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Quando ad Arquata si parlava inglese.

Il 9 aprile 2024, presso la sala S.O.M.S. di Arquata Scrivia, l’Università delle 3 età (Unitre) di Arquata-Grondona ha organizzato una bella conferenza su questa singolare vicenda che ha coinvolto il paese per un lungo periodo. Edoardo Morgavi, appassionato ricercatore di storia locale, ha raccontato questa storia, con l’ausilio di numerose immagini che documentano una presenza pacifica (questi militari non hanno praticamente mai combattuto) e quotidiana. Il numeroso pubblico ha anche aggiunto, alla fine, qualche aneddoto e ricordo personale. Si può ben comprendere la vicenda guardando la galleria di immagini che segue l’articolo: vita quotidiana nelle tende e nelle baracche, foto ricordo di gruppi, ma anche contatti con la popolazione locale all’osteria, davanti all’Hotel Arquata, in piazza per incontri di box o nella piscina – appositamente costruita – per giochi di destrezza. I locali a piano terra degli edifici del paese erano stati trasformati in botteghe che commerciavano (le radici mandrogne avevano subito intravisto l’occasione) prodotti locali e cartoline e ogni genere di merce gradita agli “ospiti”.

Fra la fine del 1917 e il 1920, per più di due anni, Arquata Scrivia ospitò un contingente di oltre 36.000 militari britannici (inglesi, irlandesi e scozzesi), dislocati in un enorme accampamento che si estendeva da Serravalle Scrivia (dal bivio di Libarna verso Gavi) fino a Rigoroso e che aveva il suo centro nevralgico nell’area di Le Vaje

Il 24 ottobre 1917 a Caporetto (Kobarid) si era consumata la più grave disfatta nella storia dell’esercito italiano: 300.000 prigionieri, caduti nelle mani degli Austro-ungarici, e più di 350.000 sbandati. 

L’esercito italiano dovette arretrare di più di 150 chilometri, attestandosi sulle rive del Piave. Gli alleati, Francesi e Inglesi, dopo questa non brillante prova degli Italiani, cominciarono e nutrire forti dubbi sulla capacità di questi di resistere sulle posizioni del nuovo fronte: c’era la non remota possibilità di un ulteriore sfondamento e, grazie al terreno pianeggiante del corso del Po, di ritrovarsi in men che non si dica il nemico alle frontiere della Francia. 

Pensarono allora di inviare in Italia un contingente militare, non tanto per affiancare gli Italiani nelle battaglie, quanto piuttosto per fronteggiare gli eventuali sfondamenti austriaci: una seconda linea di riserva e sicurezza. 

Due ufficiali italo britannici, i fratelli Strina, che facevano parte dello Stato Maggiore e che avevano abitato nella loro infanzia nella villetta dei genitori, in Piazza Umberto 1° ad Arquata Scrivia, suggerirono questo luogo, del quale conoscevano le caratteristiche (ottime infrastrutture ferroviarie, vicinanza al porto di Genova, numerosi edifici dismessi), come adatto ad ospitare il loro contingente. 

Sta di fatto che già dallo stesso novembre 1917, 715 treni speciali e svariate autocolonne trasportarono cinque divisioni, equivalenti a circa 60.000 soldati britannici, da Le Havre attraverso tutta la Francia, fino a Ventimiglia e, proseguendo sulla ferrovia, fino ad Arquata Scrivia. 

A marzo 1918, dopo il trasferimento di due divisioni in Francia, per il timore di uno sfondamento sulla Marna, restarono circa 36.000 soldati. L’accampamento era enorme! 

Prima costituito solo da tende di tela a forma di cono, e poi man mano sostituite o integrate da baracche in lamiera e in legno. Le intere superfici del campo erano inghiaiate e servite da viali regolari ed ordinati. La ghiaia era prelevata dal fiume Scrivia. 

Erano stati allestiti anche un cinema, un ospedale, una piscina e, in una fornace non attiva, una panetteria che sfornava le ingenti quantità di pane necessarie. Gli ufficiali si erano insediati all’Hotel Arquata e, dopo qualche tempo, qualcuno era stato raggiunto anche dalla famiglia. Si poteva accedere alla zona militare solo se dotati di un lasciapassare: le strade di accesso erano sbarrate e sorvegliate, a Libarna e a Rigoroso; dal treno non si poteva scendere ad Arquata, se non con il lasciapassare: chi ne era sprovvisto veniva fatto salire sul convoglio successivo e fatto procedere per Genova o per Serravalle. 

Alla domenica, reparti di soldati di fede cattolica marciavano inquadrati fino alla chiesa di San Giacomo, preceduti da due soldati scozzesi che suonavano la cornamusa che fiancheggiavano un colosso alto almeno due metri che suonava una grancassa (la catuba come la definisce il Degiovanni); per i soldati di fede protestante era stata allestita una piccola chiesa prefabbricata in prossimità dell’attuale S.O.M.S. 

Molti civili arquatesi (donne e ragazzi soprattutto, dal momento che i maschi adulti erano stati richiamati alle armi) furono ingaggiati per le attività di costruzione della base e successivamente per attività di servizio. 

Una dettagliata e vivace descrizione della vita nel campo è contenuta in uno scritto dell’epoca (Ricordi di Arquata Scrivia, di Davide Degiovanni – Nanin – Genova1923 – Tipografia Artigianelli). Nel 1997, con Alfredo Casalgrandi, ho scritto il saggio Union Jack e Tricolore in Valle Scrivia, dove ho presentato il prezioso materiale raccolto nel corso degli anni e affidatomi dalle famiglie che lo conservavano; per iniziativa dell’Università delle tre età Arquata-Grondona, ho anche raccontato la storia di questa singolare e non sgradita presenza nel salone della SOMS di Arquata Scrivia. 

Restano di questa vicenda il cimitero di guerra inglese (sul fianco destro del cimitero civico), che accoglie le spoglie di 94 militari deceduti per cause naturali, una ex fornace che riporta ancora la scritta Arquata Rest Camp, alcuni reperti – utensili, attrezzi, fotografie – raccolti in una piccola sala museale, presso la sede della SOMS di Arquata Scrivia, e una propensione degli arquatesi, non proprio tradizionale in queste plaghe, a bere il thè.

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  • Stefania Ferretti

    Grazie

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