PATTUMEIA, LA MALIARDA DI VARINELLA
Nel precedente articolo sul Chitandrino, il vino scomparso prodotto tra Vignole e Arquata che Carlo Varese cita nel suo Folchetto Malaspina, verso la fine accennavo alle numerose informazioni e curiosità contenute nel romanzo storico, tra cui un riferimento a un personaggio molto interessante, cioè la strega Pattumeia dall’autore citata più volte come maliarda. Prima di andare avanti è indispensabile precisare che Varese non utilizza questo termine nel significato moderno, oggi per maliarda si intende una donna ricca di fascino, un po’ misteriosa, per usare un termine più pop: una vamp. Niente di tutto questo ha a che fare con Pattumeia, che è una strega a tutto tondo, anche nell’aspetto iconografico classico: in questo caso maliarda viene usato nel significato più vicino all’etimologia originaria, cioè capace di fare malie, magie, quindi sinonimo di maga. Nel fare questa breve precisazione ho già fornito alcuni elementi chiave del personaggio che, indubbiamente, è tra i più affascinanti del romanzo, una sorta di deus ex machina in grado di apparire al momento giusto per risolvere situazioni che sembrano destinate al fallimento.
Carlo Varese, sicuramente ottimo conoscitore del territorio, colloca l’antro della strega in quel di Varinella, dando una descrizione molto precisa di quella che doveva essere la morfologia del territorio dei suoi tempi, la prima metà dell’Ottocento. Ecco come egli descrive il luogo nell’episodio in cui Folchetto Malaspina e il suo precettore Stull incontrano Pattumeia, la maliarda.
… Scende la Scrivia in un letto talvolta angusto all’orgogliosa dovizia delle sue acque, e più di spesso troppo vasto pel il suo meschino corso. Sulla sinistra sua riva s’innalza una catena alpestre, lungo la quale la dotta curiosità dell’antiquario segue con piacere i maestosi avanzi di un acquedotto (ndr: lo storico Bottazzi e lo stesso Varese li avranno visti coi loro occhi?), il cui fondo formato di grandi lastre di pietra è coperto da massiccio cemento romano… La destra del torrente, lunghesso quella riva che Folchetto e i suoi compagni radevano, non è ricca di classiche bellezze, fuorchè appunto per coloro che vanno in cerca di avanzi di colonne, di fusti, di capitelli, di bronzi e medaglie che vi s’incontrano a dovizia, e che confermano la vicinanza di possente città caduta sotto il ferro dei barbari invasori d’Italia, o distrutta da una della più terribili vicissitudini della natura… Seguiva la cavalcata silenziosa il sentiero che dopo aver costeggiato il torrente piega a sinistra e per la montagna s’inoltra fino allo Spinti, torrentuccio più impertinente che pericoloso, il quale mormora più forte nell’atto di precipitarsi nella Scrivia. Venticinque o trenta casuccie, sparse qua e là col disordine delle tende degli Arabi quando si accampano sul dorso di una collina, si mostrarono in qualche lontananza, e Valentino lo contrassegnò per la terra di Varinella… La casupola di Pattumeia, isolata sulla punta di una roccia, era, come le altre, circondata da una siepe, rinforzata al di dentro da un graticcio di legno abbastanza fitto per non permettere ad alcuni galli e a un capretto nero come l’ebano che viveano insieme, di allontanarsi da quella circonferenza. Uno spianato lungo circa dodici passi e largo dieci stava dinanzi alla porta della casetta la cui fronte guardava il mezzo giorno, e vedeasi tappezzata al di fuori da piccoli fasci d’erbe secche, che godevano da protezione di una specie di tettoia di paglia destinata a preservarli dalla pioggia senza togliere loro il benefizio del sole.
Ho spulciato nella descrizione che Carlo Varese fa dei luoghi lasciando indietro, per brevità, tanti altri aspetti caratteristici, ma ho voluto descrivervi l’ambiente perché veramente è la cornice ideale per presentare il personaggio di Pattumeia.
Senza perdermi troppo nella trama del romanzo che, al di là del linguaggio arcaico, è veramente godibile e piacevole alla lettura, spiego soltanto il fatto che la strega viene consultata da Folchetto in merito alla sparizione dell’adorata sorella Alice, rapimento in cui risulterebbe coinvolto il cattivo del romanzo, tal Guglielmo degli Uberti, un vigliacco da far impallidire il manzoniano Don Rodrigo. Pattumeia, risulta nel romanzo persona informata sui fatti, come si direbbe nel linguaggio giudiziario, e il giovane signore di Montebore spera di ottenere da lei le informazioni per ritrovare la tenera sorella. Ed ecco comparire la maliarda, tanto piccola, quanto spiritata e variopinta.
… La donna poi, sia per l’aria sua da ispiritata, sia pel vestire assai pittoresco e bizzarro, poteva rassomigliare ad una Sibilla in atto di avviarsi alla spelonca per salire sul tripode… Folchetto e Stull l’esaminavano con attenta curiosità; ma lo spazio che li separava era ancora troppo considerevole perché potessero scorger altro che lo screzio delle vesti, le quali però spiccavano per varii colori e per forma singolare. Avviluppava la persona in un pezzo di panno scarlatto, artifiziosamente panneggiato, e più alla maniera degli orientali che all’Europea. Copriva altresì il capo con una specie di turbante cilestri, tra le cui pieghe s’intrecciava una striscia gialla, e risplendevano alcuni grani di vetro colorito che di tratto in tratto riberveravano una raggio di sole, e brillavano colla cupa luce dello smeraldo e del rubino.
Questa la descrizione estetica, ma Carlo Varese, non si limita soltanto all’aspetto esteriore, per quanto importante nella presentazione di una strega, ma ne analizza a fondo la personalità, scandagliando la sua storia familiare, con un atteggiamento di simpatia e attrazione per il personaggio che costruisce. Infatti se l’autore non manca di sottolineare l’aspetto misterioso e, a tratti, malvagio della maliarda, spesso indicata come vecchia, brutta e cattiva (quella cagna dal pel bigio), – espressione che in noi non può non evocare il celebre film di Ettore Scola Brutti, sporchi e cattivi – in molti passaggi non nasconde l’ammirazione per la donna, giustificandone l’asprezza dei modi con le tragiche esperienze della sua vita.
… Le vicende della vita di questa donna le aveano alterata la fantasia come inacerbita l’anima: se così non fosse, un carattere tanto feroce, siccome quello che uscirebbe affatto dal naturale, o confinerebbe nel ridicolo, o moverebbe a sdegno: ma riflettendo ai terribili avvenimenti che aveano lacerata più che scossa la trama de’ suoi affetti, l’orrore forse verrà mitigato da un po’ di compassione.
In effetti Pattumeia è un personaggio complesso, con delle vicende personali molto avventurose e drammatiche. Carlo Varese ci racconta che la maliarda non è originaria della nostra zona, ma che proviene dalla Valle del Campidano in Sardegna. Qui Pattumeia non solo esercitava il mestiere di maliarda, una maliarda così potente da essere soprannominata la Donna della Valle, ma era conosciuta per un altro ruolo: quello dell’accabadura. L’autore, che in merito aveva condotto studi antropologici per approfondire il tema, ci presenta così la funzione del personaggio dell’accabadura ben prima che ne scrivesse Michela Murgia nel suo Accabadora.
… Quest’uffizio, che ha in sè qualche cosa di così barbaro, che i più feroci costumi delle belve non offrono nulla che star possa a petto, era esclusivamente affidato ad una casta che riceveva il nome di “accabadura”, derivato dal verbo “accabare”, che corrisponde all’assomer dei Francesi, e che noi diremmo “accoppare”. Gli “accabaduri” dunque venivano invitati da un figlio, le cui amorose cure verso i suoi genitori si estendevano sino a render loro il servizio di farli accoppare perché non avessero a languire in una penosa inazione…Ma benchè questi ufficii si adempissero col consentimento universale, era naturale però che si guardassero con occhio d’orrore coloro che ne erano ministri. Gli “accabaduri” erano perciò costretti a vivere isolati da ogni umano consorzio, a contrar matrimonio tra loro…senza avere colle altre classi nessuna relazione quando non ispettasse all’orribile loro ministero.
Abbiamo quindi compreso che Pattumeia, oltre che strega, era anche persona che svolgeva il compito che oggi chiameremmo del fine vita o dell’eutanasia. Stupisce, al proposito, il pensiero di Varese, così moderno e laico: traspare infatti chiaramente una sorta di approvazione nei confronti di una pratica sicuramente violenta, ma anche in qualche modo pietosa.
La donna era quindi una potente maliarda/accabadura in patria e « … benchè le si attribuisse il potere di far sortilegi, tosto che uno credeasi ammaliato, Pattumeia sola era giudicata capace di toglierlo alla maligna influenza quand’anche a lei stessa si desse la colpa del maleficio». Abbiamo parlato di una vita drammatica; la strega del Campidano si era infatti già sposata due volte e aveva messo al mondo una squadra da football di figli quando uno di questi si era macchiato di un terribile omicidio. L’assassino si era poi dato alla macchia e il di lui padre e tre fratelli erano finiti sul patibolo al posto suo. La vicenda della maliarda era però ancora intrisa di accadimenti infelici: rimasta sola, si era sposata per la terza volta e aveva messo al mondo altri quattro figli, due dei quali
… le rapì il vaiuolo, intanto che gli altri due erano sul punto di soccombere allo stesso destino…In tale frangente essa si votò alla Madonna delle Grazie e promise di far viaggio in Terra Santa se i moribondi fanciulli le fossero richiamati a salute, e guarirono. Si unì perciò ai Crocesignati…Ma nell’assenza di lei che durò quasi tre anni, il piccol Azzo (ndr: il minore dei suoi figlioli, partorito all’età di quarantadue anni) morì, e la notizia fatale…le tolse il senno.
La pazzia di Pattumeia imperversò cinque anni, fino a quando cioè quelli della sua casta ebbero l’idea di sostituire il figlio defunto con un altro ragazzino della medesima età e del medesimo nome. Essendo quasi del tutto venuti meno i passati proventi dei suoi innumerevoli mestieri, a causa del suo essere fuori di senno, ed essendo, via via, le condizioni della famiglia diventate sempre più angosciose, per un nuovo delitto commesso dal primo figlio, Giabbo, ritornato nella valle del Campidano, la donna «ricuperò quasi la smarrita ragione» e decise di lasciare la sua terra.
… Questo incidente precipitò la partenza di Pattumeia, che traendosi dietro Giabbo, Battista ed Azzo, approdò in Genova, e da Genova venne dritto a Varinella, dove ottenuto un ricovero vi si costituì cittadina.
Giunta quindi nelle nostre terre la strega si era ben insediata, dice Carlo Varese: «… Il credito acquistato da Pattumeia nelle nuove contrade da lei abitate, non era come avvertimmo, tale da compensarla di quello che aveva goduto in più felici tempi. Avrebbe nondimeno dovuto essere contenta » in quanto divenuta vassalla di Varinella.
Qui risiede uno dei punti interessanti del romanzo che ci porta a riflessioni sul fenomeno della stregoneria e delle successive persecuzioni a cui fu sottoposta. Siamo nel 1200 e una donna riconosciuta come strega, per di più proveniente da un’altra regione, riceve una sorta di rispetto sociale (misto a paura che ci sta), un rispetto sociale che la porta ad avere in enfiteusi le terre di Varinella addirittura dall’Abate del Monastero di Precipiano. Ecco il motivo per cui nel romanzo più volte è indicata come vassalla. Evidentemente siamo in un periodo in cui le donne che praticano la stregoneria, guaritrici, herbanae, ostetriche e, in questo caso, anche accabadure, rispondono a un bisogno della comunità in assenza della medicina e della scienza e, per questo motivo, non solo non sono perseguitate, ma sono temute e tenute in considerazione. Chi mi segue, sa che ho approfondito le tematiche inerenti alla cosiddetta caccia alle streghe, in particolare nel nostro territorio, da cui sono scaturiti due libri, 12 luglio 1520, una cupa storia di streghe e Danzando con il demonio. I due testi, romanzati, si rifanno a processi, sentenze e relativi roghi avvenuti nei primi decenni del 1500 nel territorio cosiddetto del Vescovado, cioè il feudo del Vescovo di Tortona che si snodava sulle propaggini collinari che dalla città arrivavano fino a Stazzano. Proprio a Stazzano si riferisce il caso di cui si occupa Danzando con il demonio, mentre 12 luglio 1520 è ambientato a Carezzano, la capitale del Vescovado.
Non è il caso di addentrarsi in queste due complesse vicende storiche, se i lettori di Chieketè dimostreranno di gradire, lo faremo con un prossimo approfondimento. Ho citato questi casi perché si differenziano in modo sostanziale dalla vicenda di Pattumeia narrata nel Folchetto Malaspina. Infatti, erroneamente, si considera la caccia alle streghe come un fenomeno legato al medioevo ed è errore comune far culminare una festa di rievocazione medioevale con il rogo di una strega. In realtà i roghi si svilupparono ed ebbero grande diffusione all’inizio di quella che gli storici chiamano età moderna e che convenzionalmente si fa partire con il 1492, cioè la data della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Nel medioevo più profondo le streghe erano sì temute, ma anche considerate importanti per la comunità in quanto in possesso di saperi erboristici e curativi ereditati dalle sciamane dell’epoca pagana, saperi tramandati da generazioni. E così doveva essere Pattumeia, non credo vi sia sfuggito il dettaglio delle erbe messe ad essiccare sotto il portico della sua casupola di Varinella.
Comunque le fiamme, non del rogo purificatore, ma di un incendio provocato durante l’assedio di Tortona, hanno a che fare con la fine, misteriosa e volutamente lasciata in sospeso, della maliarda.
… Così parlando Pattumeia stese la scarna mano verso l’altura su cui era situato il monastero di Santa Chiara, e gli occhi di ciascuno seguirono inquieti l’indicata visuale. Non s’ingannava l’avveduta donna (ndr: ancora una volta a Carlo Varese scappa un commento di stima per la strega). Le scintille che rompevano l’oscurità, divenivano più numerose: ben tosto una fiamma rossiccia riverberò sul campanile della chiesa, né rimase più dubbio che il barbaro disegno dei Lanzichenecchi non fosse messo ad esecuzione. Precipitò allora i suoi passi Folchetto, né furono lenti a seguirlo Opizzone e Gaddo.
Come un deus ex machina, lo abbiamo già detto, è proprio Pattumeia a tirare le fila della vicenda aiutando il protagonista a ritrovare e a mettere in salvo l’amata sorella e poi sparisce così, in un attimo, tra le fiamme, quasi con un gesto magico, senza ulteriori spiegazioni.
Arrivando alle conclusioni viene naturale chiedersi se Pattumeia sia un personaggio del tutto inventato, pur con connotazioni storiche documentate e precise, oppure se Carlo Varese avesse raccolto testimonianze relative a una figura con caratteri simili, magari anche soltanto da fonti orali. Non possiamo affermarlo con certezza, ma la zona, e in particolare Varinella, con il mondo del magico e del mistero ci hanno a che fare, oltre ad essere abbastanza vicine alla Val Magra (tra Sardigliano e Sant’Agata Fossili), la valle dove gli inquisitori erano convinti esistesse una schola di stregoneria, con magistrae e apprendiste. In particolare la frazione Pessino di Varinella, in tempi più recenti a noi, ha ospitato la vicenda della strega Grilla, uccisa da colpi di falcetto dai popolani, perché si era tramutata in un gatto nero. E sempre da Pessino proviene la storia di Maria, la ragazza che faceva volare i sassi, la ragazza fantasmatica, oggetto del bellissimo libro L’anima nei sassi di Patrizia Ferrando, che ha riscosso un notevole successo negli ultimi mesi.
Sia di completa invenzione, che parzialmente ispirato a qualche leggenda locale, il personaggio di Pattumeia, è un personaggio davvero interessante, una strega dei tempi in cui le sue colleghe ancora non finivano sul rogo.