I Molinari del Lastrico. Terza puntata
Foto in evidenza: Piero Molinari nel 1946
Circa gli ascendenti della “nonnina” Angela non so, salvo che quando nel ’58 io ero nata, lei aveva chiesto che mi chiamassi come sua mamma.
E di buon grado papà aveva acconsentito in quanto avendo spesso avuto difficoltà col nome Pierangelo era ben deciso a dare nomi semplici e brevi: fossi stata un maschio sarei stata Ugo. Poi, gli era piaciuta la palindromia e se Ada fosse stata un maschio si sarebbe chiamato Otto.
Tutti ci scambiavano per gemelle anche se molto diverse (io bruna e lei bionda; lei, pur più piccola era alta quanto me). Eravamo la gioia della mamma, spessissimo sola, e l’orgoglio del papà.
Le nostre vacanze erano fisse: la prima quindicina di agosto a Capannette di Pey, all’albergo Tambussi, dove da ragazzo papà si recava in bici con amici ed erano ospitati dalla signora Teresa che offriva loro il latte di montagna appena munto e dove io stessa riconosco una parte della mie radici.
Piero aveva fatto assumere alla Schiapparelli un caro amico e quando ci fu un po’ di “maretta” in azienda, ostinatosi a prenderne le difese s’impuntò licenziandosi d’impeto.
Quella sera tornò smarrito da Pinuccia, che seppe far buon viso a cattiva sorte. C’era la possibilità di riprendere un lavoro in farmacia, in proprio: vinse un concorso e nel ’65 rilevò la farmacia di Predosa (negli anni precedenti trascurata dai gestori e dunque svalutata) e la “rilanciò”: con grinta e pazienza.
Fu molto stimato e poi anche amato dai clienti. Fu a lungo vicepresidente dell’Ordine (rifiutò sempre il ruolo di presidente e quando non fu rieletto, fu in quanto non più candidatosi).
Collezionista (mobili, oggetti, monete) per natura, lo divenne anche di vini.
Nel retro della farmacia, in cantina, si creò un mondo: Enofarm o nel dialetto locale “ra me canva”: poster spiritosi, curiosità di antiquariato e libri antichi eran frammisti alla collezione di vini, ciascuno conosciuto per la sua provenienza e la sua storia; l’apertura della bottiglia (spesso assai datata) era un Rito.
Dal ’65 all’85 per Piero e Pinuccia non vi furono ferie/vacanze (tra i vari motivi, anche il fastidio per le prassi burocratiche implicate dal concordare il periodo prescelto). Io (quasi otto) avevo superato lo “strappo” da Serravalle e Ada (sei) si era trovata benissimo in Predosa.
Dal ’69 nei primi anni ’70 Pinuccia soffrì grossi problemi di salute e di un quadro depressivo. Intanto noi ragazze eravamo diventate adolescenti, poi liceali. Nel ’77 ci fu il mio grave incidente e lui riuscì a difendersi lavorando in farmacia senza mai smettere. C’era tantissima angoscia e anche preoccupazione per Ada, diciassettenne lasciata a se stessa …
Insperatamente io recuperai bene.
E recuperò anche Pinuccia.
Vennero in seguito alcuni anni sereni per la coppia. Noi ragazze a Genova in università, le lauree, le mie nozze nell’86. Poi nell’88 l’ictus ischemico, l’emiplegia sinistra, il periodo di riabilitazione a Montescano con la Pinuccia sempre presente. Dopo mesi dallo stroke agli amici che con lui si rammaricavano delle condizioni di invalidità, diceva soddisfatto “però ho avuto una buona vita e ho fatto quasi tutto quello che ho voluto!”
Nel giugno ’90 le nozze di Ada (accompagna emiplegico la seconda figlia all’altare).
Tra il ’91 e il ’95 i cinque nipoti. E ad ogni nascita il nonno si faceva un ascesso dentario con lo sconto dell’ultima volta, perché fu un parto gemellare!.
C’era una familiarità elevatissima in casa del genero, ma Piero aveva citato anche casi di gemellarità nel gentilizio suo.
Dopo lo stroke le vacanze, per Piero vissute in spensieratezza, eran divenute una irrinunciabile abitudine, pur tardiva. Sardegna, Marche, ma soprattutto mare di Calabria.
Lucio, Maria Vittoria, Emma, Cecilia e Bianca: i bambini avevano riempito gli ultimi anni. Di Lucio e di Bianca il nonno era padrino.
Avevano recuperato la casa parentale di Pinuccia a Varinella, dove in estate si affollavano i bambini e lui aveva rispolverato antiche piacevoli frequentazioni ed amicizie.
Era l’estate 2000. Piero diceva sempre “da ragazzi scommettevamo: chi arriverà al 2000? io sapevo, ero certo, che ci sarei arrivato… non come tanti miei compagni…”. Un dolore alla spalla si era fatto insistente: coccole di Pinuccia, massaggi, fisioterapia, poi la “macchia” alla radiografia, la TC senza contrasto e le incertezze e le speranze, poi la TC con contrasto, inequivocabile.
Carcinoma bronchiolo-alveolare, “firmato” dai pacchetti di Nazionali con filtro fumati durante le attese nelle sale mediche o durante le partite a carte nel bar.
Gli piaceva il day hospital settimanale in ospedale per la chemioterapia endovenosa (era stata scelta una monoterapia poco invasiva perché il quadro era già molto avanzato) dove socializzava con pazienti e parenti. Pinuccia era onnipresente e indispensabile; la “badante” equadoriana che gli avevamo messo al fianco era servita essenzialmente a distrarre Piero che si interessava alle curiosità del paese centramericano. Andavano a trovarlo, come già dodici anni prima nel post ictus, amici di gioventù, amici degli anni a Torino, colleghi farmacisti e predosini affezionati e gli affezionati nipoti; lui restò ironico e brillante fino quasi all’ultima settimana, quando l’astenia e l’affanno respiratorio lo portarono a rinunciare alla vita sociale.
Ero reperibile anche quando papà era in edema polmonare. E dovetti affidarlo alle mani esperte ed affettuose del suo curante, il dottor Domenico Moro che ringrazio per il bene che gli ha voluto e per il ricordo che ne conserva. Si era nell’ultima settimana. Papà mi chiese quanto realisticamente gli restasse e ricordo di aver risposto “… difficile dirlo … giorni? settimane? mesi?” e lui “ma più probabilmente?”; mentii dicendo “settimane” perché mi pareva duro da accettare che fossero solo giorni. Lui fece verbalmente un testamento essenziale: raccomandò solo a noi due sorelle di essere sempre in accordo e di accettare quello che avrebbe deciso la mamma. Tornai a casa e per fortuna non fui chiamata in reperibilità: la mattina dopo andai prestissimo in ospedale perché intendevo uscire presto e in realtà mamma ci sollecitò anche prima dicendo che andava male e diedi verbalmente le consegne al collega pomeridiano nel parcheggio. A Predosa in casa c’erano già Ada e Pinuccia e il dottor Moro, che rimase come un figlio fino a tarda sera: impotenti intorno a Piero cachettico e tachipnoico che lottava con la fame d’aria. Non si lamentava e alla mia domanda rispondeva “No, dolore no”. Chiesi a Domenico di fargli un po’ di morfina per ridurre l’affanno respiratorio e lui si avvicinò alla flebo. Pa’ aveva gli occhi liquidi di morente, ma intravide di sottecchi il movimento “Dottore, cosa fa?” “Aggiungo un po’ di calmante, d’accordo con Anna” “Anna pensi alle cose sue ! Raush !” Così quando anche il curante e Ada se ne andarono e Pinuccia spedì a dormire la Ilda ecuadoriana (i nostri consorti, dopo aver pensato alle pratiche burocratiche essenziali, erano tornati alle rispettive case per la notte con i bambini), non mi rimase che coricarmi nell’altra stanza (la cameretta che avevo abitato tanti anni) a pregare: pregavo sua mamma, suo papà, sua nonna, la sorellina ed i fratelli, che lo accogliessero presto in serenità … lo affidavo loro, maltollerando di ascoltare la tachidispnea. Pinuccia mi ha detto di avergli tenuto la mano sino all’ultimo, quando lui la aveva lasciata dicendo in serravallese “Auva lasme ‘ndò”. Tuttora mi sembra un bellissimo congedo. Papà diceva “non posso proprio lamentarmi di niente … ho fatto ciò che ho voluto e tutto quello che mi è toccato, in fondo me lo sono voluto” La mattina dopo scendevo in paese e la notizia era già corsa e incontrandomi una vicina sempre alquanto burbera mi disse che “ciò che conta è il ricordo che si lascia e lui lascia un gran ricordo”.