Voci dallo Scrivia
Ci sono questi due giovani pesci che nuotano e incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario e fa loro un cenno, dicendo: «Salve ragazzi, com’è l’acqua?» e i due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e alla fine uno di loro guarda l’altro e fa: «Che diavolo è l’acqua?».
Queste righe sono l’inizio del discorso dal titolo “Questa è l’acqua” dello scrittore David Foster Wallace rivolto a neolaureati di un college statunitense. Il senso è facile: le cose ovvie sono le più difficili da vedere perché ci siamo immersi da quando siamo al mondo.
Il discorso prosegue verso altre direzioni e se volete buttateci un occhio. A me è venuto in mente pensando allo Scrivia, la lunga zip in mezzo a Serravalle, che in fondo è una delle cose più scontate per chi abita in paese.
Sono venuti a galla aneddoti e ricordi, comuni probabilmente a molti. Qui si innesta il discorso di Wallace: come ragioniamo di fronte alle cose ovvie, che diamo per scontate?
Una premessa: lo Scrivia lo nomino al maschile anche se non è corretto. Si deve dire la Scrivia? E’ vero ma ho sempre sentito dire “in te Scrivia”, “u Scrivia”, persino “u Scrivion”.
Per questo chiedo scusa, bando alla grammatica e all’etimologia, “ ‘Ndema in te Scrivia” a bordo di ricordi alla rinfusa.
Lo Scrivia è la prima acqua che ho visto dopo quella del rubinetto, il luogo antecedente alle vacanze al mare, alle villeggiature e ai viaggi. Il posto dove una quantità di gente, spesso famiglie intere, trascorreva lunghi pomeriggi di calura estiva; dove generazioni di ragazzini hanno imparato a nuotare e a tuffarsi dalle rocce. La piscina era per pochi eletti, la vedevi solo una volta ogni quattro anni alle Olimpiadi in tv.
Molto prima di noi, ai tempi ante-lavatrice, era dove le donne lavavano i panni per le loro famiglie o per altri a pagamento.
Lo Scrivia per questo è la Mafalda, classe 1915, con la crocchia di capelli bianchi come un marchio di fabbrica che a cent’anni mi spiegava passo passo come si fa il bucato con la cenere. Le parole erano chiare, sembrava un film in bianco e nero e mi appassionava con i suoi occhi scintillanti ma è una cosa così lontana dal mio mondo che non saprei ripetere neanche una parola.
E’ mia nonna con le sue sorelle, all’inizio del secolo scorso, bambine a inanellare collane di edera e fiori per giocare a fare le “sciue”. Sono le corse a rincorrere galline che pare razzolassero in gran numero mentre le uova che trovavano erano praticamente sempre vuote.
E’ lo spiazzo dove giocavano al girotondo. “Casca il mondo casca la terra”, la cantilena nata ai tempi della peste per esorcizzare la paura, che cantavano durante la prima guerra mondiale, suona ancora terribilmente attuale…“tutti giù per terra”.
O il campanone per il quale bastavano un gessetto e un sasso. Ci giocavano già i romani e lo chiamavano claudus, lo zoppo. Era l’allegoria del cammino, casella dopo casella, dell’anima (il sasso) verso il paradiso. Per queste bambine mai uscite dal paese il paradiso era lo Scrivia.
E’ mio nonno Dario con la sua immancabile chitarra imbracciata in questa foto del ’27 da Engilein dee Bè Pozzi, e gli amici Berthoud, Piccinin, Piccardo e Bailo Geassa.
E riuscivano a giocare a bocce sulle sponde del torrente. Non chiedetemi come ma è abbastanza chiaro dall’atletico gesto di mia nonna Lina nella foto.
Sono le ore passate con suo figlio, mio papà, a pescare durante la seconda guerra per mettere insieme il pranzo con la cena. A piedi o in bicicletta fino a Isola del Cantone e poi indietro per vendere pesci ai bottegai di Novi.
E’ mio papà a 12 anni con gli amici che, per far prima dato che in guerra vale tutto, ronzavano intorno ai soldati tedeschi finiti a Serravalle soltanto per colpa del destino e che non avevano niente contro quattro ragazzini. Strattonandoli per la divisa gridavano “Bomba bomba!”, a quel punto un soldato scagliava una bomba a mano dentro l’acqua e i pesci saltavano a galla già pronti per la padella.
E’ l’orto sulla sponda opposta alla Nave, tutti i pomeriggi con l’amico Enzo Ferrari, il Bressantino. Si entrava attraverso la doppia porta di una baracca di legno un po’ sbilenca incastrata sotto un albero. All’ingresso c’era un vecchio cartello d’altri tempi con la scritta Negozio e per mio nipote bambino di città era un antro magico, come essere catapultato in carne e ossa nel bosco dei 100 acri di Winnie Pooh.
Sono i giorni di primavera in cui facevo finta di studiare e stavo ore ad ascoltarli: il Bressa con la pelata lucida, il Barban già avanti negli anni e ghiotto di caramelle, Cabella con il passo flemmatico e il Rico e Cögu con l’aria da viveur.
“ Bressa ti ricordi il Gino Ciöa? U satova kme ‘n matu” quando gli abbiamo fatto trovare tra i “ciapouni” una manciata di sesterzi romani” Erano le sorprese delle barrette di cioccolata della Vegé. “Gni a veghe! Munaide romane!” E il Ciöa, un simpatico e incorreggibile “invesgiendone” correva su dall’amico parrucchiere “Peo, sta vota a fagu i sodi!”.
“E a vota ‘d Padre Pio, iv suveni?” quando abbiamo scalpellato una roccia tracciando il profilo del Sant’uomo, poi Gino ci è passato davanti e…“ Miracolo!” E su di nuovo a grandi falcate dal Peo:
“U ghé Padre Pio in te Scrivia! A son in miraculò!”
Lo Scrivia è Federico Mazzarello, il Rico e Cögu che, mentre legava mazzetti di fiori con uno strano nodo – alla giapponese diceva lui – da regalare alle “sciue” del paese, mandava la Bohème tutta a memoria. “Celeste Aida… del mio pensiero tu sei regina” era un coadiuvante alla crescita di pomodori e zucchine.
Sapeva tutto dell’opera il Rico. Iniziava dal racconto dell’annuale pellegrinaggio a Bussetto, la città di Verdi, ma finiva inesorabilmente per snocciolare un campionario di avventure al casinò, una passione da fargli girare la testa, le vincite ai tavoli di Sanremo, i soldi persi per non essersi fermato al momento opportuno.
Lo Scrivia è una serie di disastri ambientali, è il metanolo anni 80 e una catena di orribili incidenti di camion schiantati nella curva della morte. In acqua è precipitato di tutto: bottigliette di shampoo, DDT e pellicole fotografiche Kodak solo per dire quelli che ho visto con i miei occhi. Senza contare la morte di persone che sfortunatamente allo stesso modo sono volate giù e almeno in parte si poteva evitare.
Lo Scrivia è lo scrivione quando piove a dirotto e da torrente si ingigantisce a fiume.
Chi ha un DNA serravallese o un minimo attaccamento a questo paese non può trattenersi appena spiove dal portarsi sul ponte per osservarne l’altezza e la mutazione dell’acqua da “galösa a sturbia”, dettagli da puristi del dialetto.
Quando poi torna alla normalità lo Scrivia si trasforma in robivecchi. La corrente consegna oggetti di ogni tipo, perfino pneumatici o motorini interi, rottami dei quali bisognerebbe far pulizia ma non sono sicura che succeda. Anzi, spesso ho avvistato addirittura cumuli di detriti di edilizia.
Lo Scrivia sono io e la Paola Rampa con i famigerati sandali di plastica con i buchi che facevano passare sassolini “a brettiu” sotto la pianta dei piedi e ogni dieci passi dovevi saltellare su una gamba. Sono secchielli, palette, fiori rosa del sapone da sfregare e dietro di noi la Lina e la Mafalda con i “sugamauni” e la merenda nella sporta. Per loro cominciavano le “ciaccere”, per noi lo sguazzare a più non posso.
E’ mia mamma Angela e una nidiata di bambini che recuperava di casa in casa per andare alla grotta sotto la Nave. Si procedeva a forza di “scüouni” su “ciapouni” scivolosi come saponette, tanto se andavi a gambe all’aria era già pronta la risposta più gettonata all’epoca: “Cost ti vö cu segia, sta sü cle neinte”.
E’ il canotto vinto alla lotteria e una smaniosa attesa fino all’estate per poter salpare.
200 metri d’avventura immaginando Sandokan e Orzowei tra la radura, ma un improvvido e inclemente buchino ha inabissato in un istante la plastica e schiantato i nostri sogni.
Lo Scrivia è mia sorella Marina, capitana coraggiosa che per fortuna da bambina non era un giunco e ha trascinato a riva canotto, remi e sopratutto me.
Lo Scrivia è chi in altri tempi divideva il fiume in settori, a ciascuno il proprio nome. Dicevano
“As’ vedima a’a Pila Vegia, a’a Pila Növa, au Logu di Cavali o a’a Nòve e sapevano esattamente dove incontrarsi. Era normale come dire ci vediamo a Porta Genova o dai Bianchi.
In un libretto di memorie di mio zio è menzionato anche un Logu Filadù ma non ho idea di dove collocarlo.
Questo è quanto di primo acchito mi torna in mente se penso allo Scrivia.
E’ un enorme scrigno di memorie, un’entità vivente che dalla notte dei tempi attraversa le nostre vite.
Ho letto da qualche parte che ci si può fare un’opinione sul grado di civiltà di un paese da come si curano fiumi e cimiteri. Due cose che, come detto all’inizio, sono così ovvie che tendiamo quasi a non vedere.
La foto di mio papà Lino e suo nipote che mano nella mano camminano verso lo Scrivia in un pomeriggio d’estate è quello che dovrebbe essere: un passaggio tra generazioni per non dimenticare, imparare, rispettare. Questa è l’acqua, per me.