La maglia da ciclista
(di Lorenzo Bisio)
Come tutti i ragazzini della mia epoca, verso la fine degli anni 60 anche il sottoscritto gioca a calcio, sulla strada o nei prati intorno a casa, con un pallone di cuoio a stringa.
Non ho però ancora una idea ben chiara su quale squadra tifare, combattuto fra la grande Inter del mago Helenio Herrera, che, insieme al Milan del “Paron” triestino Nereo Rocco, domina in Italia, in Europa e nel mondo, e il Toro la squadra per cui batte il cuore di mio zio “Curasa”.
Mio padre Giorgetti, capo cantoniere in Provincia, ha come territorio di riferimento (allora si chiamavano “cantoni”) le strade della Val Lemme e la Val Borbera.
Corre l’anno 1971 ( primi di marzo per l’esattezza) e il destino vuole che, tramite il suo lavoro, accada un fatto decisivo per la mia fede calcistica.
Nel rettilineo che dalla Galleria della Crenna conduce a Gavi, sorge sulla destra una bella villa con un lungo vialetto inghiaiato.
Ai lati del cancello di ingresso sono posizionati due cigni bianchi a dimensione naturale.
Il proprietario, il portiere della Sampdoria Pietro Battara (ma lui non lo sapeva), chiede gentilmente a mio padre se, con gli avanzi di un fusto di bitume, gli può tappare qualche buco sull’asfalto davanti alla sua residenza estiva.
A lavoro ultimato per sdebitarsi gli chiede “Lei ha figli ? Giocano a calcio ?”
Papà risponde di si e lui : “ Mi lasci il suo cognome e se vuole venire a vedere qualche volta giocare la Sampdoria a Genova passi alle biglietterie (allora erano ancora lungo il Bisagno sotto la gradinata Sud) e dica che la manda Battara.
Giorgetti, che di calcio non capisce un accidente, essendo tutto preso dalle carte e dalla banda, ringrazia quel distinto signore e arrivato a casa alla sera mi dice : “ Sai oggi ho conosciuto un importante dirigente della Sampdoria, che ci ha invitato a vedere gratis una partita; appena fa un po’ più caldo andiamo a mangiare i pesci a Genova e ti porto allo stadio (il mitico Luigi Ferraris).
Detto fatto, la mattina del 18 aprile 1971, questa data non la scorderò mai, prendiamo il treno e arrivati a Genova andiamo a mangiare alla storica trattoria “Scià Carlotta” sotto i portici di Sottoripa.
Pranzo a menù fisso : antipasto di muscoli, trenette al pesto con fagiolini e pesce allo scabecchio (piatto quasi introvabile ai giorni nostri).
E poi, percorrendo a piedi il lungo Bisagno, ci avviamo verso lo stadio.
Già lungo il tragitto sono affascinato dalle sciarpe e dalle bandiere della Sampdoria in vendita nelle varie bancarelle, tutte gestite da napoletani (allora nella zona del centro storico, “i caruggi”, viveva una numerosissima comunità di napoletani che sbarcavano il lunario in attività non proprio lecite, come il contrabbando di sigarette e il gioco delle tre carte).
Solo in seguito, leggendo sui libri, avrei capito che quel meraviglioso cromatismo di colori ha un significato ben preciso.
Essendo la Samp nata nel 1946 dalla fusione di due precedenti squadre genovesi, l’Andrea Doria (divisa biancoblù) e la Sampierdarenese (divisa rossonera) la sua maglia è un mix perfetto di questi colori : un blu-cerchiato con una striscia bianca, al centro una banda rossonera, e in mezzo a quest’ultima lo scudo di San Giorgio, il simbolo di Genova.
Una maglia da ciclista, come dicono prendendoci in giro i cugini “bibini” (letteralmente tacchini) del Genoa.
Un’ interpretazione più romantica e poetica, contenuta nella canzone “Ho uno scudetto nel cuore”, scritta e cantata dal grande Aldo De Scalzi dei New Trolls, negli anni della gloriosa Samp del presidente Paolo Mantovani, ricollega il blu al mare, il bianco al suo sale, il nero ai tipici temporali di Genova e il rosso al cuore della tifoseria.
Comunque, ritorniamo a quello storico aprile 1971: la partita di campionato in programma era Sampdoria – Foggia.
Arrivati alle biglietteria papà, quasi con timore reverenziale, chiede : “ Sono il signor Bisio Mario ci manda il dirigente Battara, possiamo entrare ?”.
Attraverso le inferriate una voce roca ci risponde : “Belin, ma che dirigente, Battara è il nostro portiere ! Dove volete andare, tribuna, distinti o curva ?”
Noi, per non approfittarne troppo, scegliamo di andare in curva, e la scelta non poteva rivelarsi più azzeccata.
Vi stupirete di questa facilità di accesso, senza troppi formalismi burocratici, ma allora era così, si entrava senza la tessera del tifoso, senza esibire il documento di identità, i biglietti non erano nominativi e soprattutto la violenza era bandita dagli stadi.
Ci si sfotteva anche pesantemente, con cori goliardici e toni canzonatori, ma al massimo degenerava in qualche scazzottata a mani nude, e poi tutto finiva lì, senza strascichi, vendette e ritorsioni successive.
Appena arrivati in curva Sud (allora non c’era ancora il secondo anello, costruito ai tempi dei Mondiali di Italia 90), arredata di tanti striscioni e con una stupenda coreografia di sciarpe, bandiere e cappellini blucerchiati, per l’emozione mi scappa la pipì.
I servizi igienici sono impraticabili, specie per il gentil sesso (come del resto ancora oggi, malgrado numerose ristrutturazioni susseguitesi negli anni) e devo fare una coda lunghissima, tanto che prendo posto in piedi (allora le partite in curva si seguivano in piedi sui gradoni, altro che seggiolini) appena prima dell’entrata in campo delle squadre.
E parte subito un coro rivolto alla numerosa tifoseria dei satanelli pugliesi (il diavolo è il simbolo del Foggia calcio), confluiti allo stadio dalle varie città del Nord ad alto tasso di immigrazione, un ritornello che mi risuona ancora nelle orecchie : “a figi de bagascia, avansi de casin, se nu ve ciase a mussa, susseve stu belin”.
Questa frase, di cui vi risparmio la traduzione, è contenuta (ma lo scoprirò solo in seguito) nell’inno “ufficioso” degli studenti universitari genovesi, ben più diffuso e cantato di quello ufficiale “Gaudeamus igitur”.
La Sampdoria scende in campo con la formazione tipo, annunciata dagli altoparlanti e scandita, nome per nome, da tutti i tifosi blucerchiati presenti allo stadio : Battara fra i pali, in difesa i terzini Sabatini e “Tato”Sabadini”, al centro della difesa Garbarini (che l’anno dopo passerà clamorosamente al Genoa) e Lippi (si proprio lui il Marcello nazionale, allenatore di tanti scudetti della Juve, della nazionale e del mondiale vinto nel 2006 a Berlino), a centro campo Corni (che correva per tre), Lodetti ( ex del grande Milan) e Luisito Suarez (ex della magica Inter), ala destra Salvi, ala sinistra il folletto Fotia e centravanti Cristin “il Bisontino”.
Ed è proprio quest’ultimo con una doppietta che ci fa vincere la partita: risultato 2 a 0.
Da allora ad oggi la maglia della Samp mi si è cucita addosso come una seconda pelle.
Un amore travolgente che mi ha fatto comprendere il significato di una frase pronunciata tanti anni fa da mio zio “Curasa” a chi lo sfotteva per gli scadenti risultati del Torino : “ricordati che nella vita si può cambiare tutto, anche la moglie, ma non la squadra di calcio per cui tifi” ( lui per non sbagliarsi non si era mai sposato).
Sono andato allo stadio di Marassi per molte volte col mio amico Mirco Giorchino e “Giancarlino” Traverso, tifosissimo del Milan, un vero almanacco vivente del calcio, degno di partecipare a Rischiatutto, anni duri in cui si lottava per non retrocedere, quelli di Claudio Bosotin e Enzo Tirotta capi degli Ultras Tito Cucchiaroni.
Corsi e ricorsi storici, Enzo Tirotta, scherzi del destino, sarà compagno di naja del mio amico Lorenzo Moscardini.
Sono stato presente negli anni della rinascita con Bersellini e Ulivieri, quelli di Bistazzoni “il Bista” in porta, “Mazinga” Guerini in difesa, “Mummia” Scanziani a metà campo e ”Gil” De Ponti e “il Marziano ” Alviero Chiorri in attacco.
Sono stato abbonato negli anni d’oro del “Principe” Paolo Mantovani, di Boskov, Vialli e Mancini, di Trevor Francis, un fuoriclasse facidiato dagli infortuni.
Ho vissuto i momenti più bui e quelli più esaltanti.
Ho pianto per la retrocessione in quel maledetto 16 maggio 99 contro il Bologna, rigore del 2 a 2 di Ingesson e allenatore blucerchiato Spalletti, mi sono incazzato come una iena per il clamoroso ko 4 a 2 contro la Nocerina in serie B e ho avuto un mezzo coccolone dopo la finale di Coppa Campioni persa nel maggio 1992 contro il Barcellona, punizione stregata di Ronald Koeman e mezza cappella di Pagliuca.
Ho gioito per lo scudetto ed ero presente allo stadio il 19 maggio 91 alla partita decisiva contro il Lecce vinta 3 a 0 con goal di Cerezo, Mannini e Vialli (sapevo che sarebbe stato il primo e l’ultimo e non potevo mancare).
Ho visto con i miei occhi Trevor Francis, in un derby, stoppare al volo di ginocchio, in abiti borghesi durante la ricognizione prepartita sul campo, un arancio lanciatogli dai tifosi genoani, fare un paio di palleggi ed insaccarlo con un destro di collo pieno nel sette della porta sotto la Gradinata Nord, sollevando i pugni al cielo in segno di esultanza.
Ho visto Mancini “purgare” il Genoa nel derby del 1983 con un euro goal dopo essere partito da metà campo ed avere fatto un tunnel ad Onofri, capitano del Genoa.
E ho altrettanto ben chiaro il ricordo della magistrale punizione ad effetto di Branco che ci ha castigato nel derby giocato a novembre 1990, nell’anno dello scudetto, immagine cult immortalata in una cartolina di Natale spedita dai cugini genoani ai loro parenti ed amici doriani.
Oggi vado a vedere la Samp solo un paio di volte all’anno, non più in curva ma nei distinti, essendo vecchietto, e ogni volta che entro al Ferraris e sento le note del nuovo inno “Lettera da Amsterdam (sempre di Aldo De Scalzi dei New Trolls) e vedo la “sciarpata” in Curva Sud mi viene un groppo alla gola.
Ma mi consolo ammirando e rimirando tutti i giorni la collezione di maglie ufficiali e sciarpe appese in bella mostra nella mia stanza al Sindacato, tanto da essere diventato socio di minoranza del Sampdoria Point in via Cesarea a Genova per tutti i soldi spesi.
Un iscritto di un’altra categoria di lavoratori, sbriciando dalla porta cotanta bellezza, si è un giorno affacciato sull’uscio e mi ha detto testuali parole “siete aperti tutti i giorni? Perché per Natale vengo a comperare sicuramente qualcosa”.