A Smàuna Sàunta. 2 – Giovedì Santo e I Sepolcri
Il Giovedì Santo
Il Giovedì Santo era forse l’unica giornata dell’anno in cui c’era la Messa vespertina, visto che è memoriale dell’Ultima Cena e la cena non si serve a mezzogiorno. Al canto del Gloria le campane suonavano a distesa per poi essere “legate” fino alla veglia pasquale. Osservando i dettami dell’arte campanaria, tutt’ora riscontrabili nell’area ambrosiana ossia nelle località lombarde dove si celebra con questo rito o che da questo hanno tratto spunto (qualcosa dalla Padania l’ha importata pure Serravalle ma questo è un altro tema), i campanari ambrosiani provvedono (i nostri no) a due azioni precise (o meglio vi provvedevano, quando l’azionamento dei bronzi era manuale): legare effettivamente tra loro le corde delle campane anche per evitare che qualcuno le suoni magari inavvertitamente, e -in alcuni casi- prima della legatura, mandarle “in piedi” ossia con la bocca in alto ed il contrappeso in basso, nella tipica posizione da suono “a morto”. A partire da questo momento per due giorni la comunità priva di segnali sonori non avrebbe potuto essere avvertita/convocata, dunque occorreva provvedere con qualche altro apparato.
Come ancora presente nella memoria di diverse persone che ce l’hanno riportato, i modi di segnalazione alternativi alle campane erano due: l’uso della “batuèla” e del “gri-grö”. Il primo è una tavola in legno, simile ad un tagliere, sulla quale sono collocate con occhielli due maniglie metalliche, una per lato. Afferrando l’apposita impugnatura e facendo ruotare alternativamente il polso, le due maniglie vanno a sbattere contro il legno, producendo un caratteristico richiamo. Il secondo strumento è quello che in italiano è detto “raganella” e consiste in un piccolo rullo scanalato simile ad una manovella, che “gratta” una lamella sempre in legno posta su apposito supporto che ruota attorno al rullo: sempre col movimento di mano dell’operatore, si produce il caratteristico “rumore” che ha dato il nome popolare a questo -a modo suo- strumento musicale. L’esecuzione avveniva per la pubblica via; non risulta che ci fosse installata una sorta di raganella gigante sul campanile, come invece accadeva a Stazzano. Di solito erano i ragazzi che facevano il giro del paese per annunciare l’avvicinarsi delle funzioni.
Qualcuno di essi ebbe l’idea di strafare con qualcosa di sicuro effetto e questo negli anni ’50 portò ad una tragedia. Domenico che aveva un passato da artificiere, reperì una bomba inesplosa, residuata dai lanci inglesi o americani sulla nostra zona, e pensò di svuotarla per prendere l’esplosivo con cui sparare qualche “botto” in alternativa certo più rumorosa rispetto al cicaleccio della batuéla o del gri-gre. Una errata manovra provocò l’esplosione dell’ordigno nelle mani dell’operatore che ovviamente morì, spappolato, sul colpo, è proprio il caso di dirlo (ringrazio Gian Cravero per questa testimonianza orale).
Venerdì Santo era celebrato in un clima severo, penitenziale e di lutto, in sostanza si celebrava il funerale del Signore, i paramenti usati erano infatti di colore nero. Al pomeriggio vi era la liturgia della Croce durante la quale si andava a inginocchiarvisi davanti, scalzi, ed a baciarla, innalzando intercessioni veramente universali: per la Chiesa, per i “perfidi” giudei (diverse volte don Bovone aveva spiegato che “perfido” deriva da “super-fidato”, ossia persona che dévia dalla fedeltà, e la tradisce, perché si vota più all’organizzazione che ai valori che detta organizzazione dovrebbe incarnare), per gli eretici, gli scismatici, i peccatori e i malati nel corpo e nell’anima. Nell’Oratorio dei “rossi” sono tutt’ora presenti diversi campanelli dal suono stridente, probabilmente usati dai fedeli (dai ragazzini in particolare) al termine del canto dell’Ufficiatura, al momento in cui si faceva fracasso con ogni sorta di strumento (e pure battendo i piedi sugli inginocchiatoi o i libri sugli stalli del coro) per rammentare in certo qual modo il terremoto cui andò soggetta la Terra al momento della morte del Signore. Veramente questo atto era noto tra i suoi attori come “fò i Gidé” (fare i Giudei) per rievocare l’agitazione degli Ebrei verso il Sinedrio, a cui chiedevano la crocifissione di Gesù. Venuta la notte, la processione con il Cristo morto solcava le vie del paese, intercalata da canti “funebri” e dolorosi, struggenti, che ricordavano la Madre dolorosa piangente presso la Croce, accanto al corpo morto del Figlio: se Egli era in questa condizione lo si doveva ai peccati degli uomini che imploravano perdono e pietà con un motivo ben noto ai nostri avi.
Il Venerdì Santo era un giorno cupo, e anche l’«Ufficio delle tenebre» accompagnava i sentimenti di oscurità e tristezza presenti davvero nei cuori, mediante le Lamentazioni di Geremia cantate a memoria ossia a tradizione orale (sarebbe da riprendere o almeno da salvare!) dai confratelli, su toni lugubri (e chissà con quanti strafalcioni in “latino”).
Don Luca Gatti ha fatto un ottimo lavoro di ricerca d’archivio dal quale emerge la collocazione e l’uso del grande crocifisso della cappella dell’Addolorata. I recenti restauri hanno riportato in luce che ha le braccia snodate, rifinitura tecnica necessaria per la paraliturgia della “calata” dalla Croce, al termine della quale partiva la processione appunto del Cristo morto in cui esso era accompagnato dalle nostre Confraternite, in particolare da quella dei “rossi” che per l’occasione vestiva cappa nera, indicatrice della sua aggregazione (avvenuta a metà ‘600) anche alla “famiglia” della Misericordia, famosa casa-madre che si distinse nei secoli in specie per i sevizi di assistenza funebre. Questa documentazione dovrebbe chiarire del tutto che non era il Cristo che fa parte del Compianto ad uscire nel sacro corteo, né quello in cartapesta (scomparso o forse deterioratosi e quindi eliminato) di cui parlavano i “rossi” più anziani, simulacro che serviva per essere collocato nel “Sepolcro” dell’Oratorio della Trinità (foto d’epoca databili ad inizio ‘900 testimoniano che veniva allestito un vero e proprio Calvario che occupava l’intera area dell’altare). Non abbiamo testimonianze successive al periodo tra le due Guerre Mondiali, periodo in cui questi sacri cortei purtroppo cessarono se non erano già cessati prima. Forse lo spoglio catafalco tuttora conservato nei “rossi” serviva per recare il loro Cristo di cartapesta citato sopra, accompagnato dall’antica croce coi simboli della Passione (vedi infra) che è invece tutt’ora il pezzo forte dell’arredo liturgico di queste funzioni, per la visita all’altare della reposizione, che essi facevano in chiesa parrocchiale verosimilmente la sera del Giovedì o la mattina del Venerdì. Nelle regole confraternali questa era qualificata come processione “d’istituto” perché era riservata solo al sodalizio, all’istituzione, che la faceva (qualcosa di simile facevano pure a Gavi): era un atto di affermazione della propria appartenenza ad una rete che riconoscendosi nel Mistero della Morte lo ribadiva proprio nella ricorrenza più emblematica.
I Sepolcri
Serravalle in ogni caso, più che per le processioni si distingue per i “Sepolcri” allestiti nelle tre chiese del centro storico. Nella memoria collettiva tutti convengono che per ottenere i corrispondenti benefici spirituali se ne devono visitare tre. Pare che questa convinzione sia nata a seguito del rinnovo delle Indulgenze ottenuto dai Trinitari serravallesi ad inizio ‘600 con la riforma dell’istituto religioso omonimo cui fanno tutt’ora capo. Nel lungo elenco di benefici riconosciuti, c’è pure la concessione di Indulgenza plenaria “come a San Giacomo di Compostela e Roma” ai fedeli che visitano il nostro Oratorio negli Anni Santi, ed annualmente a chi vi entri in occasione di una qualche circostanza scelta dal fedele, purché questi visiti oltre alla nostra chiesa, altre due chiese od altari della stessa località. Probabilmente è per questo motivo che si insiste sulla visita ad almeno tre “Sepolcri”, atto che fino a pochi anni fa rendeva molto vive le vie del nostro centro storico per tutta la serata del Giovedì, l’intera giornata del Venerdì e la mattinata del Sabato (quando si andava a baciare il Cristo deposto, in attesa della Veglia Pasquale ricollocata in orario notturno).
Prima di continuare occorre narrare alcuni aneddoti relativi all’allestimento dei “Sepolcri” serravallesi. La sua preparazione impegnava intere giornate e soprattutto la pazienza degli allestitori. Dagli anni ’80 in poi cominciavano a venir meno anche le loro forze fisiche, cosicchè essi si limitavano a fare quel che potevano ossia a collocare davanti all’altare fiori e lumi offerti da tutta una serie di pie persone (ce ne fossero ancora oggi!) ma in modo non sempre confacente. Si imponeva qualche innovazione, pulizia, riordino, se no era sempre la stessa coreografia.
Nel 2002 mi feci coraggio ed anche se me lo avevano sconsigliato per non creare incidenti diplomatici, nella notte tra Mercoledì e Giovedì Santo rifeci completamente l’altare della deposizione allestito da “Scupélu” (Gino Cremonte) che nei “bianchi” ne era il regista incontrastato (nei “rossi” se ne occupava allora Gigino Ferrari che non andava oltre l’allestimento floreale e la collocazione dell’Agnus Dei al centro del presbiterio). In sostanza si trattava solo di dare una proporzione ed una prospettiva a vasi e vasetti ed a candele e moccoli ma non era facile poiché questo l’ha portato il tale, quello l’ha portato la tal altra e guai a deludere gli offerenti (spesso incancreniti nelle loro convinzioni o devozioni)! Il risultato del restyling fu notato e fece positivo effetto. Cremonte vide, prese atto e non proferì parola e non me la rivolse fino al Lunedì dell’Angelo. Egli usava uscire di casa al mattino per andare a prendere il giornale e poi passava nel negozio di Canegallo per fare due parole. Le sue conoscenti lo sapevano e nell’occasione lo fermarono sia per strada che in negozio per complimentarsi. Ovviamente Gino non poteva dire “non l’ho fatto io, ecc.”-. Così il Lunedì di Pasqua (che aveva ancora un ricco calendario di Messe, pure negli Oratori) mi fermò e mi disse: “Ok hai vinto, mi hanno fatto tutti i complimenti, io non riesco da solo a continuare a fare il “Sepolcro” però mi raccomando che le tue novità non siano passeggere, fallo anche nei prossimi anni!”. Ovviamente il minimo che potevo fare era di prometterglielo solennemente. Gino, Linein Mongiardini, Pippo Ballestrero avevano anche una funzione di vigilanza su quel che avevano allestito.
Via Tripoli degli anni ’70 in particolare, era abitata da emigrati giunti a lavorare nelle fabbriche del novese. Molti loro figli giocavano senza tanti problemi nella “cuntrò ‘d sùa”, un divertimento o una gara potevano anche essere quelli di riuscire a scavalcare la cancellata dell’Oratorio dei “bianchi” o di riuscire ad infilarsi tra le inferriate, per entrare velocemente nel sacro edificio, e tentare di rubare le elemosine depositate nello storico piatto di bronzo collocato davanti all’altare. Un bastone a portata di mano e sonore imprecazioni ai mariuoli, erano di solito sufficienti ad ottenere effetto deterrente, in qualche caso Gino in particolare si collocava dietro il portone d’ingresso e nella penombra attendeva in agguato i “rapinatori”… Un motivo di apparente disaccordo tra le due confraternite poteva sorgere, a volte, circa l’orario di apertura al pubblico dei “Sepolcri”. Apriamo prima o dopo Messa? Apriamo a tempo o ciascuno fa per sè? Quanto teniamo aperto? Tutti aspetti secondari su cui non andava certo più sprecato tempo e discussioni, tutte cose repentinamente passate in secondo piano ben prima degli eventi correnti… Sicuramente fu un dispiacere per tutti quando qualche anno fa piombò un arbitrario divieto di allestire i “Sepolcri” nelle chiese “succursali”, in nome dell’unità della celebrazione… ma questa unità non si crea all’istante, per decreto (tant’è vero che pochi anni dopo le cose tornarono come prima senza aver registrato casi di stravolgimento pastorale). Miglior effetto era invece sortito dalla pia gara tra chi l’allestiva meglio, cosa su cui il pubblico era attento esaminatore. I commenti relativi avrebbero fatto parlare la gente per diverso tempo…
Immagine in evidenza: Beato Angelico – La Comunione degli Apostoli (affresco, Firenze, Convento di S. Marco)