorno in cui era cominciata a circolare la notizia della pericolosità dei coloranti tanto cari agli anni settanta, i famigerati E123, il rosso E125, il giallo solido E105. Ciò malgrado, posso confermare che siamo sopravvissute tutte quante.
All’interno dell’asilo i mobili minuscoli per bimbi piccoli ci facevano sentire come Gulliver nel paese dei Lillipuziani. Eppure non eravamo alte neanche noi e della nostra vera altezza ce ne accorgevamo ogni volta che da lì salivamo al piazzale delle scuole elementari.
Ci vorrebbe una pagina intera per il piazzale e tutto l’edificio con i due ingressi laterali e la palestra accanto. Proprio gli scalini su un fianco della palestra erano il rifugio preferito, il posto dove finalmente le regole erano le nostre e non quelle delle suore o dei genitori che fino all’ora di cena non avrebbero saputo più niente di noi. Avevamo lo stesso pensiero ricorrente della Guerra dei Bottoni “E’ dire che quando saremo grandi, saremo magari scemi come loro!”, mentre il tempo era scandito a scelta tra ciarle, baggianate, confessioni, elastico e nascondino fino alle avventure nella jungla del Bugion o nel territorio inesplorato e pericolosissimo della Cabboi, che se ti avvicinavi troppo urlava o ti lanciava dietro il cane.
Nel disegno potremmo somigliare ai ragazzini di Stand by me in cammino sui binari della vita con la didascalia come nel film “Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni…Gesù ma chi li ha?”
Accennavo sopra al fatto che qui prendevamo coscienza della nostra vera altezza perché da una delle case accanto alla scuola veniva a trovarci spesso la Lorenza, una ragazza fatta e finita le cui gambe arrivavano circa al nostro mento.
E’ necessario tratteggiare noi nanette trotterellanti dietro Biancaneve fin su al campetto da tennis dietro la palestra. Ci aveva insegnato a giocare benino anche se è d’obbligo ammettere che chiunque avrebbe imparato con tre o più ore di esercizio quotidiano. Nino il bidello, un signore gentile d’altri tempi, ci permetteva infatti l’uso del campo dall’una e mezza, quando non c’era neanche un cane che volesse rischiare di schiattare sotto il sole cocente, fino all’arrivo dei veri tennisti nel tardo pomeriggio.
In questo disegno dovrei aggiungere anche un enorme mucchio di foglie secche e erbacce per il giorno in cui giocando a nascondino la Anto, figlia di Oreste il macellaio, che scappava lungo il muro di cinta del campo da tennis, era precipitata dal punto più alto con il gonnellone a fiori gonfiato a guisa di paracadute. In quell’istante di paralisi nella mia testa frullavano già le immagini di croce rossa, santa inquisizione e orribili punizioni corporali. Il bidello però quella mattina con provvidenziale tempismo aveva ammucchiato il fogliame proprio nell’angolo della caduta e la vita aveva ripreso a scorrere nelle nostre vene insieme alla Anto riemersa senza un graffio dal morbido “lettone”.
Dopo la partita se non ci si accontenta della “gasösa” del bidello, basterebbe delineare con la matita la via che oltrepassa l’asilo e la Madonna di Caravaggio e passare sotto il voltino del Cinema Lara. Una fugace occhiata ai cartelloni dei film in programma e due risatine pensando alle facce delle suore vedendo la foto di Pierino avvinghiato a una donnona mezza nuda e, svoltando l’angolo, disegnerei un negozio per il quale è necessaria tutta la scatola dei colori.
La bottega della Gilda conteneva ogni oggetto del desiderio dei bambini. Era una latteria e certamente vendeva un’infinità di altri articoli ma a noi interessavano solo caramelle, ghiaccioli, gelati, patatine e “ciunga”. Una goduria per gli occhi e per la pancia accatastata alla rinfusa in ogni più piccolo anfratto. La Gilda era la Fata Turchina che con grazia chiudeva entrambi gli occhi quando in tanti applicavano autonomamente la pratica del prendi tre e paghi uno e aveva un marito per il quale ci vorrebbe una pagina da attaccare un po’ fuori paese, possibilmente in mezzo a un bosco. Era Guglielmo Tell con l’inappuntabile divisa da cacciatore, il cappello, la barba e i capelli lunghi. In qualsiasi momento avrebbe potuto metterti una mela in testa e trafiggerla con una freccia.
Con l’ultimo foglio e se abbiamo ancora qualche moneta in tasca, potrei inserire un breve tratto e dar vita alla Piazza delle Aie, colorando in un lato l’edicola della Alma Solavaggione che vendeva le figurine e speravi si sbagliasse a contare i pacchetti e te ne toccasse uno di più.
Serve una matita nera per colorarle i capelli corvini e contornare gli occhi verdi con tre righe di kajal. L’impressione era che avesse un’aria malinconica, una specie di Dora Maar in attesa di Picasso.
Ma a noi interessava di più sapere se finalmente avevamo messo le mani sulla “figu” di Sandokan con il salto della tigre e passare una mezz’ora a dire “Celo celo manca manca” per far venire l’ora di tornare a casa.
“Paola, mentre vai a casa con una linea retta arrivi alla cartoleria dell’Angelina. Se domani ti porto i soldi mi compri la carta assorbente che con la sinistra e l’inchiostro faccio macchie dappertutto e un album da disegno? Devo disegnare la Piazza del Mercato, casa mia”.