Via Monterotondo n° 1
Racconto di Marco De Brevi
Per dieci anni avevamo abitato una cucina di almeno trenta metri quadrati abbinata ad una sala ed ad una camera da letto che ne misuravano almeno ventinove. L’appartamento di via Berthoud, che avevamo arredato con gli stessi mobili che avevamo a Novi, sin dal primo momento in cui l’avevamo visto ci aveva dato l’impressione che a lungo andare ci sarebbe andato stretto ma, a prescindere dalle esigenze di lavoro, ci avevano convinto a traslocare i termosifoni, una cameretta in più e il panorama che si poteva godere quando si spalancavano le finestre.
Dopo cinque anni di paziente sopportazione ci era diventato insopportabile pranzare in una cucina che non avrebbe mai potuto ospitare un quarto commensale. Indubbiamente il trasferimento da via Monte di Pietà a via Berthoud 107 qualche miglioramento ce lo aveva anche portato infatti, anche se solo in inverno, sia sul lavello della cucina che sul lavabo del bagno da un secondo rubinetto usciva l’acqua calda, avevamo un bagno con vasca e bidet, le finestre si aprivano e chiudevano anche da dicembre a marzo e, anche quando nella notte di neve ne veniva un metro , la mattina non dovevamo spingere, in tre e con tutta la nostra forza, il portoncino per riuscire ad uscire di casa come succedeva almeno tre o quattro volte all’anno nella casa di ringhiera di Novi.
Mamma si era sempre lamentata che in camera sua, quando doveva scegliersi un vestito, non riusciva ad aprire, come sarebbe stato normale, completamente le antine dell’armadio perché urtavano sul fondo del letto e quando lo doveva rifare e soprattutto quando doveva cambiare le lenzuola sbatteva continuamente i fianchi ed i gomiti contro la cassettiera e qualche volta anche contro la toilette. Sentendosi rispondere alle sue lamentele con una laconica raccomandazione a stare più attenta aveva smesso di lagnarsi ma, visto che era lei ad occuparsi del bilancio famigliare, aveva stabilito che era giunto il momento di cambiare e di ritornare a mettere il tavolo da pranzo al centro della cucina e soprattutto di riuscire a girare comodamente intorno al letto matrimoniale senza procurarsi decine di lividi.
Papà che era solito almeno due volte al giorno prendersi una pausa, in quel periodo aveva una officinetta tutta sua in via Roma, per andare col suo aiutante a prendersi un caffè al bar Lux. Durante uno dei suoi brevi intervalli, aveva fatto la conoscenza di due fratelli che erano soliti raccontare che con enormi sacrifici e dando fondo ai risparmi di tutta una dura vita da camionisti, stavano dando gli ultimi ritocchi ad una palazzina posizionata proprio all’imbocco di via Monterotondo. Le descrizioni che erano soliti vantare, orgogliosi di essere riusciti a concretizzare un progetto disegnato da un geometra che aveva previsto sei appartamenti identici con camere dalle dimensioni che rispettavano i parametri di una volta, e la cifra che erano intenzionati a chiedere come affitto avevano fatto decidere papà di andarli a vedere. Sicuramente era anche attratto dal fatto che erano il frutto di operai che avevano pensato di farsi una pensione con gli affitti e non della speculazione di ricchi capitalisti. La finestra che teneva quasi tutta una parete che permetteva di godere di un panorama in cinemascope che iniziava dalle colline prima di Monte Spineto, comprendeva tutto Stazzano e arrivava quasi alle prime case di Cassano, e dava una luce eccezionale alla sala, aveva subito conquistato papà. Quella palazzina sembrava fosse stata costruita in aperta campagna, non esistevano ancora tutti i palazzi che la contornano oggi, al loro posto scorreva ancora l’acqua in una roggia e facevano la loro bella figura degli orti curatissimi. Purtroppo però le ruspe e le scavatrici stavano già scaldando i motori per arrivare a preparare le prima fondamenta.
Papà aveva lasciato la sua officina, troppe tasse e troppe preoccupazioni per un uomo troppo apprensivo, ed aveva trovato un lavoro in un’aziendina a pochi metri da casa, mamma era felice dell’appartamento che aveva visto perché aveva subito pensato che avrebbe mandato in pensione il mastello zincato perché aveva trovato nel bagno il posto per una lavatrice, l’acqua calda era a disposizione per tutto l’anno, e nella camera matrimoniale e nella mia, intorno ai letti avrebbe potuto girarci anche con la bicicletta. Era tanto soddisfatta da affermare che non le sarebbe pesato nemmeno fare un chilometro a piedi e con le borse per arrivare al supermercato VeGè , da Rava per il pane e da Renzo per la frutta e verdura. Aveva avuto talmente tanta fortuna che proprio mentre stavamo traslocando a pochi metri dal cimitero avevano aperto un Mini-Market A&O. A me sarebbe mancato un poco il via vai di via Berthoud, ai fischi del treno avevo fatto l’abitudine e sicuramente avrei sentito la nostalgia delle risate di Voghera, l’omino col sigaro, e delle baruffe dei giocatori di scopone scientifico. Oramai mi ero motorizzato ed avevo persino il garage per la mia 850 Special bianca, che consideravo la più brutta automobile uscita dagli stabilimenti Fiat: ero stato costretto a sceglierla per motivi logistici, papà e mamma ci salivano agevolmente. Lavoravo in uno stabilimento chimico distante tre chilometri da casa e il sabato pomeriggio lo dovevo dedicare a rifornire il frigorifero e la dispensa. Non potevo evitarlo: i miei avevano contribuito alla spesa dell’automobile! Accompagnavo la mamma al supermercato Degli Antoni di Novi, che era stato il primo in quella zona e rimaneva sempre il più fornito e più a buon mercato, e poi… in piazza del Collegio un posto per posteggiare si trovava sempre. Tutte le volte che lei arrivava alla cassa col carrello strapieno pronunciava la solita lamentela per aver speso pur acquistando prodotti in offerta ben quarantamila lire! Oggi con venti euro si comprano: pane, latte , patate e cipolle e un “panetto” di formaggio molle.
La domenica pomeriggio era quasi obbligatorio trasferirsi con gli amici a Castelletto d’Orba, dove avevano costruito la famosa Rotonda del Lavagello.
Si ballava con l’orchestra, erano gli anni in cui furoreggiavano i complessi, e non col Juke-Box: ricordo di aver ascoltato pezzi suonati in diretta da gruppi musicali quali Equipe 84, i Giganti, i Camaleonti ed i Dik-Dik e se mancava il complesso famoso si presentavano col microfono in mano Gianni Morandi, Patty Pravo, Mal dei Primitives, Don Backy e spesso anche un ragazzo che quando eravamo studenti facevamo cantare sul pullman che ci portava in gita. Lui aveva rinunciato alla carriera di perito meccanico per fare il cantante col nome Don Miko. Ricordo i figuroni che mi faceva fare quando, finita l’esibizione, si veniva a sedere al mio tavolino, le ragazze che erano con me ed i miei amici lo adoravano, in effetti aveva una bella voce ed era anche un bel ragazzo, quasi quasi mi sentivo in dovere di darmi delle arie!
Papà non aveva lavorato molto in quell’officina a Ca’ del Sole, il suo glaucoma congenito all’occhio sinistro stava peggiorando e ero stato proprio io ad interessarmi per farlo andare in pensione, aveva 57 anni ed era giusto che gli venisse concesso il tempo per dipingere, visto che era bravo e sino a quel momento lo aveva fatto solo sporadicamente. Una volta che si era trovato libero da impegni e senza qualcuno che lo sollecitasse a finire un lavoro, aveva iniziato proprio in sala davanti a quella enorme finestra che gli era piaciuta tanto a fissare con gli acquerelli su un foglio di carta di puro cotone i colori dei campi di grano che aveva davanti a sé. Eravamo andati ad abitare in periferia ma nonostante il canto degli usignoli e dei merli e il coccodè delle galline la faceva da padrone il frastuono dell’autostrada: avevamo il casello proprio a pochi metri. Il suono più fastidioso, si poteva anche definire straziante, era quello prodotto dai freni degli autocarri che dovevano rallentare, sulla discesa della statale che arrivava da Novi, per riuscire a fermarsi a prendere il biglietto di ingresso in autostrada e non era uno sporadico automezzo al giorno che transitava! In estate, la sera anche se il termometro segnava trenta gradi, per non aumentare talmente l’audio della TV da disturbare i vicini, ci vedevamo obbligati a chiudere le finestre. A proposito di televisione, in via Monterotondo il nostro Ultravox era guarito perfettamente da quella brutta malattia che tutti chiamavamo “ effetto neve “ e che, secondo il nostro tecnico di fiducia, che aveva provato tutti i ritrovati della tecnica moderna per debellarla, sembrava dovesse essere incurabile per gli apparecchi collegati ad antenne montate su quei tetti che andavano da piazza delle Aie a porta Genova. Secondo il nostro tecnico solo un nuovo ripetitore posizionato a Monte Spineto sarebbe stato in grado di debellare tutti i virus che infestavano il centro storico e che bloccavano le onde provenienti dal Monte Penice.
Come la casa di via Berthoud 107 era stata testimone del mio primo bacio alla francese, quella in via Monterotondo lo era stata dei primi amplessi amorosi con la mia fidanzatina che sarebbe poi diventata mia moglie. Penso che genitori di aperte vedute come lo erano i miei difficilmente se ne sarebbero trovati altri negli anni settanta. Quando capivano che certe domeniche pomeriggio non prevedevano programmi se non quello di stare insieme ad ascoltare qualche disco, decidevano di prendere la corriera per andare a Novi a trovare gli zii, in parole povere ci lasciavano soli, liberi di scambiarci le più ardite effusioni. Forse ricordavano quanto avrebbero desiderato loro trovarsi soli in un appartamento senza essere sempre circondati da nipoti, cognati e futuri suoceri!
Il giorno in cui l’inquilino che abitava in fianco se ne era andato con quattro colpi di martello avevamo creato un appartamento con quattro camere da letto due sale e due bagni! Finalmente papà aveva avuto il suo spazio in cui dipingere e scrivere senza chiedere permesso a nessuno e senza doversi accontentare di posare la tela che stava dipingendo su una sedia badando di non sporcarla con qualche pennellata di rosso carminio o blu di Prussia. Io, che nel frattempo mi ero sposato, avevo un piccolo laboratorio di falegnameria nella cucina che non si usava e mia moglie, pur vivendo con i suoceri, poteva contare su una certa privacy ed avere la nostra camera matrimoniale vicino a quella dei due bimbi che aveva portato la cicogna.
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