CASTAGNE DI VARGOOO!!! (buone per i vivi e per i morti)
Il famoso detto «andava meglio quando andava peggio» ha ovviamente bisogno di essere precisato. Perché, se le cose d’un tempo avessero continuato a funzionare, non ci sarebbe stato motivo di individuare nuove soluzioni. Ma è altrettanto vero che una nuova soluzione quasi sempre affonda le proprie radici nelle cose del passato, che si rivelano dunque assai utili anche per il presente. Da qui la necessità di tenerle presenti senza limitarci al rimpianto.
È una considerazione che può essere richiamata anche nel caso dell’attribuzione della qualifica di tipico (De-Co ossia denominazione comunale secondo la vigente normativa) ad un prodotto che tale era già, di fatto, nell’esperienza dei mediatori e commercianti: giravano, infatti, per le nostre colline alla ricerca in particolare di generi alimentari reperibili solo in determinati luoghi e non altrove da far poi giungere, come specialità, (e quindi a caro prezzo) nei mercati di città e sulle tavole dei ceti più abbienti.
La frazione Vargo del Comune di Stazzano, forse anche per la sua posizione, si è distinta da sempre, tra l’altro, per le sue castagne: erano prodotte dai diffusi castagneti che salgono dal rio al fondo della collina su cui sorge il nostro paese, fino allo spartiacque con la valle del torrente Borbera. I cosiddetti boschi di Vargo partono dalla cascina Rughé per giungere a lambire la località Presidia (che richiama nel nome il presidium di epoca longobarda che qui era stanziato), in direzione Albarasca.
Sono boschi che per secoli hanno fornito innanzitutto legname, da ardere o da falegnameria; ma anche per l’estrazione di acido tannico, utilizzato nella lavorazione del pellame, nelle tintorie o per preparazioni chimico-farmaceutiche: a Serravalle, ad esempio, nei pressi del cimitero nuovo, esisteva l’impianto della Società Ligure Acido Tannico, per l’estrazione di questo prodotto. Ma anche il fogliame veniva utilizzato, per le lettiere delle stalle; e non bisogna dimenticare le listarelle di castagno necessarie per la fabbricazione delle banastre (termine derivato dalla lingua Occitana), ossia delle ceste realizzate ad intreccio con cui si raccoglievano e trasportavano le merci. Qualcuno ancora ricorda, forse, l’abilità degli intrecciatori nostrani nel realizzare, durante le lunghe sere d’inverno, o a richiesta dell’utilizzatore in base alle necessità, manufatti di varia tipologia e misura. E ancora: il legno flessibile e resistente di castagno era usato per realizzare un curioso nodo con cui attaccare alla slitta il timone per il traino animale. In alcuni trattati di logistica militare di epoca napoleonica sono riportate tavole che illustrano come agganciare mezzi per il trasporto dei generi di sussistenza, utilizzando strumenti di fortuna reperibili sul posto. Tra questi sono comprese le radici delle piante giovani di castagno, da infilare, una volta ritorte, nei passanti degli sci della slitta, per collegarle al timone senza usare ferramenta (difficile da reperire nei teatri di combattimento e comunque in località sconosciute che potevano rivelarsi ostili). Ma ritorniamo al prodotto principe: le castagne! Naturalmente la qualità del prodotto era fondamentale: accanto alle castagne od ai marroni (più grosse e pregiate) c’erano i seiveigòuni (letteralmente selvaticoni; simili ai marroni per forma ma non per caratteri di pregio, trattandosi di castagne non innestate, le sole cha danno frutti di qualità). Altrettanto fondamentale nel riconoscimento diventava quindi l’astuzia del venditore e la competenza dell’acquirente.
Forse per il clima, o forse per la composizione del terreno, oppure per la presenza di altre piante con cui si veniva a creare chissà quale alchimia, sta di fatto che i commercianti del tortonese e dell’alessandrino, in particolare i mandrogni (combinazione!), fino all’avvento della grande distribuzione, raggiungevano i nostri boschi e qui soggiornavano in ripari di fortuna per almeno una settimana: si dedicavano a raccogliere, previo accordo coi proprietari, i ricercati frutti. Il loro arrivo era un evento atteso da tutta la comunità.
Anche per gli abitanti autoctoni era normale andare a raccogliere le castagne, selezionarle, stoccarle, per conservarne un po’ per la famiglia ed un po’ per la vendita. Non si ha notizia certa della prevalenza della farina di castagne nell’alimentazione e nella cucina locale, rispetto a quella di cereali (né si conoscevano ricette di primi piatti impastati con farina di castagne, o di dolci, quali il castagnaccio), ma è sicuro che anche questo piccolo-grande smercio sosteneva in qualche misura l’economia famigliare.
La conservazione delle castagne era affidata agli abèighi (ricoveri, traslitterato in italiano in alcuni toponimi come albergo), ai margini del bosco dove il prodotto essiccava lentamente al calore di un fuoco morto, ossia senza fiamma viva, a brace molto bassa. Si procedeva quindi alla battitura; una piccola quantità di frutti secchi veniva posta in un sacco da battere su una superficie dura (sasso o ceppo): per agevolare la separazione della buccia dal frutto ottenuta poi con l’utilizzo del valu (vaglio di vimini). Un altro sistema era la curatura, più nota come novena, perché per nove giorni le castagne venivano tenute immerse nell’acqua. Per quanto possa apparire strano, questa pratica, oltre a separare le castagne non commestibili (che venivano a galla), garantiva ai frutti alcuni mesi di conservazione.
Fin qui la tecnica. Una volta contrattato peso e prezzo, le rinomate castagne di Vargo potevano essere caricate per raggiungere i mercati. Non era inusuale sentir parlare di questa nostra eccellenza sotto i portici di Novi, specialmente il lunedì, che era il giorno di incontro dei mediatori, piuttosto che al mercato alimentare del giovedì, dove i nostri frutti sui banchi non arrivavano (al più sarebbero arrivati nelle botteghe di qualche bisagnéin [fruttivendolo, dal genovese torrente Bisagno, lungo il quale erano i campi dove si coltivava per la città frutta e verdura]).
Ecco spiegato perché i venditori richiamavano l’attenzione dei potenziali acquirenti strillando: «Castagne di Vargoooo!!!» come richiamato dal titolo di questo articolo.
Una consuetudine diffusa nell’intera comunità varghese era la questua delle castagne: si faceva durante la novena preparatoria alla ricorrenza dei Defunti (2 novembre). Ogni capofamiglia donava alla locale Confraternita della Trinità, perché fosse poi rivenduto, uno staio di castagne. Con il ricavato si facevano celebrare messe in suffragio dei defunti, specialmente durante l’Ottavario, ossia gli 8 giorni successivi a questa ricorrenza. Il periodo iniziava, secondo il Calendario Liturgico tradizionale, già il 1° novembre, appena terminata la celebrazione del Vespro della solennità di Tutti i Santi. Con un impianto teologicamente perfetto, si collegavano liturgicamente i vivi ed i morti. Si può ben immaginare che non tutti i capifamiglia aderissero con entusiasmo, ma che comunque non si sottraessero alla volontaria offerta di castagne per non sfigurare dinnanzi alla comunità: magari però facevano ricorso a piccole astuzie, causa di sospetti e pettegolezzi. Si narra infatti di capifamiglia che all’arrivo dei questuanti, facevano trovare le castagne già belle pronte all’interno di uno staio fornito di doppiofondo, così da far sembrare colmo un recipiente che, al massimo, lo era per metà (la stessa cosa pare avvenisse per la questua – sempre annuale – del grano, che andava al Parroco per il sostentamento della Parrocchia).
Prima che cali definitivamente il buio anche su queste piccole spigolature di storia minore, mi piace ricordare la figura del varghese di adozione Giacomo Sale. Era un bracciante che prestava servizio presso le cascine del paese. Comunemente era conosciuto come Méin (Mino, Giacomino) d’à caséina (della cascina). A Vargo era arrivato perché adottato da qualcuno che lo era andato a prendere a Sale (paese vicino a Castelnuovo Scrivia e a Valenza), dove, ad inizio Novecento, era ancora in funzione la ruota per i bambini rifiutati: la sua origine era rimasta impressa nel cognome scelto per lui (Sale, appunto). Non aveva frequentato le scuole, essendo stato subito messo a lavorare. La domenica mattina partecipava alla Messa e per darsi un po’ di tono faceva finta di leggere i testi dal messale. Ad orecchio aveva però imparato, la Liturgia delle Ore, l’Ufficiatura che veniva cantata prima della funzione. Durante il suo lavoro nei boschi, ricordavano gli anziani varghesi, lo si sentiva “cantare” a squarciagola storpiando il Miserere o salmodiando a modo suo litanie non propriamente allegre. L’effetto doveva essere inquietante specie per chi, sul far della sera, si fosse trovato nel bosco ignaro delle abitudini canore del soggetto. Resta comunque il fatto che, tra un salmo e l’altro, aveva preso l’abitudine di prelevare dal rio, uno alla volta, dei grossi sassi, e con questi aveva costruito un essiccatoio per castagne, poco distante dall’inizio della salita che doveva percorrere per giungere, dopo oltre 1 km e mezzo, alla cascina Rughé. Pare che allo stesso modo abbia portato pietre anche nelle cascine vicine, per costruire o riparare qualche altro porticato.
Bellissimo articolo