Don Lino… un amico
di Marco De Brevi
PRIMA PARTE
Ho dedicato più pagine al ricordo di don Luigi e mi è impossibile non dedicarne almeno il doppio per ricordare don Lino.
Quando abitavamo a Sestri papà, la sera, sul tavolo della cucina, preparava i bozzetti per i grandi quadri murali che poi concretizzava nel salone della sezione. Io, affascinato da tutti quei pastelli, dalle policromie, dai bottiglini delle chine colorate, lo stavo a guardare e provavo a fare qualche disegnino con una “machica” rossa e blu sul “papè” che mi aveva regalato. Senza averne l’intenzione, mi stava rendendo famigliare il trittico Lenin, Stalin, Marx; più tardi Stalin sarebbe stato sostituito da Mao, quando avevo ancora tre anni.
Sono trascorsi settant’anni da quel mese di luglio del ‘49 in cui, in sella al mio triciclo nuovo, mi divertivo in cortile a rincorrere le galline mentre lui, in piedi su di una pedana improvvisata con delle tavole da muratore, era impegnato a dipingere, su di un riquadro di tela bianca da lenzuola alto almeno cinque metri, una testa gigantesca di Palmiro Togliatti. Quell’enorme ritratto, una volta realizzato, avrebbe fatto compagnia ad un altro molto più grande: era il Garibaldi che nel ’48 aveva dipinto su fogli di lamiera. Nella la campagna elettorale per le elezioni politiche del ‘48, i Sestresi lo avevano voluto come il simbolo del Fronte Popolare.

Con un’infanzia trascorsa tra Rinascita, l’Unità, Noi Donne e il Pioniere, come avrei potuto sentirmi attratto dall’oratorio della parrocchia di Sant’Andrea? Sapevo perfettamente che gli oratori erano in mano al clero ed ai Forchettoni. Quante volte avevo sentito dire dai compagni della sezione, o dai colleghi di papà, quando passeggiavamo in via Sestri, che i democristiani erano i “sudditi” fedeli del Vaticano? Nei loro discorsi non mancavano mai di sottolineare che, durante il ventennio, Papa Pacelli non aveva mai neanche provato a rimproverare quei vescovi che erano soliti impartire la benedizione ai gagliardetti che sventolavano le Camicie Nere nei raduni in cui anche loro si facevano notare in prima fila ma… nel 1949, temendo in un’avanzata della sinistra, aveva ritenuto opportuno scomunicare gli iscritti al PCI ed alla CGIL.
Ad allontanarmi dagli oratori non era stato certo papà con i suoi quadri e nemmeno con i suoi slogan, anzi… lui credeva talmente nella libertà e nella democrazia che, se gli avessi chiesto il permesso di andare a giocare a ping-pong in quello di Sant’Andrea, era il più vicino a casa, non mi avrebbe certo detto di no!
A farlo ci avrebbero pensato tre altri personaggi.
Alle elementari l’anziana “beghina”, che nella sacrestia della Collegiata di Novi pretendeva di insegnarci il catechismo facendoci imparare a memoria una serie di frasi fatte piene di paroloni che mai avrebbe saputo spiegare, alla fine di ogni lezione non mancava mai di elencare i giornalacci scritti dal diavolo che si vendevano nelle edicole (quelli che avevo visti circolare per casa ancor prima di imparare a camminare). E ci salutava ricordandoci che se li avessimo anche solo sfogliati avremmo commesso un peccato mortale.
Alle medie Il sacerdote che insegnava Religione continuava a ripetere le stesse frasi della catechista e provava in qualche modo a chiarirne il significato: lo faceva con voce ispirata e con gli occhi rivolti al cielo come se fosse sicuro di esaudire i desideri del Padre Eterno, e forse si sentiva già in odore di santità; ma quando non riusciva farci capire qualche concetto si salvava pronunciando la la frase «è un dogma»,
Alle superiori l’insegnante era il parroco di un piccolo paese dell’Alessandrino, invitato sicuramente dal suo vescovo, e provava ad impegnarsi a dimostrare quanto importanti fossero le riforme introdotte dal Concilio Ecumenico, ma le sue parole non riuscivano a nascondere che in effetti lui era più incline alla vecchia tradizione e che soprattutto rimaneva ancorato alla disciplina che era stata imposta nelle scuole dal vecchio regime al quale si doveva dare il grande merito di aver firmato il Concordato. A me aveva appioppato una grave insufficienza nell’unico compito in classe che ci aveva fatto fare nei cinque anni.
Pei lui era impossibile che un alunno con le mie tendenze politiche, che io non perdevo occasione di dimostrargli, presentandomi talora in classe con l’Unità in mezzo al libro di religione, riuscisse a svolgere egregiamente un tema che aveva come soggetto la nuova messa in italiano. Il titolo di quell’elaborato ci era noto da tempo, faceva parte di un sondaggio abbinato ad un concorso che era stato indetto dal Vescovo e che riguardava gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori della diocesi. Secondo il mio insegnante, se ero riuscito a sviluppare così bene certi concetti, facendoli concordare perfettamente con quelli espressi dai padri conciliari, era perché avevo ricopiato, sul protocollo del compito in classe, un testo preparato a casa, con l’aiuto di libri e giornali, e appuntato su foglietti volanti (posso assicurare chiunque di non aver mai nemmeno pensato di fare una cosa del genere).
Nonostante l’atmosfera che si respirava nella mia famiglia, dove sia i genitori che tutti i parenti si auguravano veramente che arrivasse “Baffone” a mettere le cose a posto, io accompagnavo tutte le domeniche mia mamma a messa e, obbedendo agli insegnamenti portati dal Concilio, tutte le domeniche facevo anche la comunione e… papà ne era perfettamente al corrente. Lui non aveva mai lottato né contro Dio e né contro le parole e gli insegnamenti del Vangelo, ma era costantemente in contrasto con una certa categoria di preti che in passato (e purtroppo non solo in passato), approfittando dell’ignoranza dei credenti, avevano dato un’interpretazione tale alle parole di Cristo da renderle sostenitrici delle loro “malefatte”. Consapevoli che un contadino non avrebbe mai potuto imparare il latino e tantomeno il greco, ne avevano fatto uno strumento capace di arricchire loro e di “ingioiellare” le statue dei santi e le chiese.
SECONDA PARTE
Avevo visto don Lino per la prima volta in Collegiata mentre stava officiando una messa. Incuriosito dalla novità del nuovo prete sull’altare, lo stavo osservando con una certa attenzione. Mi era venuto spontaneo supporre che sotto i paramenti si nascondesse un uomo molto giovane, ricco esclusivamente dell’esperienza maturata da chi era stato ordinato soltanto da pochi mesi. Nonostante ci avessi provato con impegno non mi era parso tanto semplice attribuirgli un’età. Era alto ed allampanato (la pancetta sarebbe arrivata qualche anno più tardi) portava i capelli tanto corti che sicuramente la mattina non richiedevano di essere pettinati e nemmeno spazzolati erano talmente folti e scuri che facevano risaltare perfettamente la tonsura. Quella tosatura sulla sommità del capo mi aveva sorpreso, erano anni che non vedevo un sacerdote con la chierica, pensavo che fosse rimasta una prerogativa esclusiva dei frati! Forse era la prima volta che celebrava una messa festiva in una Collegiata e per giunta davanti ad una moltitudine di fedeli. Abitualmente a quell’ora della domenica l’officiante era sempre l’arciprete, ma probabilmente era indisposto o aveva avuto qualche impegno inderogabile.
Don Lino dietro l’altare dava l’impressione di non sentire alcun disagio nell’affrontare quella sua prima esperienza ma, non appena aveva dovuto allontanarsi per avvicinarsi alla balaustra col microfono perché era venuto il momento dell’omelia, trovandosi a dialogare con così tante persone, non era stato in grado di evitare che il suo volto diventasse paonazzo. Probabilmente aveva impiegato l’intera mattinata per scrivere su di un foglietto le parole che avrebbe voluto pronunciare, e senz’altro le aveva lette e rilette tante volte sino ad impararle a memoria ma, arrivato davanti a quel benedetto microfono, non era difficile comprendere che si stava sforzando al massimo per ricordare quel discorsetto che si era preparato con tanta cura. Era più che evidente che le sue intenzioni fossero quelle di rendere comprensibili e semplici le difficili parole che durante la celebrazione aveva letto sulle Sacre Scritture ad alta voce e, nonostante quel momento iniziale di comprensibile smarrimento, ci era riuscito egregiamente.

Comunque quel rossore sul volto non era destinato a scomparire completamente, nemmeno dopo i numerosi anni di contatti col pubblico e di uso del microfono. Anche se doveva soltanto informare i fedeli di un banale cambio di orario di alcune funzioni oppure ripetere con loro il Salmo responsoriale, diventava rosso e rivolgeva gli occhi verso il cielo. Era come se, ogni volta che avesse avuto la necessità di comunicare coi parrocchiani, si sentisse in dovere di chiedere il permesso e la forza allo Spirito Santo. Di quella sua evidente forma di timidezza che lo agguantava quando era sull’altare, mi ero fatto una teoria del tutto personale. Anche se al di sotto dei paramenti sacri batteva pur sempre il cuore di un giovane uomo, che in un certo giorno si era impegnato a rimanere celibe e casto, era anche consapevole di aver fatto quel giuramento solenne che si era mutato in voto ma… a procurargli un grande disagio ci aveva pensato una vecchia tradizione che probabilmente dura tuttora. Sulle panche alla sua sinistra, quelle più prossime all’altare, durante le funzioni sedevano sempre le ragazze, una gran parte delle donne e tutte le suore: e non tutte erano brutte o vecchie!
Proprio in quella domenica alla fine della messa un caro amico era riuscito a convincermi ad accompagnarlo a prendere il solito “cinzanino” delle 11,30 nel bar della Casa del Giovane. Era pieno di ragazzi di ogni età, alcuni discutevano tra loro, altri giocavano a carte seduti vicino a tavolini che nulla avevano da invidiare a quelli che vedevamo nei bar giù in paese. Mai avrei creduto che al pianterreno della Casa del Giovane ci fosse un bar: la sola differenza che lo distingueva dagli altri era che non si vendevano bevande alcoliche, i prezzi erano calmierati, non si sentivano parolacce e soprattutto dei “flipper” nemmeno l’ombra. Il tremendo mangiasoldi, che fagocitava tutte le ore che gli studenti avrebbero dovuto dedicare allo studio, era stato rigorosamente bandito. Dai tanti rumori che si percepivano si poteva intuire che al piano superiore c’era chi giocava a bigliardo, al calcio balilla ed a ping-pong e dalle risate fragorose appariva evidente che chi frequentava la Casa del Giovane si divertiva veramente.
Appoggiato al banco del bar, don Luigi stava discutendo animosamente con alcuni ragazzi; dal modo in cui gesticolava sembrava proprio che stesse provando a convincerli a fare un qualcosa o forse li stava rimproverando per aver fatto qualcosa. Don Lino era entrato subito dopo di me, sorrideva e teneva le braccia aperte come se stesse per recitare il Padre Nostro. Si intuiva chiaramente che non appena aveva varcato quella soglia si era sentito un giovane tra i giovani, ne era felice e il suo volto compiaciuto ne era la prova. Don Luigi aveva subito colto l’occasione per informare tutti i presenti che era stato chiamato ad altri incarichi per cui sarebbe stato il nuovo vice parroco a seguire tutte le attività giovanili e, soprattutto, a presiedere le adunanze degli iscritti all’Azione Cattolica, quelle degli aspiranti, quelle dei più grandi e quelle serali degli uomini.
Io non nutrivo una grande simpatia per l’Azione Cattolica e l’antipatia era aumentata da quando il Calendario del Popolo, in diversi articoli, ne aveva parlato in modo tutt’altro che entusiasta. Io ne ero un fedele abbonato ed anche un convinto sostenitore, in quanto era la rivista di cultura generale del PCI. Era stata concepita sotto forma di fascicoli dispensa che, rilegati periodicamente, andavano a formare un volume di una sorta di enciclopedia tematica dedicata a chi, non avendo avuto modo di farlo in gioventù, avrebbe potuto dedicare parte del tempo libero allo studio. Lo scopo di certe pubblicazioni del PCI era quello di acculturare sia la classe operaia che quella contadina che, negli anni cinquanta, denunciava ancora un 12% di analfabeti. Mi ero fatto convincere, da quegli articoli e dalle testimonianze dei “compagni”, che l’Azione Cattolica fosse una cattiva imitazione della FGCI. Forse agli inizi era stata voluta dal Partito Popolare di don Sturzo per allontanare i giovani dalla lusinghe fasciste. Nel dopoguerra non si era sciolta e si era si era rafforzata grazie al sostegno di una delle tante correnti della Democrazia Cristiana, quella che solitamente raggruppava gli avversari più accaniti del PCI e del proletariato. Forse erano proprio loro i più fedeli servitori del clero e del Vaticano.
Don Lino, contrariamente al tradizionale rigore con cui si vestiva (aveva giurato solennemente a suo papà che mai avrebbe tolto la tonaca per indossare un clergyman) si era presentato con un discorso totalmente imperniato sulle iniziative che aveva intenzione di concretizzare per i giovani ed alcune di quelle non erano per niente conservatrici. Parlava in modo pacato, con qualche termine arcaico che sembrava gli arrivasse da certe letture degli inizi del novecento, ma con un entusiasmo tale che era persino riuscito a convincermi ad andare a verificare se gli obiettivi che si era prefissato fossero veri o la solita bufala inventata per attirare i giovani in parrocchia. Avevo deciso di fare certi controlli facendomi invitare a partecipare ad una di quelle “adunanze” che avrebbe presieduto il sabato pomeriggio. Avevo convinto me stesso che chiamassero “adunanze ”delle comunissime riunioni. Non dovevano far capire alla gente che in quelle due ore del sabato pomeriggio il viceparroco non facesse altro che riproporre, a dei “bambini” con qualche anno in più, la solita dottrina fatta delle solite domande con le risposte che arrivano dall’alto per cui non si ammettevano repliche o correzioni.

Sin dalla mia prima “adunanza” avevo capito che le cose non stavano proprio come me le avevano descritte: ero stato subito accettato dal gruppo ed avevo anche intuito che sapevano tutti che non ero un “biancofiore” ma semmai un garofano rosso. Craxi non ne aveva fatto ancora un suo simbolo, i compagni lo portavano sul bavero della giacca il 1° maggio, quando sfilavano compatti accompagnati dalla banda che suonava l’Internazionale e l’Inno dei lavoratori.
I discorsi di don Lino mi avevano convinto a tal punto che, dopo alcuni sabati, avevo firmato la tessera che mi iscriveva all’Azione Cattolica della diocesi di Tortona. Da quel giorno era iniziata una collaborazione che sarebbe durata alcuni anni. Per il rilancio del teatrino dei Luigini avevamo organizzato alcuni cineforum con tanto di discussione finale e per essere “in” avevamo scelto di far conoscere ai parrocchiani l’opera omnia di Bergman: l’insperato successo era stato enorme..
Sempre sul palco del teatrino avevamo fatto sedere alcuni esperti, fra cuimedici e psicologi, ed avevamo dato vita ad una serie di conferenze sull’educazione sessuale. Nessuno aveva gridato allo scandalo anzi, dopo la prima serata ci erano state richieste delle repliche. Avevamo provato persino a far nascere una filodrammatica e, dopo aver fatto alcune prove, avremmo dovuto debuttare con un copione alquanto strano che, per quegli anni, era decisamente un testo di rottura. Pur essendoci tra di noi alcuni dei personaggi che sarebbero riusciti a metterlo in scena negli anni futuri, , probabilmente i tempi per il nostro gruppo non erano ancora maturi e probabilmente anche noi non lo eravamo ancora abbastanza.
L’evento però che era riuscito alla perfezione era stato il primo veglione di capodanno realizzato nel salone al secondo piano della casa del giovane. Per riuscire a convincere il povero don Lino a farsi dare l’imprimatur dall’arciprete e dalla madre superiora per organizzare la festa di san Silvestro, io ed i miei amici ci eravamo dovuti impegnare a servir messa la notte di Natale. Quella sarebbe stata la prima volta che le ragazze, che normalmente si riunivano nelle sale dell’asilo, avrebbero trovato il coraggio di entrate in quello che sino ad allora era stato considerato il tempio del maschilismo. Fare i chierichetti per noi sarebbe stata una nuova avventura da raccontare, un’esperienza che avrebbe potuto avere i suoi risvolti divertenti. Avevamo impegnato il pomeriggio delle vigilia a ripassare tutte le letture e a fare delle prove generali a porte chiuse con il solo don Lino; a me era stato l’incarico di tenere la “navicella” piena di incenso.

Ci eravamo presentati poi sull’altare tirati a lucido con la cravatta nuova acquistata appositamente per l’occasione. Il celebrante sarebbe stato l’arciprete e don Lino l’aiutante nonché il regista. Questa volta, per tutto il tempo della funzione il suo viso non si era fatto paonazzo per la timidezza di dover parlare in pubblico, ma a causa dello sforzo che doveva fare per trattenere le risate che gli erano provocate dalla vista dei “galletti” ultra ventenni che si dovevano impegnare a fondo per far dondolare il turibolo senza provocare incendi, per versare il vino solo nel calice, cercando di non far cadere il caraffino d’argento e di non fare gocce sul pavimento.
La festa di Capodanno aveva avuto un successo insperato, dovuto forse a quella “vittima”: don Lino aveva infatti recitato, salendo e scendendo le scale, centinaia di rosari a partire dalle nove fino quasi alla mezzanotte. Secondo lui solo per intercessione della Madonna le cose avrebbero potuto svolgersi senza inconvenienti. Quell’anima in pena non si era mai permessa di venire a vedere che cosa stessimo combinando ma alle 0,05 aveva spalancato completamente la porta e sorridendo compiaciuto aveva annunciato trionfante, quasi gridando:
«Ragazzi, è ora di andare a casa, io domani mattina presto devo dir messa. Mi raccomando, non andate in giro: ho promesso ai genitori delle ragazze che sarebbero andate immediatamente a casa!»
Ci sono due episodi che ora vorrei ricordare. Il giorno 10 giugno del ‘67 la cartolina precetto mi obbligava a prendere il treno che mi avrebbe portato in Puglia per il giorno successivo. Dovevo partire da Tortona alle cinque del pomeriggio per essere a Barletta nella mattinata del giorno dopo, dove nel BAR del 48° (Battaglione Addestramento Reclute) mi stavano aspettando con ansia per vestirmi tutto di nuovo. Con mio immenso piacere don Lino aveva voluto, accompagnato da alcuni amici, venire in stazione anche lui. Poco prima che il treno partisse, non so come e da dove, nelle sue mani si era materializato un ” fosse uscito il “mangiadischi”. Giusto il tempo necessario Nini Rosso per suonare e cantare il suo silenzio fuori ordinanza. Era inevitabile che mi scendesse quella lacrimuccia che era rimasta nel suo ripostiglio persino quando, prima di uscire di casa, avevo abbracciato mamma e papà. Era veramente il mio più grande amico, e infatti, ancor prima di presentare la fidanzatina ai miei, l’avevo fatta conoscere a lui che, senza esitare, l’aveva subito coinvolta in certe nostre iniziative.
Un pomeriggio l’avevamo visto entrare nel bar dei giovani più felice del solito. Sapevamo da tempo che sentiva il bisogno di avere una chiesa tutta per se. Era certo di saper e di dover fare di più e poi erano anni che mangiava e dormiva nella casa Canonica e lì lo facevano sentire come un ospite. Più volte aveva chiesto che gli venisse concesso di affittarsi un appartamentino per poter vivere solo senza essere costretto a rispettare gli orari per il pranzo e la cena e senza sentirsi controllato persino dalla perpetua tutte le volte che si accingeva ad uscire senza essere motivato da una qualche funzione. Con lo stipendio di insegnante di religione delle medie, avrebbe potuto tranquillamente far fronte a tutte le spese.
Quella sera era esordito con:
«Ragazzi dopo cena andiamo, o meglio mi accompagnate a Tortona vi faccio entrare nella chiesetta che mi ha dato il Vescovo».
Era poco più di un oratorio, ma era la sua. Come primo intervento aveva fatto fare una quadro della Madonna a papà: era la Madonna del buon consiglio, quella che conservava con cura in mezzo al breviario. Papà gli aveva consegnato un vero capolavoro. Quella chiesetta purtroppo era una sorta di anticipazione della sua partenza da Serravalle, il Vescovo l’aveva voluto come suo segretario. Era partito in incognito senza nessuna cerimonia ed a pochi intimi aveva confidato che non sarebbe mai più tornato a Serravalle nemmeno se lo avessero promosso a parroco della Collegiata. So per certo che spesso andava a cena da un mio e suo grande amico che abitava a Ca’ del Sole: la villetta in quel periodo era ancora piuttosto isolata per cui alla sera nessuno lo avrebbe potuto riconoscere, io lo andavo spesso a trovare in Duomo nessun altro sacerdote avrebbe mai potuto raccogliere le mie confessioni!
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