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Odori e profumi del novecento serravallese

Ci sono aspetti che albergano nella nostra memoria che difficilmente possono essere descritti e ancor meno possono essere fotografati o immortalati in un video. Il ricordo della nostra infanzia spesso dilata, solitamente in positivo, qualsiasi momento del passato si affacci nella nostra mente. Spesso si ascoltano frasi venate di malinconia tipo “Non ci sono più i sapori di una volta” che inquadrano “l’ieri” in una sorta di età dell’oro irripetibile. E questo forse può essere vero, giacché nel campo dell’alimentazione sono in commercio cibi o bevande spazzatura a basso prezzo, causa di patologie varie, prima fra tutte l’obesità. Ma solo in parte, perché così come con l’età s’indeboliscono la vista e l’udito anche il gusto e l’olfatto non sono più quelli che ci aiutano in gioventù ad esplorare il mondo.

Guardando i filmati o le immagini proposte da Chieketé effettivamente si riesce ad ottenere la percezione della realtà serravallese ormai sepolta nel secondo millennio. Visi, industrie, edifici e negozi suscitano nei vecchi commozione e nei giovani, si spera, curiosità. Tutto è ovviamente legato alla nostra percezione visiva e laddove è possibile ascoltare suoni o musiche anche grazie a quella uditiva. Ma c’è un senso che ben difficilmente potrà essere solleticato: l’olfatto. Ebbene sì, cari lettori, Serravalle aveva nei decenni trascorsi odori e profumi che in tutta evidenza non esistono più e non possono essere, oggi, assolutamente percepiti.

Operaie della Fidass

Oggi, risalendo in bicicletta dal cimitero nuovo lungo via Fabbriche sono transitato sotto il voltone della ferrovia. Un tempo quella svolta ti permetteva di annusare uno dei profumi più deliziosi presenti nella nostra umana dimensione: il cioccolato. Era questo un profumo dolcissimo, quasi euforizzante, che usciva dalle macchine della FIDASS, acronimo dell’industria dolciaria, morta nel 1980, che sta per Fabbrica Italiana Dolciumi e Affini Serravalle Scrivia. Vi lavoravano là dentro settecento persone, per lo più donne e, per i bambini delle elementari, l’essere portati in visita all’interno di quelle mura era un privilegio unico, coronato spesso dal vittorioso possesso di qualche caramella o cioccolatino.

Operaie della Gambarotta

Un odore differente, molto più apprezzato dal mondo degli adulti, specie se di sesso maschile, era quello che si percepiva lungo il viale della stazione: quello delle vinacce utilizzate per fare la grappa. Il vento si divertiva spesso a spanderlo generosamente anche lungo l’asse viario principale, suddividendolo fra le vecchie case di via Berthoud ed i nuovi palazzi di viale Martiri. Questi aromi terpenici provenivano dalla Gambarotta, fabbrica anch’essa deceduta negli anni ottanta del secolo scorso. Io ero un bambino e non avrei saputo distinguere se si era in presenza di aromi primari, secondari, terziari o quaternari dovuti alle differenti preparazioni dei vari distillati. Chissà se qualche adulto ci riusciva? Si trattava un odore dolciastro, fruttato, a volte pungente e per me, allora, fastidioso. Lo avvertivi altresì quando le vinacce erano trasportate verso la fabbrica, violacee alla vista e mollemente adagiate sui camion da trasporto.

Altro odore al limite del nauseabondo per un bambino lo annusavi nei pressi dell’acqua di zolfo. Quella fonte, attualmente scomparsa, era al tempo frequentata da tutto il paese, sulla sponda destra del torrente, fra il lago dei cavalli ed il ponte della Madonnetta.

L’acqua di zolfo

Ci si accedeva da una carrareccia subito dopo il ponte, sulla destra andando verso il Lastrico, e si snodava in giù in basso per raggiungere il greto della Scrivia. L’acqua di zolfo, dalla puzza quasi luciferigna, era considerata taumaturgica per ogni tipo di malanno: “dalla diabeta” ai “mò cativu” e da “a presiòun ota” a “e fegatu” non altrimenti specificato. Davanti ai due cannelli di ferro, quasi piantati nella roccia, bisognava mettersi in fila per poterla raccogliere in taniche o bottiglie. Mio nonno mi ci portava in bicicletta, portando con se due borsoni di finta pelle nera, entro i quali, terminate le operazioni di riempimento, collocava tre bottiglioni da due litri l’uno per ogni borsa. L’amore per quella fonte rasentava l’idolatria ed una volta che fui scoperto con un rametto ficcato dentro uno dei due cannelli per vedere l’altro zampillare con maggior forza, un vecchio, raccolto un ramo, mi bastonò sulla bocca. Sanguinavo ma quello era furente; “Ti la caci nderé, brutu mbecile; csì an vena pù” e non contento mi urlò dietro mentre scappavo “và e dilu a to pupà!”.

Ora si finirebbe sui giornali, ma allora era una società diversa.

Baccalà

Altra puzza era quella del pesce. Lo trovavi, prepotente, in via Berthoud di venerdì, quando per i cattolici era giorno di magro. Ai solitamente quotidiani polli e salame, Carletto ed il Cisculo mostravano l’alternativa dei tranci di baccalà stesi fuori dai propri negozi come panni al sole. Ma quell’odore di umido ti arrivava in bocca anche dalle gerle dei pescatori, dove il vimini intrecciato tratteneva a stento arborelle e quaiastri ancora guizzanti, rapiti al fiume da canne e bilance.

Per contro un profumo deliziosamente bianco arrivava di primo mattino dai forni del pane e della focaccia dei vari Botta, Albinio, Rava, Grossi  e Mattino inondando a mezzogiorno le case di tutti, tranne la domenica, perché sabato notte era giorno di riposo.

Di tutt’altro tenore era il penetrante odore del difenile quando, specie d’estate, lontano dalle piogge, il Comune provvedeva alla disinfezione delle strade con l’apposita autobotte.

E poi altri odori: quello della segatura passando davanti al negozio del Cide, del cuoio nei pressi di quello di Speranza e delle bombole del gas di Campastro e Brugnatelli.

E infine mi piace ricordare due odori dal sapore trash appartenenti a due dei tre gironi di pasoliniana memoria nel film “Salò e i 120 giorni di Sodoma”: i gironi della merda e del sangue. Il primo ti si attorcigliava alla gola se non potevi fare a meno di entrare nei cessi della stazione e della piazza del mercato, dove io ero solito gareggiare idealmente con Maiorca per riuscire a pisciare in apnea.

Salo e i 120 giorni di Sodoma

Il secondo, l’odore del sangue, proveniva inquietante dal mattatoio, posto dove ora c’è la caserma del carabinieri. Spenti, con la pistola sparachiodi, i muggiti delle povere bestie, il loro sangue colava lungo salita Cappuccini e grazie ad un condotto giungeva in Scrivia, poco più a valle del ponte della Madonnetta, dove brillavano argentei i dorsi delle arborelle giunte, affamate e fameliche, in veri e propri banchi. Ma, dopo tali schifezze, per addolcirvi un po’ la bocca e regalarvi un mezzo sorriso, voglio concludere questo racconto con un episodio che vide Mario Titolo protagonista proprio durante la visione cinematografica di quel film.

Io e Mario andammo al cinema e sfiga volle di capitare davanti alla proiezione di «Salò» di Pier Paolo Pasolini: un film tremendo, angosciante. La sala era in preda a un disagio profondo, scavato con violenza dal grande regista italiano al punto che ogni tanto il silenzio di ghiaccio in platea veniva rotto da qualche conato di vomito. In quel buio freddo e doloroso, dopo le immagini del «Girone del Sangue», il commento ad alta voce di Mario all’apparire del «Girone della Merda» fu accolto da tutto il pubblico con un boato liberatorio: «Fioi, a sema in ti nostri!»

Riccardo Lera

"Io nella vita ho fatto tutto, o meglio un poco di tutto" (Uomo e galantuomo di Eduardo De Filippo) Pediatra, scrittore per diletto, dal 2002 al 2012 assessore alla cultura di Serravalle Scrivia; ex scadente giocatore, poi allenatore e ora presidente del Basket Club Serravalle.

Un pensiero su “Odori e profumi del novecento serravallese

  • se posso suggerire un addendum a questo simpatico articolo, ricorderei anche il caffé di Piacentino. Durante la tostatura il profumo si spandeva dal laboratorio, all’angolo fra viale Martiri e via Gramsci, per in bel pezzo intorno.

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