Trattoria d’Italia
È nel 1931/1932 che i miei nonni Pollero Giovanni e Pugno Maria acquistano una porzione dello stabile di via Umberto I al civico 12, con l’annessa attività di trattoria e si trasferiscono da Gavi, dove il nonno lavorava come autista presso il calzificio Morasso.
Giovanni Pollero era originario di Savona, mentre nonna Maria era nata a Monterotondo di Gavi; si erano conosciuti nei primi anni del ‘900 a Torino, dove prestavano servizio presso una ricca famiglia sabauda. Il nonno era l’autista e la nonna una delle domestiche di casa: alternavano il loro lavoro fra la residenza principale nel capoluogo e le case di villeggiatura in Val d’Aosta.
Si sposarono e arrivarono a Gavi, dove vivevano le sorelle della nonna. A Gavi nascono mio papà Francesco e mio zio Mario. Dopo pochi anni, con i risparmi e l’aiuto di famigliari savonesi, si lanciano nell’avventura commerciale a Serravalle.
L’anima dell’iniziativa era senza dubbio nonna Maria, il nonno lavorava dietro le quinte: gestiva la cantina ed aveva la responsabilità del forno della farinata, era lui che infornava i testi di liquido giallo (la farina di ceci sciolta in acqua) nel forno a legna e ruotava man mano la grande teglia di rame per cuocere al meglio il sottile strato dell’impasto dorato.
La trattoria offriva il pranzo di mezzogiorno, la farinata alla sera e per il resto della giornata era l’osteria dove si giocava a carte e si beveva essenzialmente vino.
Ho in mente i racconti dei nonni sul primo periodo di attività, dagli anni ’30 al primo dopoguerra, il gran lavoro in cucina di nonna Maria, le difficoltà durante i lunghi anni della Seconda guerra mondiale.
Alle prime avvisaglie del conflitto la nonna comprò un fusto da 180 litri di olio prevedendo le successive mancanze di generi alimentari e l’olio era l’ingrediente base per la farinata! In quel periodo molte volte barattavano con i contadini delle campagne limitrofe il valore del pasto con una micca di pane bianco, introvabile in paese.
I piatti erano tradizionali: minestrone genovese e trippa le portate di punta, quelle più richieste. La trippa piaceva molto anche in brodo (la sbirra). Altra specialità erano i pesci della Scrivia in carpione, non sempre disponibili, perché dipendeva dalle stagioni di pesca al fiume e dall’abilità di papà nella cattura….
I miei ricordi diretti risalgono ai primi anni ’60. Ero nato nell’osteria; vivevo nel retrobottega e al piano superiore, la zona notte, in una sorta di famiglia larga, che in un certo senso comprendeva anche i frequentatori della trattoria. In pratica dal mattino presto alla sera tardi non esistevano momenti in cui la famiglia fosse libera dalla presenza di altre persone.
Erano gli anni nei quali l’attività di trattoria era ancora importante: ho nitidi i volti di alcuni clienti fissi come Germano che lavorava alla Fidass e abitava a Stazzano o Giacomo che lavorava nell’officina Leale e viveva a Gavi. Giacomo fu l’unico che dopo la chiusura della trattoria continuò a pranzare a tavola con noi ogni mezzogiorno feriale.
L’osteria aveva avventori abituali, per me indelebili nel ricordo ancora oggi. Ne voglio ricordare due: Fernando e Gustein. Due lucidatori di mobili: una professione ormai scomparsa, che avevano il laboratorio in uno dei vicoli di Serravalle, al tempo ancora in piena attività. Fernando era un ex operaio della fabbrica Zavaglia di Novi: era arrivato a Serravalle dopo il matrimonio con una nostra concittadina operaia Fidass; era sempre presente ai tavoli dell’osteria in compagnia del quartino di vino e della sigaretta; era diventato nel tempo un’icona della nullafacenza. Gustein lavorava con lui, ma il mestiere di lucidatore lo aveva imparato in carcere, dove aveva trascorso qualche decennio per un omicidio compiuto negli anni ’30.
A lui è legata una sostanziale trasformazione della Trattoria d’Italia: il cambio dei tavoli in sala.
In carcere Gustein lavorava in falegnameria, dove producevano tavoli moderni con il piano in formica lavabile, e convinse i miei ad ammodernare la sala cambiando i vecchi e massicci tavoli in legno. Papà mi raccontava del viaggio ad Alessandria con il camioncino delle consegne, per ritirare i tavoli direttamente in carcere, accompagnato da Gustein, ridiventato uomo libero e retto.
Lo ricordo altissimo e magro con un sigaro perennemente fra le labbra; era affettuosissimo con me, quasi di famiglia per come frequentava casa nostra (il retro dell’osteria); non avevamo nessun pregiudizio legato ai suoi trascorsi, dal momento che dimostrava un totale recupero e il pieno reinserimento nella normale vita sociale. Pensandoci ora, credo che l’apertura mentale dei miei era molto avanti per quei tempi. Ma non mi stupisco pensando alla profonda cristianità di nonna Maria, sempre pronta all’aiuto e alla compassione degli ultimi.
C’erano giorni particolari per la vita del locale. La domenica mattina, il mercato settimanale portava in paese molta gente dalle valli circostanti e ricordo che molti contadini, prima di rientrare alle cascine verso le 11,30, ordinavano la cotoletta di maiale ai ferri. Uno in particolare usava il suo coltello a serramanico per tagliarla. Ma il massimo del lavoro coincideva con la fiera di San Martino; io di solito aiutavo il nonno al forno della farinata e un anno abbiamo fatto un record: 32 farinate in una giornata!
L’altra dimensione dell’attività, quella di osteria, occupava tutti gli altri spazi. Al mattino in particolare c’era un tavolo con tre avventori fissi che arrivavano con il pacco di focaccia calda e si scolavano un paio di litri di vino bianco per poi partire, chi nell’orto, chi ancora al lavoro. Erano le 7,30 di mattina! Ma era il pomeriggio che l’osteria ribolliva di vita: tavoli di pensionati che, a coppie, si sfidavano giocandosi la consumazione, il quartino di vino o il caffè; qualcuno si prendeva le caramelle. Giocavano a scopa o a tresette: le partite erano veri scontri e nessuno voleva fare coppia con le schiappe, e si scatenavano vere liti per gli errori di gioco del compagno.
Nella sala aleggiavano due tipi di fumi: quelli dell’alcool, che dopo vari giri di consumazioni avvolgeva i consumatori e quelli dei sigari e delle sigarette che saturavano letteralmente la sala; nelle giornate invernali, con le porte chiuse, la coltre azzurrognola impediva di vedere la porta d’uscita se si era seduti nel retro.
Ogni tanto entravano individui laceri, con il loro armamentario di borse e sacchi, erano le cosiddette ligere: senzatetto che vivevano per strada e con le elemosine che raccoglievano mangiavano qualche cosa; e naturalmente bevevano vino.
All’inizio delle trasmissioni televisive venne installata un grande televisore nella sala. Ai tempi erano poche le case che avevano una tv, ma la voglia di seguire i programmi principali del sabato sera o eventi come il festival di Sanremo era tanta che l’osteria si trasformava in una sala da cinema e si riempiva di famiglie che si godevano qualche ora di svago grazie ai programmi del piccolo schermo.
Ma fu proprio sul finire degli anni ’60 che i nonni iniziarono a lasciare la responsabilità della conduzione dell’attività ai miei genitori. Per la verità la nonna Maria continuava a presidiare la sala, per gli avventori era Marietta, per la sua statura piccola; era spesso in disaccordo con papà che cercava di cambiare un po’ l’impostazione del lavoro. La chiusura per il riposo settimanale fu un fatto epocale che nonna, dopo il primo periodo di mugugni, iniziò ad apprezzare perché permise a tutta la famiglia di avere un po’ di tempo libero: qualche pranzo in Val Borbera, le giornate al fiume Borbera in estate, sporadiche visite ai parenti in Liguria.
La malattia del nonno accelerò il cambio di gestione: gradatamente mio papà Francesco, Franco per tutti, ampliò il lavoro di commercio del vino e dismise l’attività di ristorazione. Negli anni ’70 mancarono i nonni e la Trattoria d’Italia rimase come osteria e rivendita di vino da asporto. Progressivamente papà iniziò ad assortire altri generi e a sviluppare la consegna a domicilio dei prodotti alimentari: naturalmente il vino che ai tempi le famiglie acquistavano in damigiane di vario formato e poi l’acqua minerale, che stava emergendo come bene di consumo diffuso.
Il 1980 portò nuovamente drastiche evoluzioni, che culminarono con la chiusura della Trattoria: papà e mamma erano ormai soli e il lavoro di distribuzione e gestione della cantina e del magazzino diventava proibitivo, e io, che lavoravo in una azienda metalmeccanica in crisi, decisi di entrare nell’attività di famiglia evitandone la chiusura totale.
Alle porte del 1990 cessò definitamente il lavoro nei locali di via Berthoud 12: lo sviluppo che riuscimmo a costruire fu esponenziale, il focus dell’attività fu presto spostato dal piccolo dettaglio all’ingrosso di generi alimentari, la birra prese un ruolo significativo ……. Ma questa è un’altra storia.
Molte e sincere grazie per questa mirabile ‘carrellata’ storica di una famiglia, della produttivita’ della medesima e anche del costume e della sua evoluzione.
I libri di storia dovrebbero cercare di incorporare anche queste cronache, che in (relativamente) breve spazio rivelano il tempo passato quasi fossero dei quadri resi vivi dalla partecipazione dei discendenti diretti dei protagonisti di questa ‘vera’ storia.
Jimmie Moglia,
Portland Oregon