LA GRANDE FUGA
80 ANNI FA, UN’IMPRESA MEMORABILE AL FORTE DI GAVI
Il primo atto che testimonia l’esistenza del castello di Gavi è un documento notarile risalente all’anno 973, ma, data la sua posizione strategica sulla via Postumia (148 a.C.), era presente sull’altura che dominava il sottostante villaggio e l’Alta Val Lemme una rocca di controllo e difesa fin dai tempi della presenza della popolazione ligure e poi romana. Da quell’epoca fino al termine della Seconda guerra mondiale nel 1945 il Castello Forte di Gavi è sempre stato attivo e utilizzato. Baluardo dei confini a nord della Serenissima Repubblica di Genova, passato alla Francia sotto Napoleone nel 1804, fu alla fine attribuito al Regno di Sardegna durante il Congresso di Vienna del 1815. Disarmato nel 1859 fu trasformato in carcere civile e militare. Nella Prima guerra mondiale divenne un campo di prigionia per i prigionieri austro-ungarici e disertori italiani; durante la seconda guerra mondiale divenne un carcere di massima sicurezza per militari alleati “speciali”. Nel 1946 fu consegnato alla Soprintendenza per i Beni Architettonici del Piemonte ed è oggi proprietà della Direzione Regionale dei Musei del Piemonte.
Per quanto riguarda la storia di questo raro esempio di architettura militare che vogliamo raccontare ci soffermiamo sul periodo della seconda guerra mondiale. Dai documenti militari: «Il campo P.G. N. 5 (=Prigionieri Guerra n.5) di Forte di Gavi viene aperto nel giugno del 1941 e, nel marzo del 1943, viene descritto come campo per ufficiali con una capienza di 200 posti… viene indicato come campo per prigionieri di guerra alleati segnalati come “turbolenti”». Questa qualifica indicava prigionieri che avevano messo in mostra una certa attitudine alla ribellione e avevano messo in atto tentativi di fuga nei vari campi di prigionia non solo in Italia, ma anche in Germania. Tutti costoro venivano inviati a Gavi, una fortezza dalla quale era effettivamente difficile evadere.
Jack Pringle, l’ufficiale protagonista della nostra storia, afferma nel suo libro di memorie Colditz last stop, (Colditz ultima fermata) che a Gavi “non c’era possibilità di fuga. Eravamo praticamente in una scatola di pietre senza uscita”. In più tutta l’area di fuga era illuminata da riflettori e controllata da 400 tra soldati e carabinieri. Quindi tentare di fuggire era un’impresa rischiosissima, fra l’altro anche perché si sapeva che alle sentinelle erano state promesse 2.000 lire e un mese di licenza se riuscivano a sparare contro un ufficiale britannico in fuga. Il colonnello Giuseppe Moscatelli, decorato al valore nella Prima guerra mondiale e responsabile del campo di prigionia del Forte di Gavi, era inflessibile nella disciplina e nelle punizioni; sembrava sempre presente ovunque e con il suo mantello nero svolazzante pareva un pipistrello in agguato, e i prigionieri infatti lo chiamavano bat. Per questo la fortezza gaviese venne definita “Hell Camp”, cioè “Campo Inferno”, per l’impossibilità di fuggire più che per le condizioni di vita.
Pare una provocazione, ma sta di fatto che il Forte di Gavi, proprio perché era considerato a prova di evasione, non faceva che stimolare un maggiore livello di creatività e audacia nei prigionieri; infatti praticamente tutti i prigionieri si dedicavano alla fuga, e se non avevano già fatto un tentativo, erano comunque stati identificati come “uomini pericolosi”. Avevano un unico obiettivo: la fuga. Fra i prigionieri, tutti ufficiali, c’erano ingegneri che riuscivano a immaginare sotto le pietre del vecchio castello una rete di condutture e fognature. Quindi bastava cercarle; come? Scavando una galleria sotterranea, ovvio. E la galleria era il progetto più gettonato, ma altri metodi furono provati con indubbia creatività, come viene descritto con dovizia di particolari nel libro Un uomo in fuga di David Guss presentato a Gavi nel 2018.
Fu il caso però a rendere possibile l’unico tentativo di fuga parzialmente riuscito, quello che viene ricordato come la Grande Fuga. A raccontare è un altro fuggitivo, Alastair Cram, e la sua narrazione è raccolta anch’essa nel volume Un uomo in fuga. Si era all’inizio di settembre 1942.
“Un soldato di nome Hedley stava dormendo in cima a un letto a castello a tre piani quando nel girarsi sbatté con la testa contro il muro. Notò che il suono lasciava dedurre che dietro ci fosse uno spazio vuoto. Con l’amico del letto inferiore decisero di indagare. Fecero un foro largo abbastanza per infilarci la testa. Videro un condotto scuro e apparentemente senza fondo. Vi lanciarono un sasso e qualche secondo dopo udirono uno spruzzo in lontananza. Era una cella piena d’acqua, un fiume sotterraneo, una cisterna? Certamente capirono di essere di fronte a una scoperta enorme. Nascosero l’apertura e stabilirono di avvisare i superiori… Hedley faceva parte dell’ottavo reggimento degli Ussari, lo stesso di Jack Pringle e quindi avvisò lui, che subito cominciò l’ispezione e i lavori per scavare la galleria”.
Il primo a calarsi nel condotto fu il capitano Buck Palm, che poi divenne il vero leader dell’impresa. “Alto un metro e ottanta per ottantaquattro chili, Buck era un ammasso di muscoli, con il collo taurino e le spalle larghe di un rugbista”. Si calò al termine del condotto nella cisterna con l’acqua che gli arrivava al petto, esaminò l’enorme grotta e fu certo che una delle pareti era il muro esterno che dava sul bastione più basso, la Mezzaluna. Si organizzò una vera squadra con compiti logistici diversi. Buck Palm, il gigante, e Allen Pole, anche lui sudafricano perito minerario, cominciarono i lavori di scavo per produrre una galleria percorribile e una via d’uscita dalla cisterna. Scelsero il punto da scavare nella parete esterna più a est. Di sopra Alastair Cram e Jack Pringle predisponevano le misure di sicurezza, anche perché erano gli unici che parlavano bene l’italiano. Non solo dovevano segnalare l’ingresso di guardie vicino alla cella, ma anche predisporre che non si lasciassero segni del lavoro (polvere, detriti, abiti e scarpe infangati) e rispondere con prontezza agli appelli che potevano suonare all’improvviso.
I progressi erano costanti ma lenti. Poi arrivarono piogge torrenziali che alzarono il livello dell’acqua. Ma questo non li fermò. Gli scavatori raggiungevano il cordolo-piattaforma senza vestiti, nuotando per una trentina di metri al buio, si portavano legna che, con tecniche da minatori, Buck bruciava a ridosso della roccia e, quando questa era incandescente, vi buttava acqua fredda per crearvi fessure che poi spaccava col piede di porco. Lo scavo della galleria procedeva. Secondo il piano, la galleria avrebbe portato direttamente sul muro esterno, uscendo proprio sopra gli alloggi dei carabinieri, l’antico ingresso al bastione più basso detto Mezzaluna. Dal tetto degli alloggi dei carabinieri, si sarebbero calati senza grosse difficoltà dalla cima di un parapetto in pendenza fino a terra nello spazio del bastione. Qui oltre la polveriera c’erano tre casette di legno dove erano alloggiate le truppe italiane, poi in alto una torre di guardia con un riflettore e una guardia armata. Attraversato quello spazio occorreva raggiungere dalla parte opposta un albero dove legare una corda e calarsi dal muro ritenuto meno alto.
Eravamo nel novembre 1942, giungevano notizie dall’Africa, la vittoria degli Alleati a El Alamein. Per i prigionieri del Forte di Gavi la fine appariva meravigliosamente vicina: con le forze dell’Asse in ritirata dal Nord Africa, sapevano che l’invasione della Sicilia non poteva essere lontana. Nulla però influiva sulla determinazione verso la fuga. Alla fine di febbraio 1943, con ancora tanta neve di fuori, i fuggitivi raggiunsero il muro esterno. Buck tolse le ultime pietre e apparve in basso il tetto dei carabinieri, la via di fuga; ma proprio sotto c’era un groviglio di filo spinato, messo lì per scoraggiare tentativi di fuga dal refettorio posto una ventina di metri sopra. Una difficoltà in più.
“Fu scelto il gruppo dei fuggitivi, formato da 10 prigionieri ritenuti indispensabili per ritornare a combattere. Un undicesimo si sacrificò per calarsi nella cisterna e richiudere l’uscita e per guidare la successiva fuga. Ma al campo arrivò un prigioniero importante, David Stirling, fondatore della SAS (Special Air Service), una leggenda tra coloro che combattevano nel Nord Africa, catturato dagli italiani e subito spedito a Gavi. Data l’importanza di David, fu deciso di aggiungerlo come undicesimo fuggitivo”.
Stabilirono il momento favorevole: la prima notte di pioggia battente. Il 20 aprile, il martedì prima di Pasqua, arrivò il temporale che avevano atteso. Giganteschi torrenti d’acqua e una fitta nebbia avvolgeva la fortezza. “Gli undici si calarono nella cisterna. Buck aveva allargato l’apertura nel filo spinato e uscire fu facile. I soldati nelle baracche sembrava facessero baldoria, per la Pasqua imminente? O forse per festeggiare il compleanno di Hitler che cadeva in quel giorno? La discesa sul terreno del bastione fu facile e i soldati che ogni tanto uscivano dalle baracche non li vedevano, forse per la pioggia e la nebbia, o forse per l’euforia dei festeggiamenti”. Alastair per primo riuscì ad arrivare all’albero e legare la corda, si calò, ma a metà del muro la corda si ruppe e precipitò per una decina di metri atterrando malconcio, ma non per questo rinunciò e si dileguò nel buio. Jack Pringle e David Stirling furono gli ultimi a uscire a causa della grande altezza di David che aveva difficoltà a passare dal foro. Un gruppo di soldati usciti improvvisamente dalle baracche vide David e, nonostante la sua violenta reazione, riuscirono a circondarlo e bloccarlo. Jack nella confusione e con sangue freddo riuscì a raggiungere la corda e calarsi, lasciandosi poi scivolare lungo la parete inclinata del muraglione.
“A un certo punto – racconta Jack in un’intervista rilasciata nel 1996 in occasione della sua visita al Forte – la corda non c’era più; mi lasciai scivolare lungo la parete del muro per fortuna leggermente inclinata, aiutandomi a frenare con i rampicanti attaccati. Atterrai malamente e persi la borsa con il necessario per sopravvivere tre giorni, ma ero sano e soprattutto c’erano ancora i soldi nel taschino del giubbotto”.
Mentre Alastair, ferito e con due costole rotte, anche se aiutato dai contadini, venne catturato il giorno dopo e riportato al Forte con i pochi altri fuggitivi, Jack Pringle riuscì a dileguarsi rimanendo nascosto per tutto il giorno, poi incamminandosi a piedi verso sud lungo il Lemme diretto a Genova, che amava e conosceva bene. Tralasciando i particolari, Pringle, superata la Castagnola, riuscì a prendere un treno a Busalla per Genova, scese alla stazione Principe, si diresse verso il porto per i vicoli di Via Pré, trascorse la notte tra le rovine delle case bombardate. Il sabato santo 24 aprile lo trascorse girovagando e assaporando l’aria salmastra della “sua” Genova. Decise di partire il giorno dopo: direzione Nord, la Svizzera.
25 aprile, Pasqua, alla Stazione Principe, per non insospettire, prende un biglietto andata e ritorno per Milano. Raggiunge il binario e solo all’ultimo momento sale sul treno. Le gallerie, un sospiro di sollievo nel buio protettore. Ronco Scrivia, Arquata, si affaccia dal finestrino e si accorge che nell’ultimo vagone stanno salendo due carabinieri dopo aver controllato i documenti di chi scende. Panico. Jack si sposta verso la prima carrozza; dal corridoio controlla l’avanzata dei carabinieri. Tortona, scende molta gente; scende anche lui, prende le scale del sottopassaggio e in fondo risale dall’altra parte accodandosi ai passeggeri in partenza, si dirige all’ultimo vagone e sale. Spera che i carabinieri non decidano di tornare indietro. Rogoredo: Jack, sempre sull’ultima carrozza si affaccia dal finestrino e vede scendere i carabinieri che prendono le scale d’uscita. Grosso sospiro di sollievo.
Milano Centrale: Pringle ha deciso di passare il confine, certamente non da Chiasso, dal Lago Maggiore, verso Lugano. Cerca una stazione intermedia per andare sul sicuro: Stresa. Il treno è pieno di turisti che vanno a trascorrere sul Lago il pomeriggio di Pasqua. Tanta gente, nessun carabiniere in vista. Il viaggio sembra interminabile per Jack che continua a controllare il corridoio. Stresa! Con il berretto calato sulla fronte Pringle si dirige verso l’uscita tra la calca; il tempo di alzare lo sguardo e proprio davanti a lui due carabinieri stanno controllando i documenti. Panico, Jack si guarda attorno, accanto a lui una signorina in vestito sgargiante e cappellino di paglia; non ci pensa due volte: le mette un braccio attorno alla vita e poggia la testa sulla spalla. I carabinieri sorridono e non fermano una così bella coppia. “Maleducato, villano – strilla subito dopo la signorina allungandogli uno schiaffo – se ci riprova, chiamo i carabinieri!”. “E’ così bella, signorina!” farfuglia Jack e si dilegua veloce.
Ancora un percorso in treno chiuso nel gabinetto. Scende a Pallanza e prosegue a piedi. Ormai il pomeriggio volge verso la sera. Supera Intra che è già buio, solo un ricordo per Ernest Hemingway con la fuga degli amanti in barca sul Lago, narrata in Addio alle Armi. Il cammino prosegue lungo la strada deserta per tutta la notte; a destra la riva scoscesa del lago, a sinistra i boschi di abeti e larici. Alle prime luci dell’alba supera un piccolo centro abitato, Cannobio. Sono quasi le otto di lunedì 26 aprile 1943, Pasquetta. Laggiù sul fondo del Lago le luci di Locarno sono ancora accese. La Svizzera, la libertà! Certamente non può arrivare al confine lungo la strada e chiedere di passare ai gendarmi svizzeri. Neppure arrivare via Lago, non ha una barca e non è esperto a remare. Jack sa che l’unica soluzione è aggirare la dogana attraverso i sentieri tra i boschi e i monti. Ha camminato tutta la notte, è riuscito a evitare tutti i pericoli, ma ora è spossato e per superare l’ultimo ostacolo, i boschi e i monti, occorre avere forze fresche. Bisogna riposare e riprendere vigore. Jack si guarda attorno, ha da poco superato le ultime case del paese, a destra la riva scoscesa termina nell’acqua verde del lago, a sinistra una distesa in salita di abeti e larici che iniziano a riprendere il verde brillante dei nuovi aghi; sotto, ai piedi dei tronchi un fitto sottobosco di rododendri. Sembra una barriera impenetrabile. Il posto adatto per riposarsi al sicuro e riprendere le forze per l’ultimo atto verso la libertà. Si inoltra nel bosco, sceglie il punto più nascosto fra i rododendri e si addormenta di botto.
“Brambilla, Arturo Brambilla!” (il nome e la conversazione è una ricostruzione). “Ouch, ahia, stop, fermi col fucile!”. “Brambilla, Arturo Brambilla, hai finito definitivamente la tua carriera di contrabbandiere. Svizzera Italia, Italia Svizzera, eh? Adesso torni a Milano, a S.Vittore dove ti aspettano i tuoi compari, che hai fregato per scappare da solo. Vedrai che festa che ti aspetta a Milano”. “No, no Milano! Io a Gavi”. “Gavi? E dov’è? Non fare il furbo Brambilla, a S.Vittore ti porto!”. “No, S.Vittore, a Gavi. Io, no Brambilla, io Jack Pringle, Jack Pringle prigioniero di guerra”. “Facciamola finita, Brambilla, con questa sceneggiata. Alzati!”. “Maresciallo, maresciallo!”. “Che c’è Visentin, non mi far perdere tempo che sono le quattro e dobbiamo essere a Milano prima di sera!”. “Sior Maresciallo, stamattina ero al telegrafo e è arrivato una fonogramma che diceva di un prigioniero inglese fuggito, mi sembra proprio da Gavi, e che si chiamava Iac con la I come Juventus; poi Prigle, mi sembra”. “Jack Pringle, io, sono io!”. “Stai zitto, Brambilla! Allora Visentin?”. “Il fonogramma diceva che questo Iac era fuggito da Gavi e andava verso la Svizzera”. “Io Jack Pringle fuggito da Gavi”. “Sta’ zitto! Bravo Visentin. Sta’ a vedere che ci pigliamo anche una bella ricompensa. Dai Jack Pri.. come diavolo ti chiami. Si va a Gavi!”. Il sogno della libertà per Jack Pringle si era infranto.
Dopo l’8 settembre il Forte passò sotto il controllo tedesco e Jack Pringle con altri prigionieri fu trasferito nella Fortezza di Colditz. Terminata la guerra, molti anni dopo, tornato in Italia e a Gavi, Jack Pringle visitando il Forte e guidato alla muraglia da cui era fuggito, rimase sorpreso e quasi incredulo di aver saltato un muro così alto. Certo la fuga alla fine non ebbe il successo sperato, ma Jack Pringle andò fiero di essere stato il primo ad essere riuscito ad evadere nei mille anni di storia del Forte di Gavi.