Ricordi di un immigrato (a corto raggio…)
Sono arrivato a Serravalle nel 1955 ma, a differenza di tanti che in quegli anni arrivavano dal Meridione, io qui ci sono giunto dal Nord, più o meno… La mia famiglia infatti si è trasferita qui da Castellazzo Bormida, dopo aver scartata l’ipotesi di emigrare a Camogli, dove installare un panificio. La ridente cittadina ligure sembrò però eccessivamente lontana ai miei nonni, poco inclini a valicare l’Appennino. Ovviamente nessuno chiese il mio parere, dato che avevo solo due anni, e così eccoci qua.
Al numero 67 di via Berthoud venne aperta una bottega di alimentari che aveva sul retro il laboratorio di panificazione. Mia mamma, l’Angioletta, in negozio con una commessa e mio padre nel forno con l’aiuto di uno o due garzoni e di mio nonno Pietro. Quest’ultimo era cacciatore e pescatore implacabile. Metteva in carpione i pesci che pescava nello Scrivia: squisiti!
Quella bottega ai miei occhi sembrava una fra le più belle di Serravalle ed era il feudo di mia madre che la gestiva con perizia. A quei tempi si vendevano un sacco di prodotti sfusi, dalla pasta al tonno, dai peperoni sottaceto al baccalà.
Quando volevo fare merenda non avevo che da passare di lì e servirmi. Intanto mia mamma serviva i clienti. Ammiravo la sua abilità nel fare cartocci coi vari prodotti e la velocità nel fare i conti a mano. Tanti venivano a fare la spesa col “libretto” dove facevano segnare la varie spese che avrebbero poi pagate a fine settimana o quando avrebbero potuto. Prima o poi pagavano tutti. Quasi tutti.
Al di sopra delle vetrine del negozio campeggiava una moderna insegna in vetro dove a caratteri cubitali spiccava la scritta “Alimentari Orsini”. Su un lato dell’insegna stessa era raffigurato un tizio con uno strano copricapo (seppi poi che era Cristoforo Colombo) che reclamizzava il formaggio Bel Paese Galbani.
Bastava salire due rampe di scale e c’era il nostro alloggio, regno di mia nonna Teresa, che gestiva la cucina e tutto il resto, oltre ad occuparsi del sottoscritto. L’abitazione era costituita da una serie di camere enormi alle quali si accedeva direttamente dal pianerottolo. Praticamente per andare nelle camere da letto bisognava munirsi della chiave. C’era sempre lì, in uno di quei cameroni, la sede locale della Democrazia Cristiana, ma quando questa venne trasferita altrove, i miei acquisirono anche quello spazio e ne fecero una bella sala. Anche questa accessibile tramite chiave. In uno sgabuzzino (cieco), strategicamente posto al centro di quelle spelonche, c’era il WC e, giuro, dentro la tazza c’era scritto Moderno!
Mia nonna aveva il vizio di usare lì quantità industriali di candeggina: quando entravi piangevi. Per fare la doccia invece bisognava scendere di sotto nel panificio… Altri tempi!
Io sono cresciuto lì e per dire la verità ci stavo benissimo: l’appartamento era così grande che ci giravo in bici. Aveva solo il difetto che la canna fumaria del forno passava fra una stanza e l’altra e d’estate poteva dare un po’ fastidio per il calore che faceva quasi bruciare i muri. Però il freddo d’inverno non l’ho mai patito! Quando ero ancora piccolo sentivo fin da dentro casa il rumore delle cinghie di cuoio che collegavano un unico asse motore, posto sotto il soffitto del panificio, alle varie macchine per fare il pane. Ogni tanto una cinghia si strappava e mio padre… si innervosiva un bel po’, diciamo. Altri tempi!
Queste cinghie di trasmissione vennero poi abbandonate perché ogni macchina avrebbe avuto un suo motore elettrico. Inizialmente il forno andava ancora a legna e dopo cena mio padre, dopo un caffè da Berto d’Angelo, al di là di vico Gazzale, andava a scaldare il forno con le fascine. Mi ricordo la volta del forno con i mattoni arroventati. Ma i tempi cambiavano ed il vecchio forno venne presto sostituito da uno nuovo, riscaldato in un primo periodo da un bruciatore a nafta e successivamente da uno a gas. Decisamente più pulito.
Ma non vorrei che qualcuno pensasse di aver mangiato del pane cotto dove bruciava il gasolio! Il bruciatore si trovava infatti in una “fornacella” separata, dalla quale partivano dei tubi che contenevano non so quale liquido; questi entravano nella camera di cottura trasportandovi così il calore in modo pulito. In più di un’ occasione, però, uno di questi tubi era esploso nella suddetta camera di cottura ed una volta il colpo scardinò la massiccia anta di ferro della camera di recupero superiore, che passò fortunatamente al di sopra della testa di mio padre.
Mi ricordo ancora il rumore dei camion che passavano di notte sobbalzando sulle “ciape” della via Berthoud e certe sere d’estate passate con mio padre seduti sugli scalini del bar tabacchi, noto come Berto d’Angelo ma gestito da una coppia di… immigrati come noi (venivano da Fresonara): Angelo Gualco e la moglie Carla. Non avendo ancora figli mi coccolavano non poco. Il loro bar aveva sul retro una sala TV; la televisione a casa mia ancora non c’era, così dopo cena io scappavo là a vedere Carosello. A volte, rifornito di contanti, prendevo una spuma da venti lire (0,0103 €).
Nelle sere d’estate, seduti sugli scalini del loro locale, io sfidavo mio padre ad indovinare che tipo di auto stava per transitare sentendo il rumore che la precedeva. Ne passavano così poche! Addirittura girava ancora qualche carro trainato dal cavallo. Un animale molto bello e del quale andava fiero lo aveva lo “stracciaio” Tinelli, con stalla e magazzino in via Roma. Un bel cavallone tirava invece il carro della legna usata per riscaldare il forno; ce n’era una rivendita di fronte alla piazza del Monumento.
Ci fu un periodo nel quale potevo anche ascoltare l’allora viceparroco don Luigi Pezzati che suonava il pianoforte in canonica. Sentivo anche il mitico sacrestano Bartumlèin che discuteva con la moglie Margherita, dato che ci divideva una sola tramezza. Da casa mia sentivo anche il rumore delle macchine della tipografia Frascarolo. Il titolare, che abitava sopra a noi, qualche volta mi aveva fatto giocare un po’ con i caratteri da stampa: che bello! Forse avrei potuto essere un tipografo, ma panettiere no, perché guarda caso scoprii presto di essere allergico alla farina e se entravo nel laboratorio quando questa volava in aria iniziavo subito a starnutire e lacrimare. I fratelli Lessio, che di mio padre furono garzoni per anni, sorridevano…
Da piazza delle Aie a Porta Genova c’erano un sacco di negozi: sulla piazza l’edicola della “Sola”, poi la farinata e di seguito la salumeria Ravazzano. Sulla destra il Bar Tubino, la Bina organizzatrice di gite con “Tutto per la casa”, poi Ferrari e pitù con colori e vernici, la cartoleria dell’Angelina, la farmacia Balbi, i Mobili Fossati. Macellerie: ricordo Cavo, Gifra, Manfredini (quella equina) e quella di “Maiode” Roncoli dal monumento. Risalendo la via trovavi di fronte al mio negozio Calzature Motta, la drogheria Zorzoli, Figini “e bisagnein”, Stringa l’orologiaio, la Milia bottoni e stoffe, poi Lino Moncalvo elettricista, Elba abbigliamento con di fronte, sempre abbigliamento, “Coniugi Punta”. Cosa significasse coniugi me lo domandai per un bel po’. Barbieri in quel tratto ce n’erano almeno due: Valerio Vacchina di fronte alla piazza della chiesa e Giavotto, detto Cei, dirimpetto al mio negozio. Andavo spesso da lui a chiacchierare ed ero affascinato dagli specchi contrapposti che moltiplicavano la mia immagine all’infinito.
Partendo da Porta Genova trovavamo invece l’officina del Delio Traverso con distributore di benzina, credo marca BP, la trattoria Marina, Pollero osteria e farinata, l’alimentari delle signore Demicheli, madre e figlia, la tabaccheria Ameri con di fronte l’ufficio della SIAE, i cui titolari sarebbero convolati a giuste nozze, poi Pollini Pasta Fresca, l’elegante bar Traverso ed il Municipio. Panifici Puncrouni, Orsini, Albinio, (Botta un po’ più in là) e Rava in via Roma.
Ma la bottega che mi attirava di più era quella di Canuto, che era dove adesso c’è la pasticceria Carrea. Calamitava la mia attenzione perché oltre ai casalinghi vendeva giocattoli! Sull’altro lato della strada c’era la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, della quale ricordo un salone luminoso e lucidissimo. Ebbi un loro gadget ante litteram: un salvadanaio metallico dalla forma di libro (mai usato).
Con gli anni la mia attenzione si sarebbe spostata subito dopo il Municipio, dove c’era l’officina di Luciano Odaglia, detto “u rusu” per via dei capelli. Lì venivano riparate moto e scooter vari. I miei giocattoli in futuro sarebbero stati questi!
Nel tempo libero dagli studi (di Motociclismo) qualcosa dovevo pur fare, così, quando compii i quattordici anni, divenni, nei periodi liberi dalla scuola, pilota dell’ Ape cinquanta adibito alle consegne del pane alle varie rivendite. La consegna che preferivo era ad un negozio sul Lastrico perché mi permetteva di fare la curva della Madonnetta, prima del ponte sulla Scrivia, mettendo il mezzo su due ruote e, se c’era qualche pedone che assisteva spaventato, beh, era anche meglio! Mi è andata sempre bene, non mi sono mai ribaltato né tuffato dal ponte.
Però ricordo ancora un pomeriggio nel quale mi chiesero di girare i mezzi baci di dama sui quali sarebbe stato messo il cioccolato fuso per poterli poi unire. Avevo indosso una maglia a maniche lunghe… “ma non hai caldo?” mi venne chiesto più volte. Io dicevo di no ma alla fine dovetti levare la maglia ed esporre alcuni “spelouni” che mi ero procurato nella pista di Cassano, provando (a fondo!) il Muller da cross di Luciano Rigattieri.
Ma col passare degli anni sono poi maturato, anche se, pare, non del tutto. Ma u gh’è taimpu.
bei ricordi…ti sei dimenticato della trattoria che faceva angolo in fondo al paese, prima della salita Capellezza. Era di una cugina della mia mamma, per me zia Virginia ❤️
articolo stupendo, collega