CAMUSSA, Carlo “u Luciu”
Militare, reduce della Campagna di Russia (di Pietro Camussa e di Angela Gemme, Francavilla Bisio, 13 giugno 1913 – Serravalle Scrivia, 5 giugno 1996)
Carlo Camussa è mio nonno. Nato da una famiglia di contadini, è il quarto di sette figli, tre femmine e quattro maschi. La sua infanzia non è tanto diversa da quella della maggior parte dei figli dei contadini di allora: poca scuola e lavoro precoce nei campi. Sviluppa quindi un fisico forte e possente, nonostante fosse nato di sette mesi, gracile e minuto, e con poche speranze di sopravvivenza, considerati i tempi.
Un brutto giorno, la cascina in cui abita è distrutta da un incendio, e così, in fretta e furia, tutta la sua numerosa famiglia si trasferisce ad Arquata Scrivia in un’altra cascina, in località Picareto, zona in cui ora sorge la Suissa. La sua vita non cambia: a scuola poco o niente, a lavorare nei campi quasi sempre. E’ ancora bambino quando, in autunno, insieme ad uno dei suoi fratelli, va a fare il garzone in una cascina di Carrosio dove c’è bisogno di manodopera per la vendemmia e per le stalle. Per il mio bisnonno Pietro è un modo per avere due bocche in meno da sfamare e per avere, forse, qualche lira da poter spendere. Si incamminano a piedi, naturalmente, e, dopo circa tre mesi, alla vigilia di Natale, i due fratelli furono rimandati a casa. La paga fu una “micca” di pane per ciascuno. La sua vita continua così, tra lavoro in campagna e lavoro alla fornace di Balbi, alla Libarna. Conosce mia nonna, Gualco Maria Iride, una donnina piccola e esile, nata a Pratolungo nel 1909 che, accanto a lui, sembra ancora più piccola. Si sposano nel 1937 e, nei tre anni successivi, nascono tre belle bambine, mia zia Piera (1938), mia mamma Emma (1939) e mia zia Giuliana (1940). Nel 1949 arriva un maschio, mio zio Gian Luigi (il Gian) che per anni milita tra le file del Libarna Calcio. Intanto, però, inizia la seconda Guerra Mondiale.
Nel 1942, quando la Germania manifesta l’esigenza di aumentare il contingente dei soldati italiani in Russia, Mussolini non esitò ad incrementare le forze militari italiane. E’ così che mio nonno, il 24 giugno 1942, con il 124° Gruppo Mobile della Divisione Acqui, parte per la Russia, separandosi dalla moglie e dalle sue tre bambine rispettivamente di due, tre e quattro anni. Il momento è dolorosissimo e aggravato inoltre dal fatto che anche i fratelli di mio nonno sono in guerra sparpagliati per i quattro angoli del mondo.
Le donne rimaste a casa con i figli, si riuniscono tutte nella cascina paterna e formarono una grande famiglia nella quale ognuno dà il suo contributo per tirare avanti. Le notizie dal fronte arrivano raramente. A casa si sa che il freddo era insopportabile, il cibo scarso così come le armi a disposizione. Il ghiaccio impedisce di stare in piedi e, per non cadere, molti camminano a quattro zampe; le scarpe sono totalmente inadeguate, se si bagnano l’acqua diventa ghiaccio risultando impossibile tenerle addosso. I soldati tagliano strisce di stoffa dai loro cappotti o, purtroppo, dai cappotti dei loro compagni morti assiderati e, in questo modo, provano a salvare i propri piedi. Tra le notizie pervenute dal fronte, c’è la richiesta di un paio di guanti, richiesta che non può essere esaudita. Passano i giorni, le settimane, i mesi… ogni tanto arriva la notizia più importante: è vivo.
Dopo infinite e inenarrabili sofferenze e atrocità inizia la tragica ritirata che vide innumerevoli perdite di vite umane. Mia nonna, dopo oltre un anno dalla partenza per la guerra, è informata del ritorno di mio nonno ad Acqui e lì si reca ad accoglierlo. E’ un momento struggente, unico e indimenticabile. Al suo rientro a casa riabbraccia le sue tre bambine; lacrime di gioia si mescolano a lacrime di dolore quando viene a sapere che la sua Piera, la primogenita, colpita da difterite, è costretta all’immobilità per un anno.
Da quel momento la vita ricomincia sotto una parvenza di normalità… sì, perché la guerra cambia gli uomini, li devasta, nel corpo e nello spirito. Fortemente provato dalla tragica esperienza sul campo, passa la sue esistenza a cercare di dimenticare le atrocità vissute. Non racconta mai a nessuno di ciò che aveva passato al fronte. A chi gli chiede qualcosa, risponde che da ricordare non c’è proprio niente, semmai tutto da dimenticare. Le persone reagiscono al dolore in modi molto diversi. C’è chi si trova in balìa della propria mente, imprigionato in una fitta rete di ricordi vividi che tolgono il respiro e c’è chi, come accade a mio nonno, prende la distanza da quei momenti quasi non fossero i suoi, depersonalizzandosi e dissociandosi da quello che è accaduto e da quello che probabilmente ha dovuto fare per sopravvivere, perché forse, dopotutto, “se non ne parlo è come se non fosse mai accaduto”. Chi soffre di un disturbo da stress post traumatico tende ad oscillare tra la ripetizione compulsiva dell’evento e la sua totale negazione, negazione che è anche la prima fase dell’elaborazione del lutto. Mio nonno non riesce mai ad andare oltre di essa. Non manifesta mai rabbia né depressione o frustrazione, semplicemente chiude la mente perché dissociarsi gli permette probabilmente di tenere insieme quei frammenti di sé che altrimenti sarebbero andati in mille pezzi.
Dopo qualche tempo, a conflitto terminato, un superiore dell’esercito si presentò a casa sua per ringraziarlo. Tutti si guardarono attoniti. Perché quel uomo è lì? Cos’è successo che nessuno conosce? L’uomo comincia a parlare, a ricordare…. Durante la ritirata, migliaia di soldati, stremati dal freddo, dalla fame e dalla fatica, si accasciano al suolo e lì vengono lasciati a morire. Spesso ci si impossessa dei loro indumenti fradici e gelati e dei loro viveri, anch’essi gelati, ma era questione di sopravvivenza. La stessa sorte sarebbe toccata anche a quest’uomo che marcia verso casa accanto a mio nonno. Consapevole che le poche forze rimastegli stanno venendo meno, lo implora di lasciarlo morire e di prendere quel poco che aveva con sé. Mio nonno non vuole sentire altre parole. Senza pensarci due volte, se lo carica in spalla e lo porta a casa. È tutto quello che sappiamo.
Il nonno trascorre il resto della sua vita donando tutto il suo amore alla famiglia, ai figli, ai sette nipoti e all’unico pronipote che è riuscito a conoscere, mio figlio Francesco. Dopo le scelleratezze viste in guerra, acquisisce la capacità di valutare i problemi della vita quotidiana, discriminando quelli seri da quelli banali, e di accontentarsi delle cose belle che il destino gli avrebbe riservato, prima tra tutte il suo sigaro toscano che ormai era un tutt’uno con lui. E’ nato con tanta bontà e tanto amore nel cuore e nel corso della sua esistenza li dona tutti, indiscriminatamente. Mio nonno si spegne nel giro di quindici giorni nel 1995 all’età di 82 anni per un male incurabile che gli ha procura atroci sofferenze ma che cerca di nascondere per amore dei suoi cari. Nessun lamento è uscito dalla sua bocca.
Alla sua morte scopriamo che dentro il portafoglio, oltre ad un’immagine della Madonna, conserva una foto che lo ritrae in Russia insieme a due suoi compagni.
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