Antifascismo e resistenzaAntifascisti e partigianiDecorati al Valore MilitareDizionarioMilitari

Pasquale FERRARI – Partizan! La guerra dimenticata di un partigiano serravallese della “Divisione Garibaldi” in Montenegro.

Pasquale Ferrari (di Agostino Ferrari e Teresa Torrielli / Serravalle Scrivia, 26 maggio 1917 / Novi Ligure, 26 novembre 2000).

Contadino, operaio, Caporale Maggiore Genio Artiglieria Alpina, Partigiano combattente, Decorato al Valore Militare.

La storia della Resistenza dei militari italiani all’estero è un racconto drammatico che accomunò migliaia di soldati, circa 900.000 uomini dislocati nei Paesi occupati dalle forze dell’Asse, colti impreparati in terra straniera dall’armistizio e dalle sue tragiche conseguenze. Interi reparti con i loro ufficiali, lasciati senza ordini dagli Alti Comandi, male equipaggiati e con armamenti inadeguati. Senza indugio, la Wehrmacht mise in atto l’ “Operazione Achse”: occupare e piegare con ogni mezzo qualsiasi resistenza dell’ex alleato. Le armate del Fuhrer si mossero, con azioni ampiamente pianificate, risolute e spietate, per neutralizzare l’Esercito Italiano in ogni quadrante dello scacchiere bellico, per terra e per mare. “Traditori Badogliani !”. I militari italiani cadono in combattimento o vengono trucidati dai tedeschi, sono prigionieri ed internati nei campi di prigionia del Reich. Chi non si arrese al nuovo nemico e riuscì a sottrarsi alla morsa della repressione germanica, preso atto dell’impossibilità di tornare in Patria, spesso decise di lottare per la liberazione dal nazifascismo delle comunità locali: in Francia, come in Albania, dalle isole dell’Adriatico a quelle dell’Egeo, in Grecia e in Jugoslavia. (Immagine a lato: Partigiani italiani in Jugoslavia – Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini )

Tra gli italiani che decisero di prendere parte alla Resistenza delle popolazioni balcaniche, anche un alpino serravallese della Taurinense, Pasquale Ferrari, classe 1917, che dall’8 settembre 1943 sino alla fine del conflitto, combatté una guerra durissima, in condizioni proibitive, sulle aspre montagne del Montenegro nella Divisione Partigiana Garibaldi, al fianco dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo. Un viaggio all’inferno e ritorno, per una pagina tra le più controverse della seconda guerra mondiale degli italiani, una pagina a lungo dimenticata, dove si confondono tragicamente alleati e nemici, occupanti e liberatori, vittime e carnefici.

Pasquale Ferrari, nacque a Serravalle Scrivia, il 26 maggio 1917, figlio terzogenito di Agostino Ferrari, contadino e fittavolo, e di Teresa Torrielli, operaia, figlia di agricoltore. Agostino e Teresa si sposarono nel 1909. I Ferrari conducevano la terra prima a Cascina Caffarena e poi a Cascina Campea. Oltre a Pasquale, vi convivevano i fratelli Antonio, classe 1910, Giuseppe, classe 1912, Natale, classe 1914 ed Emilio, nato nel 1919. La famiglia Ferrari si trasferì nel 1929 a Stazzano. Nel 1932 tornarono a vivere a Serravalle, ma solo per un anno, per poi emigrare a Vignole Borbera, in località Precipiano. Terminati gli studi con la quinta classe delle Elementari, Pasquale trovò un’occupazione lavorando dapprima nei campi e successivamente come operaio in fabbrica.

In guerra sul fronte delle Alpi Occidentali.

Il 7 luglio 1937 assolse all’obbligo della visita di leva e venne dichiarato abile ed arruolato, Soldato del Regio Esercito, in forza al Distretto Militare di Tortona. Posto in congedo provvisorio, l’11 aprile del 1938 venne chiamato alle armi e si presentò al 1° Reggimento di Corpo d’Armata, assegnato alla Compagnia Mista della Divisione Alpina. Sull’Italia spiravano impetuosi i venti di guerra e Mussolini pianificava l’attacco alla Francia, già invasa dai nazisti e sull’orlo della capitolazione. Il primo aprile del 1939 Pasquale Ferrari ricevette i gradi di Caporale. In settembre la sua Taurinense venne schierata nel X Settore Copertura Baltea, in Valle d’Aosta[1] ed il 10 ottobre il giovane serravallese venne trattenuto in servizio.

Il 10 giugno 1940 l’Italia dichiarò guerra alla Francia ed il giorno dopo Ferrari fu tra i militari mobilitati che giunsero in territorio di operazioni con il 2° Battaglione, 121° Compagnia di Artiglieria Divisionale Alpina Taurinense, con la qualifica di addetto al servizio di Posta Militare nr. 200. Pasquale vivrà quelle che saranno le prime settimane dell’Italia nella seconda guerra mondiale, che si combatterono sulla frontiera occidentale del Piemonte, della Valle d’Aosta e del Ponente Ligure. Un’offensiva che si sarebbe dimostrata più impegnativa di quanto previsto dagli Alti Comandi. Al 16 giugno la situazione delle Grandi Unità del Regio Esercito sul fronte francese vedeva la Taurinense schierata ai confini con l’Isère nel Settore Baltea – Orco – Sture[2]. All’alba del 23 giugno la Divisione costituì il fulcro dell’”Operazione B”: penetrare in territorio transalpino dalla direttrice del Piccolo San Bernardo, il valico che congiunge il vallone di La Thuile alla Val d’Isère, muovendo lungo i colli Seigne, Piccolo San Bernardo e Du Mont.[3] Sino al 25 giugno Ferrari combatté sul fronte alpino occidentale. Il Duce, che aveva cinicamente evocato “…alcune centinaia di morti da portare al tavolo della pace…”, li ottenne: 631 furono soldati italiani caduti, 616 dispersi e 2631 i feriti e congelati, a fronte di 37 morti, 42 feriti e 150 dispersi da parte francese. Tra i militari del Regio Esercito che nella “Battaglia delle Alpi” sacrificarono la propria vita sull’altare delle vane ambizioni del Regime, anche un Geniere serravallese, Domenico Berthoud.

L’altra sponda dell’Adriatico. Con gli Alpini nei Balcani in fiamme.

Diversamente da quanto aveva immaginato il Duce, la “guerra lampo” scatenata da Hitler non sarebbe finita così presto. Il conflitto incendiò tutto il Vecchio Continente ed avvolse ben presto anche ai Balcani. Il 6 aprile del 1941 il territorio del Regno di Jugoslavia, invaso dalle truppe dell’Asse, capitolò davanti alle soverchianti forze nazifasciste. I tedeschi, inarrestabili, occuparono di slancio Serbia e parzialmente la Croazia, lasciando agli italiani Slovenia, Dalmazia, la restante parte della Croazia, l’Erzegovina ed il Montenegro. Qui, con il dichiarato proposito di ricostituire l’indipendenza montenegrina, perduta con la Prima Guerra Mondiale, le truppe italiane d’occupazione entrarono nel Paese, con le Divisioni Emilia, Ferrara, Venezia e Taurinense. Si trattava in realtà di un’autonomia inesistente, dichiarata il 12 luglio 1941 sulla punta delle baionette italiane e dissimulata dal velo dei legami dinastici con Casa Savoia (la Regina d’Italia, Elena, era la figlia del deposto Re Nikola I, fondatore del Regno di Montenegro). La nuova condizione nazionale si rivelò fortemente destabilizzante per il piccolo, ma tutt’altro che irrilevante sul piano strategico, Stato arroccato nel cuore dei Balcani. Il Paese, già attraversato da tensioni geopolitiche e sociali, nonché da violente contrapposizioni etniche e pulsioni nazionalistiche, nel volgere di ventiquattrore fu sconvolto da diffuse e ricorrenti sollevazioni popolari, irredentistiche ed antiitaliane. La rivolta venne soffocata nel sangue dal Regio Esercito e la repressione fu durissima.

La Resistenza jugoslava all’invasione si aggregò intorno a due contrapposti movimenti: i Cetnici, filomonarchici nazionalisti, ed i socialisti dell’ Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, comandato da Josip Broz (“Tito”). Mussolini per “pacificare” manu militari il Paese mobilitò ben 100.000 soldati e le regole d’ingaggio dettate dallo Stato Maggiore non diedero adito ad interpretazioni: reprimere senza esitazioni la guerriglia, con determinazione e ferocia, senza fare prigionieri ne risparmiare i civili. Per due anni, italiani e tedeschi, con la collaborazione di milizie locali, porranno in essere un’occupazione poliziesca e brutale. Una guerra spietata per contrastare le formazioni partigiane jugoslave – le più forti del Continente dopo quelle sovietiche – agli Alpini della Taurinese, che già aveva fatto esperienza di antiguerriglia in Bosnia: «…tocca una vita raminga tra mulattiere, imboscate, marce estenuanti e combattimenti improvvisi. Gli alpini fanno (quasi) la vita dei partigiani dormono nei boschi, mangiano freddo. Le sono affidate le operazioni più rischiose e difficili. Ma anche le più brutali: è impiegata nella politica del terrore nei confronti della popolazione che sostiene i ribelli… Il soprannome di “palikuci”, “brucia-case”, spetta anche a loro…».[4] Non mancarono ingiustificate violenze contro i civili, rappresaglie, incendi di villaggi, razzie, fucilazioni sommarie, deportazioni ed internamenti. 

Nel 1942 tra i soldati della 121° Compagnia Artiglieria della Taurinense, trasferiti in Puglia per l’imbarco alla volta dei Balcani, c’era anche Pasquale Ferrari, promosso Caporal Maggiore da poco meno di un anno. Il 10 gennaio partì dal porto di Bari alla volta di Dubrovnik, nella Croazia meridionale, dove sbarcò due giorni dopo. Da gennaio a luglio il Servizio Posta Militare nr. 200 ebbe sede a Niksic, la seconda città del Montenegro, per spostarsi successivamente a Pljevlja, dove operò sino all’8 settembre 1943.[5] La piccola cittadina, la località più settentrionale del Paese, caposaldo militare italiano, il 1 dicembre 1941 era stato difeso strenuamente dagli Alpini della Divisione Pusteria dall’assedio dei partigiani jugoslavi, alfine respinti dagli italiani ma al prezzo di pesanti perdite umane.

Dall’8 settembre 1943 alla Resistenza in Montenegro.

Il 1943 fu l’anno che portò a molti soldati italiani la consapevolezza che la guerra fosse persa, poi il 25 luglio con la notizia della caduta di Mussolini ed in settembre l’annuncio dell’Armistizio, posero anche i sessantamila militari italiani in Montenegro davanti ad angoscianti e pressanti interrogativi. Oltre al collasso delle linee di comando militari, essi assistettero, attoniti, allo sgretolarsi dell’organizzazione che amministrava l’occupazione italiana del Paese. Il Maresciallo Pietro Badoglio, nuovo Capo del Governo, alla radio dichiarava «La guerra continua», negando loro ogni speranza di pace e di ritorno a casa. Dunque che fare? Arrendersi ai tedeschi e collaborare con loro oppure consegnarsi alla deportazione nei lager germanici? Combattere in terra straniera contro l’alleato divenuto improvvisamente spietato nemico? Schierarsi al fianco di quei partigiani ai quali sino a pochi giorni prima avevano dato una caccia senza quartiere? Come pensare di chiedere aiuto e sostegno ad una popolazione civile apertamente ostile, a lungo vessata e terrorizzata dalle violenze delle rappresaglie italiane? (Nell’immagine a lato, truppe italiane a Plevlja, Montenegro, 1941, immagine Ecomuseo Valsugana)

Ciascuna delle Divisioni italiane decise liberamente del proprio destino. La Zara, la Isonzo e la Ferrara si arresero ai nazisti. In Dalmazia i reparti italiani si costituirono in Battaglioni Garibaldi e Matteotti che diedero vita alla Divisione Italia, la quale operò anche in Bosnia.[6] La Taurinense e la Venezia misero ai voti la questione e deliberano a maggioranza di combattere i tedeschi. «…Abbandonati nel nulla e costretti a schierarsi… La loro scelta di campo non è ideologica e non ha niente di eroico in sé; tuttavia evidenzia una capacità di comprensione più profonda, un rifiuto della logica dell’odio politico e razziale. Questi uomini sentono, percepiscono il bisogno di schierarsi con chi lotta per la propria libertà e contro il nazismo…».[7] I partigiani montenegrini non dimenticarono l’occupazione italiana fatta di rappresaglie di internamento di civili, ma armi e uomini servono per opporsi ai nazisti.

L’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, sostenuto militarmente da Unione Sovietica e Regno Unito, si impose alla guida della Resistenza, assumendo progressivamente le caratteristiche di un esercito regolare capace di attrarre, dopo l’Armistizio, moltissimi militari del Regio Esercito. In Montenegro i contatti tra Ufficiali italiani ed elementi chiave dell’EPLJ furono pressoché immediati. Poco tempo per decidere. Arduo chiedere ai Partigiani ed alle popolazione jugoslave di dimenticare le atrocità dell’occupazione. Infatti i Montenegrini non dimenticarono: parte degli ufficiali e soldati italiani vennero arrestati, alcuni processati per le rappresaglie sui civili. Tuttavia l’imperativo di opporsi alla macchina da guerra di Hitler pretendeva un compromesso. Neppure ai duri e ben organizzati partigiani di Tito era consentito rinunciare a uomini armati disposti a combattere un comune nemico. Anche se si trattava di soldati italiani. Subito dopo l’Armistizio la Wehrmacht si mosse con risolutezza contro i “traditori” che furono costretti a ripiegare in battaglioni autonomi nell’entroterra balcanico, convergendo nel quadrante presidiato dalla Divisione Venezia. Qui maturò l’alleanza tra i resistenti italiani e quelli jugoslavi.

Il 2 dicembre, la Venezia, con nove Brigate, e la Taurinense, con tre Brigate, costituirono una formazione partigiana italiana, la Divisione Garibaldi, inquadrata con il consenso del Comando Supremo Italiano nel 2° Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo. «…La nascita della divisione cela in realtà una resa al comando partigiano jugoslavo. Ai soldati italiani sono lasciate le stellette, ma si tratta di un segno d’autonomia solo esteriore: da questo momento sono sottoposti all’autorità jugoslava. Inoltre, per ridurne il peso numerico, il numero dei partigiani in armi viene drasticamente ridotto a meno di cinquemila uomini. Due terzi degli italiani sono disarmati e arruolati nei battaglioni dei lavoratori…»[8]. La nuova unità prese il nome dell’eroe dei due mondi per iniziativa di un gruppo di ufficiali che avevano partecipato alla Guerra Civile Spagnola nelle brigate antifasciste.

L’adesione alla Resistenza jugoslava di Pasquale Ferrari fu immediata. Egli militò nelle fila della Garibaldi, in una prima fase dal 9 settembre al primo novembre 1943, e successivamente, dal 7 ottobre 1944 all’8 marzo 1945. Infatti la neocostituita Divisione Garibaldi sembrava destinata ad avere vita breve: solo tre giorni dopo la sua nascita, una massiccia offensiva tedesca si abbatté sulla formazione concentrata nella città di Pljevlja, travolgendone le fila: 600 caduti, 1500 prigionieri. Gli italiani sbandarono e si occultarono per tentare di sottrarsi alla repressione antipartigiana. Li attese un inverno durissimo: oltre al piombo nemico, fame, freddo, malattie (soprattutto una letale epidemia di tifo petecchiale) ed ogni tipo di privazioni. «…Mancano coperte, giacche, pantaloni, scarpe, munizioni, cibo, medicinali. I soldati combattono ricoperti di stracci… Chi sopravvive lo deve all’ospitalità contadina, in un territorio scarso di risorse, vessato da tre anni di requisizioni e distruzioni… Pesa su di loro la diffidenza dell’alleato partigiano…”.[9] Gli italiani affrontarono aspre battaglie sulle montagne del Montenegro e nei boschi della Bosnia, nei comprensori dei fiumi Piva, Tara, Drina, da Pljevlja ad Andrijevica, da Kolašin a Gacko, fino a Dubrovnik.[10] Il Montenegro fu l’area del Regno di Jugoslavia che in proporzione diede il maggior contributo alla Resistenza locale e col tempo gli italiani seppero conquistare il rispetto di molti Jugoslavi.

Dopo l’8 settembre, moltissimi giovani soldati inviati a combattere sui diversi fronti di guerra non ebbero più alcun modo di comunicare con le famiglie in Italia. Il 2 agosto del 1944, Agostino Ferrari, angosciato per la sorte del figlio, si rivolse al Municipio di Serravalle, come altri genitori disperati avevano ed avrebbero ancora fatto: che fine aveva fatto il loro Pasquale? Il Commissario Straordinario che reggeva il Comune, Marcello Saredo Parodi, si attivò personalmente scrivendo al Sottocomitato della Croce Rossa di Novi Ligure per chiedere l’interessamento del sodalizio internazionale nella ricerca di notizie del militare che non aveva dato più notizie di sé già dall’agosto del 1943. Alcune precedenti richieste fatte per avere informazioni erano rimaste senza esito.[11]

La strada di casa. Il difficile ritorno della “Garibaldi” dal Montenegro libero.

Nel dicembre 1944 i nazisti si ritirarono e Tito assunse il controllo del Montenegro libero, proclamato Repubblica Socialista. A guerra finita, per i resistenti italiani il presente e l’immediato futuro si fecero, su entrambe le sponde dell’Adriatico, ancora più difficili: liberatori ma pur sempre stranieri, ed, allo stesso tempo, soldati da ricondurre in Patria ma anche partigiani agli ordini di un esercito comunista. Dopo lunghi mesi d’incertezza e frustrazione, l’8 marzo 1945 iniziò il rimpatrio dal Montenegro. Su 22.000, tra soldati e ufficiali, circa 11.000 furono i caduti e dispersi, i rimpatriati furono 3.800, di questi 2.500 precedentemente all’8 marzo 1945, perché feriti o malati, 4600 i sopravvissuti ai campi di prigionia.

L’11 marzo anche Pasquale Ferrari venne rimpatriato: imbarcato a Dubrovnik, alla volta di Brindisi, dove sbarcò il giorno successivo. Trascorso un primo periodo di internamento in un campo per la quarantena dal tifo petecchiale[12] che imperversava nei Balcani, il 1 maggio risultava nuovamente in forza all’esercito italiano nella Compagnia Armi Accompagnamento del ricostituito Reggimento Garibaldi, reparto ritornato in patria armato ed efficiente, formato in Viterbo nella primavera del 1945. Il 20 ottobre del 1945 venne posto in congedo illimitato: finalmente il ritorno a casa ed alla vita civile.

Nel 1946, all’Alpino serravallese venne riconosciuto il titolo di Partigiano combattente all’estero e, per la sua esperienza resistenziale, ricevette la Medaglia di Bronzo al Valore Militare con la seguente motivazione: «…Animato da purissimo amor di Patria fra i primi iniziava volontariamente in Terra straniera una nuova campagna in contrasto con gli umilianti, ordini dei tedeschi e partecipava ininterrottamente a tutte le azioni di guerra del suo reparto. Nella dura è difficile lotta, combattendo estremamente percorreva, migliaia di chilometri, lacero e scalzo, spesso soffrendo fame, sete e gelo opponendo la forza dell’orgoglio agli abitanti ostili che lo volevano disarmato, le armi al nemico che superiore in forze e mezzi lo voleva distrutto. La salvezza dell’animo a quanti volevano piegare i suoi sentimenti di italianità (Montenegro, 8 settembre 1943 – 8 marzo 1945)…».[13]

In realtà, ai brevi giorni della riconoscenza nazionale, sarebbe seguito un iniquo e mortificante processo di rimozione della memoria dell’esperienza partigiana dei soldati della Garibaldi. (Immagine a lato. Lapide alla “Garibaldi” in Via San Pancrazio, Roma).

La guerra dimenticata della Divisione “Garibaldi”. L’oblio ed il recupero della memoria.

Sebbene i suoi combattenti vennero inquadrati nell’Esercito Jugoslavo, essi pretesero orgogliosamente di combattere con le proprie divise, senza abbandonare distintivi ed insegne dell’Esercito Italiano, neutralizzando ogni tentativo jugoslavo di inquadramento politico della Divisione; pertanto al rientro in Patria non avrebbero dovuto in alcun modo essere considerati partigiani comunisti[14]. Ciò nonostante il ritorno in Italia di questi indomiti soldati, che per diciotto mesi portarono avanti in condizioni militari ed ambientali estreme una durissima guerriglia, senza mai alzare le mani davanti ai tedeschi, fu caratterizzato da una malcelata diffidenza: «…Tra i vertici dell’Esercito Italiano la scelta di resistere accanto ai partigiani comunisti suscita molta diffidenza. E l’incomprensione avrebbe accolto i reparti della divisione Garibaldi che, a partire dall’8 marzo 1945, cominciano il rientro… Nell’Italia della guerra fredda il loro sacrificio non trova posto. La loro esperienza non è spendibile né presso il governo democristiano, per la lotta condotta accanto a un esercito comunista, né tra i partiti di sinistra, perché l’esercito comunista è quello del deviazionista Tito, che ha rotto con Stalin. Le porte delle associazioni d’arma rimangono chiuse: non possono entrare in quelle partigiane, perché hanno combattuto con i segni dell’esercito, non in quelle militari, perché hanno operato sotto un comando straniero…»”.[15] Inoltre è noto come, già nel corso della guerra partigiana, vi fossero settori della Resistenza che nutrirono sentimenti di diffidenza verso le Forze Armate: «…Le ragioni sono ovvie: l’appoggio dato dai militari al regime fascista, le sconfitte, il crollo dell’8 settembre. Gioca anche una rivalità latente: le bande partigiane si considerano generalmente come l’esercito della nuova Italia, che deve sostituire quello sconfitto e compromesso col fascismo…».[16]

Il ricordo della “Garibaldi” fu avvolto da una sorta di oblio pubblico. In Italia monumenti e le lapidi dedicati a questi partigiani non sono numerosi, diversamente dal Montenegro, dove la loro memoria è rimasta viva e vitale. Tra coloro che negli anni a venire si sarebbero attivamente spesi nell’opera di ricostruzione e di valorizzazione della memoria della Brigata Garibaldi in Jugoslavia vi fu il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che nel 1983 volle rendere ufficialmente omaggio al sacrificio di questi uomini in armi, nel 40° anniversario della fondazione della Divisione, partecipando all’inaugurazione di un monumento dedicato ai partigiani italiani, eretto nella periferia di Pljevlja.[17] Alla Garibaldi vennero concesse complessivamente 2.166 decorazioni al Valore Militare: 8 Medaglie d’Oro, 1 d’Argento, 1 di Bronzo di reparto; 8 medaglie d’oro, 87 d’argento, 350 di bronzo, 713 Croci di guerra al Valor Militare individuali. Le autorità jugoslave decorarono la prima, la seconda e la terza Brigata con l’Ordine per i Meriti verso il Popolo, con la Stella d’Oro e con l’Ordine della Fratellanza e Unità con Corona d’Oro, oltre a due encomi solenni di reparto del Comando Supremo Jugoslavo.

Così venne motivata la Medaglia d’Oro al Valore Militare, concessa alla bandiera del 182° Reggimento Fanteria per i reparti della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi: «…Degni eredi delle tradizioni militari e del sublime eroismo delle Divisioni Taurinense e Venezia duramente provate prima e dopo l’Armistizio, i reparti di Fanteria della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi, dai resti di quelle unità derivati, si forgiavano in blocco granitico ed indomabile, animato da nobili energie e da fede nei destini della Patria. In 18 mesi di epici ed ininterrotti combattimenti, scarsamente riforniti di viveri, senza vestiario, ne medicinali, con gli effettivi serbando intatta la compagine spirituale dei propri gregari che volontariamente preferivano la sanguinosa lotta della guerriglia, ad un avvilente resa. Ultimata la guerra in Balcania e rientrati in patria, ridotti ad un terzo dopo i duri combattimenti sostenuti sulle aspre montagne del Montenegro, della Erzegovina, della Bosnia e del Sangiaccato, chiedevano unanimi l’onore di difendere il suolo natale, emuli di quanti si immolarono all’Italia e al dovere, tramandando ai posteri le leggendarie virtù guerriere della stirpe. Jugoslavia – 8 settembre 1943 – Italia 25 aprile 1945…».


Fonti:

Archivio di Stato di Alessandria, ruolo matricolare nr. 921, anno 1917, Distretto Militare di Tortona;

Archivio Storico del Comune di Serravalle Scrivia;

Elena Aga Rossi, Maria Teresa Giusti, “Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945”, Il Mulino, Bologna, 2017;

Federico Goddi, “Fronte Montenegro. Occupazione italiana e giustizia militare (1941-1943)”, LEG Edizioni, Gorizia, 2016;

Eric Gobetti, “L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943)”, Carocci, Roma, 2007;

Eric Gobetti, “La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943-1945)”, Salerno Editrice, Roma, 2018;

Giacomo Scotti, “25 Aprile. Migliaia i soldati italiani morti per la libertà della Jugoslavia”, in “Patria Indipendente”, Aprile 2013;

Luciano Viazzi, Leo Taddia, “La resistenza dei militari italiani all’estero. La Divisione Garibaldi in Montenegro – Sangiacato – Bosnia Erzegovina”, in “Rivista militare”, Roma.

https://www.yumpu.com/it/document/view/35935580/migliaia-i-soldati-italiani-morti-per-la-liberta-della-jugoslavia-anpi

https://www.facebook.com/photo/?fbid=982007028558914&set=pb.100064836634630.-2207520000&locale=fr_FR

Discorsi e messaggi del Presidente della Repubblica Alessandro Pertini“, Roma 2009 (https://archivio.quirinale.it/discorsi-bookreader//discorsi/Pertini.html#page/590/mode/2up)


[1] AA.VV., “Le operazioni del giugno 1940 sulle alpi occidentali”, in Biblioteca Militare, Ufficio Storico dello SME, Roma, 1994

[2] AA.VV., “Le operazioni del giugno 1940 sulle alpi occidentali”, in Biblioteca Militare, Ufficio Storico dello SME, Roma, 1994

[3] AA.VV., “Le operazioni del giugno 1940 sulle alpi occidentali”, in Biblioteca Militare, Ufficio Storico dello SME, Roma, 1994

[4] https://laricerca.loescher.it/storia-di-una-resistenza-dimenticata/

[5] https://www.ilpostalista.it/pm_file/pm_112.htm

[6] https://www.storiaememoriadibologna.it/esercito-popolare-di-liberazione-della-jugoslavia-528-organizzazione

[7] Eric Gobetti, “La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943-1945)”, Salerno Editrice, Roma, 2018

[8] https://laricerca.loescher.it/storia-di-una-resistenza-dimenticata/

[9] https://laricerca.loescher.it/storia-di-una-resistenza-dimenticata/

[10] https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/red-carpet/uomini-partizani-in-montenegro/

[11] Archivio storico del Comune di Serravalle Scrivia

[12] https://laricerca.loescher.it/storia-di-una-resistenza-dimenticata/

[13] http://decoratialvalormilitare.istitutonastroazzurro.org

[14] https://www.anpibat.it/pasquale-di-benedetto-il-partigiano-barlettano-in-jugoslavia/

[15] https://laricerca.loescher.it/storia-di-una-resistenza-dimenticata/

[16] https://www.reteparri.it/wp-content/uploads/ic/IC_220_221_2000_13_r.pdf

[17] https://laricerca.loescher.it/storia-di-una-resistenza-dimenticata/


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