I binari della mia vita: Il Raddoppio Ferroviario del Ponente Ligure
Il raddoppio ferroviario tra San Lorenzo al Mare e Ospedaletti è composto da circa 13 km di gallerie, compresa la fermata sotterranea di Sanremo piuttosto articolata con pozzi, cunicoli e finestra di sicurezza. Il tutto venne inaugurato il 30 settembre 2001. In questi lavori in sotterraneo perirono una decina di minatori: proposi quindi di mettere una targa in loro ricordo in una saletta di attesa della fermata di Sanremo. Un dirigente di FS si oppose e nonostante le insistenze dovetti rinunciare, benché la targa fosse già pronta e pagata da me. Il caso volle che nel 2004 andassi a lavorare in Regione Liguria. Pochi anni dopo divenne Assessore ai Trasporti Enrico Vesco: ne parlai con lui che aderì immediatamente e chiese a RFI di apporla. Il 6 febbraio 2010 con una semplice cerimonia la scoprimmo alla presenza di poche persone e del personale FS. Dovrebbe essere al suo posto ancora adesso, spero.
Quando lavoravo nei cantieri del raddoppio ferroviario del Ponente ligure, il mio ufficio era a Savona. C’era un geometra che all’epoca mi sembrava vecchio, con un naso aquilino, un impermeabile in nailon sia d’estate che d’inverno, parsimonioso all’eccesso e fiero della sua Duna, la macchina più brutta al mondo, peggio delle Trabant che circolavano nella DDR. Un giorno dimenticai il caschetto da galleria sulla mia scrivania e tornai a Sanremo. La settimana successiva il collega mi chiese se lo mettessi sempre, se desse fastidio, se me lo avesse fornito FS o il Concessionario dei Lavori. Vedevo in lui la voglia di averlo ma non ne capivo il motivo, visto che il suo compito era di stare in ufficio. Un po’ sadicamente lo lasciai di nuovo sulla scrivania (tanto ne avevo preso un altro in cantiere) pensando che prima o poi me lo avrebbe chiesto. Dopo due o tre giorni tornai e il geometra in questione mi invitò addirittura a prendere un caffè. Dopo i convenevoli d’uso finalmente si arrischiò a dirmi: «Ho visto che il caschetto giallo è sempre sulla tua scrivania, non ti serve più?» «Perché, a cosa ti serve in ufficio?» «Non in ufficio, quando vado per castagne mi protegge dai ricci che cadono sulla testa!» Grandioso! Glielo regalai subito! Un genio! Se avete visto nei boschi un tizio con il caschetto giallo, è lui. Abbiate rispetto: sa cavarsela degnamente in ogni occasione.
Negli anni ’80 dormire per lavoro a Ventimiglia era una noia pazzesca. Con un amico ingegnere passavamo le serate a parlare dei massimi sistemi finché, al limite dell’autonomia, non crollavo dal sonno. Una sera, disperati, facemmo un salto a Montecarlo con la classica UNO bianca da cantiere. Il posteggio sotterraneo ingoiò la “lussuosa vettura” e ci dirigemmo al Casinò. Arrivati nei pressi, l’umiliante scoperta della differenza tra ricchi e lavoratori, ci costrinse alla ritirata. Tornammo a Ventimiglia sempre fermamente decisi a folleggiare. Notammo un gruppetto di giovani all’ingress0 di un locale pieno di luci esterne. Scesi tre scalini fummo travolti da una musica assordante che fece esplodere le nostre orecchie. Il fumo era pari a quello di una volata con 300 kg di dinamite. Noi in giacca e cravatta, gli altri con giubbotti di pelle nera, borchie, capelli brillantati e bicchiere di superalcolico in mano. Riuscimmo a farci largo tra la loro curiosità e raggiungere il bar dove una Venere rossa, tutta pelle e ossa (non lo scrivo per la rima, era così), labbra fosforescenti e capelli bicolore ci accolse risciacquando bicchieri. Dopo un attimo si interruppe e ci chiese: «Cosa prendete?» Domanda difficilissima in un bar di quel genere: Rum? Whisky? Gin & Soda? Ci pensò il mio amico a togliermi d’impaccio: «Una camomilla!» Sperando che l’infuso propinatoci dopo ore di ricerca della bustina, non fosse cannabis.
È Santa Barbara la patrona dei minatori e all’imbocco di ogni galleria vi è la sua effigie. Il 4 dicembre, la sua festa, era particolarmente sentito nei cantieri: per tradizione i minatori quel giorno erano liberi di fare ciò che volevano e, addirittura, le donne potevano entrare in galleria. In quel periodo a Sanremo era in costruzione la fermata ferroviaria sotterranea: un antro enorme, tecnicamente una caverna. La sensazione era di smarrimento, con le centine, il calcestruzzo proiettato, il fronte scoperto. Ebbene, in questa ricorrenza, forse nel 1982, un po’ avventatamente si decise di dire Messa proprio lì. Ovviamente arrivarono i parenti da tutta Italia e ci incamminammo verso l’antro dove era posizionato l’altare, armati di elmetti e stivali, che fanno tanto contenti i visitatori. Il vescovo iniziò la funzione servito da due operai in tuta e nell’omelia elogiò i minatori per i pericoli che correvano e per il sacrificio di vivere lontano dai loro cari. Si vedeva che era particolarmente contento di celebrare Messa lì dentro. Ma né lui né gli ospiti avevano fatto il conto con le tradizioni dei minatori. All’elevazione, quando i due chierichetti manigoldi suonarono il campanello, improvvisamente si spensero le luci, escluse quelle fioche di emergenza. Al primo stupore seguì un bisbiglìo, un susseguirsi di domande e chi come me era nelle prime file poté scorgere la faccia preoccupata del prelato. Dopo alcuni secondi, si udirono alle nostre spalle delle piccole esplosioni in serie: era l’effetto dei cosiddetti “patari” chiamato anche “sparare alla sposa”: piccoli candelotti di dinamite che provocano poco danno ma tanto rumore. Lo scompiglio aumentò e, anche se le luci vennero riaccese, ci volle del bello a calmare gli animi e a spiegare che di scherzo si era trattato. In un’altra occasione il capo cantiere avrebbe impalato i colpevoli, ma il 4 dicembre era coperto da amnistia totale. Il vescovo, adesso sorridente, riprese la funzione probabilmente ringraziando il suo Principale in modo più che caloroso e per tutto il pantagruelico pranzo che seguì non si parlò d’altro.
Era da poco caduto il Muro di Berlino. In Valle Argentina il cantiere proseguiva lesto. Era il periodo in cui si apprendevano tante notizie di Geografia prima velate dall’omogeneità dovuta alla Guerra Fredda. Ad esempio, chi avrebbe saputo distinguere all’interno della Jugoslavia le varie nazioni come Serbia, Croazia, Bosnia, Montenegro? Così fu per l’URSS, considerata un tutt’uno graniticamente unito. In cantiere iniziò a circolare la voce che sarebbe venuto a visitare la galleria il presidente Arzimba dell’Abkasia che ha capitale Sukumi ed è sul Mar Nero. Questi nomi ci facevano sorridere e ognuno immaginava quella terra a suo modo. I più la immaginavano tutta steppe e ghiaccio anche se in effetti si trova in zona temperata. Di settimana in settimana aumentava l’aspettativa soprattutto per vedere quello che a poco a poco aveva assunto le sembianze di un marziano: ma poi era Sukumi o Suzuki? Il tempo passava e ormai la visita stava diventando una chimera quando un giorno, appoggiati a un’auto di cantiere vedemmo un magnifico gatto, circospetto, scendere con eleganza dai muri d’ala dell’imbocco: era severo, principesco, naturalmente elegante. Ci guardò dall’alto come se noi fossimo un di più in quella zona, forse chiedendosi perché ad attenderlo non ci fosse almeno un ministro. Spontaneamente esclamammo: «Eccolo, è Arzimba! È arrivato!». Da allora il cantiere fu casa sua.
Nei 43 anni di lavoro ne ho visto di belle e di brutte. Durante la costruzione della galleria Capo Verde a Sanremo, forse nel 1983, un giorno venne in vista il Re di Svezia (e, mi pare, il Presidente Sandro Pertini ma non vorrei sbagliare). Per inciso il suo seguito fece propaganda per attrezzature svedesi tanto per rimarcare la loro praticità. Ovviamente facemmo realizzare una targa commemorativa per gli illustri personaggi. Concordammo con tutto l’ufficio di farla consegnare da un’impiegata carina (allora il maschilismo non era fuori legge). Anche i minatori avevano pensato ad una targa ricordo e durante la cerimonia avvenne la consegna. Dopo la nostra impiegata, tra mille sorrisi e battimani , si avvicinò un minatore in tuta ed elmetto che a nome dei colleghi consegnò la loro. Avevano scelto un collega che durante un turno di quelli tosti, aveva subito un infortunio che gli aveva irrimediabilmente lesionato un occhio. Mi sentii umiliato: ci avevano dato una lezione morale che solo chi lavora veramente in galleria può permettersi.