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Una gaffe micidiale


Avevo da poco ricevuto un nuovo incarico e collaboravo con la psicologa del lavoro che teneva un corso di formazione per capi intermedi, variamente articolato.
Le cose andavano a gonfie vele, perché la dottoressa era una giovane donna bravissima, che sapeva catturare l’attenzione in tutti i sensi, vuoi perché lei era molto attraente e vuoi, soprattutto, perchè il corso lo avevamo preparato talmente bene che, gli intermedi, di solito refrattari a queste novità, dimostravano invece un sicuro interesse e partecipavano attivamente sia alle lezioni che alle esercitazioni di problem-solving.

Ecco il punto: il mio compito era quello di immaginare e descrivere delle situazioni critiche, la cui soluzione più brillante avrebbe dovuto necessariamente passare attraverso quello che io chiamavo intuito e che la psicologa si ostinava a definire “pensiero laterale”.
Era, in apparenza, una bella contraddizione di termini: da una parte s’incitavano i partecipanti ad affrontare i problemi con metodo, ad analizzare i dati traendo da essi, e solo da essi, lo spunto per progettare la soluzione di qualsiasi problema. Dall’altro invece si faceva di tutto affinché la fantasia, l’estro la capacità d’immaginazione d’ogni “capetto” desse risultati all’istante.
Di molto effetto era una specie di favoletta che la psicologa tramutava in un problema da risolvere e riguardava un progetto di frode da sventare senza sputtanare il truffatore, rivolgendogli direttamente ed immediatamente contro l’effetto del suo stesso trucco.
In altri termini si proponevano dei problemi reali di cui, però, i soggetti non avessero esperienza diretta, con assoluta scarsità di dati, chiedendo loro di far viaggiare il cervello a velocità di crociera..
Accadeva il finimondo. Il brain-storming diventava una specie di happening. Si diffuse la voce in azienda che durante le ore di formazione i “capetti” si divertivano da matti. Il fatto poi che avessero preso l’abitudine, contraria al solito di lasciare il lavoro con qualche minuto d’anticipo rispetto al previsto, per recarsi in aula, loro che avevano sempre liquidato questo tipo di formazione come “la solita cazzata dei perditempo”, provocò le curiosità delle alte sfere.

Alle quattro del pomeriggio d’un uggioso venerdì d’ottobre del novanta, infatti, il dottor Fiorentino, direttore dello stabilimento, fece la sua comparsa in aula mentre il sottoscritto questionava di brutto con un cinquantenne “so-tutto-io” sulle tecniche di controllo d’un incendio da gas liquefatto.

Il direttore s’accomodò in mezzo ai capi intermedi senza interrompere la discussione e facendo cenno a quelli che s’alzavano per salutarlo di restare al loro posto e rinviare i convenevoli a dopo. Il punto era: l’incendio da gas si deve tentare di spegnerlo oppure controllarlo, fin a raggiungere la valvola d’erogazione e serrarla? Non è importante e non ricordo se riuscii a convincere quel capo sulla convenienza d’usare la seconda tecnica. Non ricordo nemmeno perché, però, nel corso del “battibbecco” sorse un ulteriore problema che prese il sopravvento rispetto al primo: durante le periodiche esercitazioni antincendio, disse qualcuno, c’era un vano che finiva sempre per allagarsi. Era chiamato, nel gergo della fabbrica, “il tombino delle pompe”.

Esercitazione pratica di spegnimento incendio

Per quasi un’ora se ne analizzarono i motivi. Un altro capo propose di affrontare questo problema usando il diagramma di Ishikawa, una specie di “albero delle cause” ante litteram. La discussione che ne seguì portò alla individuazione di una causa scatenante e tre concause che, verificate seduta stante con un sopralluogo, si dimostrarono esatte e furono eliminate il giorno dopo.
Il direttore appariva effettivamente compiaciuto e continuava ad ascoltare le varie considerazioni che la psicologa gli sussurrava.

Diagramma di Ishikawa (o diagramma di causa – effetto)


Partì da lì l’estensione di quel metodo di formazione per tutte le funzioni aziendali.
Qualche tempo dopo, alla presenza dei vertici aziendali, mi toccò presentare il programma di formazione ai Servizi Tecnici e volli raccontare della rapida e brillante soluzione individuata dai “capetti” all’annoso problema dell’allagamento. Nel parlare al vasto uditorio, pronunciai la fatidica frase “tombino delle pompe” e non capii il perché dell’immediata ilarità dei presenti.
Succede, quando parli in pubblico, che basti un niente per mandarti nel pallone, se solo fissi l’attenzione sull’espressione di uno solo degli astanti. Immaginatevi quindi, quale sforzo dovetti fare per ignorare quell’aria di presa in giro generale. Evitai di guardare in direzione del direttore e non cercai spiegazioni nello sguardo della dottoressa. Proseguii nella mia esposizione con fare professionale riuscendo a catturare l’attenzione di tutti. Mentre cambiavo i lucidi sul ripiano della lavagna luminosa m’accorgevo di quanto le mie mani sudassero, indice d’un disagio che mi stava opprimendo. Ancora una volta nel discorso riapparve il fatidico “tombino” e puntualmente arrivarono le risate, le sghignazzate addirittura. Mi fermai e arrabbiato e urlai: “ma cosa ci trovate da ridere? Sapete tutti cos’è il … e qui la tensione del momento mi indusse inconsciamente ed una inversione di termini, attribuendo alle pompe un diminutivo e trasformando un innocuo tombino in una funerea immagine di “tombe”: la mia invettiva contro la superficialità del mio uditorio divenne una pecoreccia battuta.
Cavoli che papera!
Ora conoscete uno dei motivi che hanno reso proverbiali, nel mio ambiente, le mie, chiamiamole così, distrazioni.

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Benito Ciarlo

Calabrese di Montalto Uffugo (CS), dov'è nato nel 1950. Vive a Serravalle Scrivia (AL) dal 1968.