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Cronaca da Bratislava

La jungla di gru non si ferma mai a Nivy, il quartiere nato ad uso e consumo delle multinazionali che hanno deciso di stabilirsi a Bratislava. Giganteschi bracci di metallo, che lavorano sette giorni su sette, hanno modificato lo skyline di una città che sembra crescere il doppio del Paese. Nel giro di pochi, pochissimi anni, un pugno di grattacieli è sorto attorno a quella che, traduzione alla mano, era stata, secoli fa, una piana alluvionale. La vicinanza con il Danubio, il placido fiume su cui si distende la capitale, non lascia dubbi.

L’acqua, però, ha ceduto il passo al cemento. Quello trendy, firmato Zaha Hadid. Due torri con vista sulla nuova stazione dei bus. Centri commerciali ad ogni angolo e gli uffici, anzi, i palazzi, delle tante aziende che hanno trovato, in questo crocevia d’Europa, il luogo giusto per stabilire i loro “centri”. Li chiamano in questo modo perchè non si tratta di veri e propri quartieri generali, quanto di enormi distaccamenti delle sedi continentali. La grande fuga da Madrid, oppure da Milano, e la corsa all’Est. Alla ricerca della flat tax e dei costi del lavoro inferiori. Nivy, con la sua “Manhattanization”, è il simbolo concreto. La trasformazione di una città, non certo una metropoli, che accoglie a braccia aperte centinaia di giovani in arrivo dai Paesi mediterranei. Neppure la pandemia, seppur con significativi tagli, ha fermato questo flusso continuo di neo laureati e ragazzi disillusi, che salutano la terra d’origine per uno stipendio e un’occupazione decente. Spesso nascosta dentro complesse shortcut che abbondano su Linkedin. La speranza: riuscire ad accedere nel mondo del lavoro dopo anni di precariato e part time. La paura: entrare in un loop che consenta solo di spostarsi di pochi metri da una company all’altra. Tradotto. Fare esperienza per tornare a casa resta privilegio per pochi.


Gli stranieri, è vero, ma non solo. L’afflusso di manodopera impiegatizia ha spaccato la Slovacchia. C’è Bratislava, liberal ed effervescente. Sede universitaria con caffè, club e birrerie che aprono a ritmi frenetici. Dove i prezzi per un appartamento farebbero sbiancare le agenzie immobiliari di Portofino e Santa Margherita. Dove i salari garantiscono un tenore di vita medio. Una volta oltrepassata la piana che si apre tra i Piccoli Carpazi e i distretti circostanti, però, sembra di attraversare un confine invisibile. Gli altri centri capozona non possono trattenere la loro meglio gioventù. Košice, cuore di quell’Est orgoglioso e tradizionalista, soffre una lotta impari con la rivale. Non bastano i cartelli pubblicitari che spuntano, di tanto in tanto, ai lati dell’autostrada e che invitano i loro ragazzi a tornare a lavorare ad Oriente. La migrazione interna prosegue. Troppe diseguaglianze salariali e di opportunità. In una nazione che, a differenza dell’Italia, vive della diatriba Ovest – Est, l’unica scelta per restare a vivere tra i Tatra e una natura che lascia senza fiato si chiama smartworking. Un benefit poco esteso, al momento.


Il boom slovacco è in larga parte figlio di due date simbolo della recente storia della giovane repubblica. 1 maggio 2004, l’ingresso nell’Unione Europea. 1 gennaio 2009, l’addio alla Corona per l’adozione dell’Euro. Visti i tempi, forse è meglio ricordare anche un altro giorno. Ovvero il 29 marzo del 2004. L’entrata nell’Alleanza Atlantica, l’estensione della Nato verso i confini orientali. Confini che consentono sicurezza e protezione da Mosca. Confini attraversati da oltre 900mila persone dallo scorso febbraio. Non un esodo, quanto un infinito transito. Si stima che, tra tutti i profughi passati tra Vyšné Nemecké e gli altri valichi, meno di 100mila abbiano deciso di stabilirsi in Slovacchia. Gli altri optano per mete più lontane. Francia e Germania su tutte.

Chi entra nel circolo delle multinazionali accede ad un ambiente, nella gran parte dei casi, informale e giovanile, che si scontra con quello grigio e paludato degli uffici di casa nostra. Con un po’ di fortuna, si riescono a dosare, durante la giornata lavorativa, momenti di stress ad altri dove, tra un caffè e una chiacchierata, si parla di esperienze comuni. Perché, è bene ricordarlo, il background di molti giovani che sono atterrati all’aeroporto “Stefanik” con due valigie in mano e mille dubbi in testa, è quasi sempre lo stesso. Alla ricerca di un qualcosa talmente scontato che in Italia, Spagna, Grecia, sembra non esistere più. Contratto fisso, stipendio decente, ritmi bilanciati che consentono di potersi ritagliare del tempo libero che, in alcune realtà del nostro Paese, appaiono sempre più come un oasi nel deserto. Per chi è amante dei viaggi, inoltre, non vi è meta migliore. Le compagnie low cost si appoggiano a Bratislava e alle vicine Vienna e Budapest e vagare per l’Europa Centro – Orientale (senza dimenticare i Balcani) diventa a portata di tutti.

Aziende giovani e alla moda, è vero. Ma anche dei grandi porti di mare, dove relazioni e amicizie possono durare lo spazio di un mattino. Il turnover è elevato, la vasta gamma di opzioni consente, a chi ama questo tipo di lavoro, di potersi muovere rapidamente dentro e fuori le compagnie. Per gli altri, la situazione è un po’ più complicata e allora ci si tuffa in qualche hobby che possa alleggerire la mancanza. Come la scrittura.
La nostalgia del proprio paese natale si sente, come è normale che sia. Alla vivacità e all’ambiente multiculturale descritto, fanno da contraltare il caos di una capitale che sta correndo a un ritmo forsennato verso uno smodato consumismo. Le sigle delle marche americane di abbigliamento a basso costo si illuminano all’angolo di ogni strada. Impossibile tenere il conto dei centri commerciali che spuntano ovunque.

Basta qualche metro quadrato di terreno libero e subito i rumori sordi di mattoni e cemento iniziano a rimbombare dopo qualche giorno. E se il centro storico resta un piccolo gioiello mitteleuropeo, bastano poche fermate di tram per percorrere il proprio viaggio indietro nel tempo. Grigi palazzi di stampo socialista, da una parte e dall’altra del placido Danubio, accolgono schiere di automobilisti che procedono a singhiozzo per entrare in città. La frenetica corsa verso il lusso che la globalizzazione può offrire, alla quale possiamo aggiungere quella voglia da “tutto e subito” tipica di chi ha sofferto una chiusura dittatoriale per decenni, spinge i consumi, e i prezzi verso l’eccesso. Nulla li ferma, nemmeno la pandemia, che ha portato ad un aumento, ad esempio, del valore degli immobili. Il rischio di vivere in una bolla speculativa, dopo l’esperienza americana di pochi anni fa, è reale.

Vista con occhi esterni, seppur non distaccati, sembra che non ci si renda della velocità con la quale Bratislava stia crescendo. Perché se è vero che i cantieri non smettono di nascere e le aziende ricercano nuovi dipendenti a ciclo continuo, le crisi, pandemica ed energetica, bloccano i salari di molti lavoratori, rischiando di far collassare un sistema troppo bello per essere vero. E allora, nonostante un’esperienza di vita importante dal punto di vista formativo e lavorativo, viene da chiedersi se davvero il nostro borgo di Serravalle sia proprio da buttare. Incastonato tra il verde delle colline, eppure vicino ai grandi centri urbani. Non troppo lontano da considerarsi sperduto, non troppo vicino da reputarsi periferia. Tra mare, monti e piana. Tutto, passeggiando tra i filari di viti che lo circondano, sembra a portata di mano. I servizi primari non mancano, i collegamenti nemmeno. E a chi si oppone, evidenziando come nelle metropoli europee l’offerta, qualunque essa sia, non ha paragoni rispetto ai villaggi di provincia, occorre controbattere che la qualità della vita, magari più “lenta”, ma meno stressante, resti un parametro importante da considerare quando si è posti di fronte alla scelta del dove stabilirsi.

In sintesi, concentrandosi sull’argomento “lavoro”, la domanda da porsi resta una sola: vale la pena sacrificare la vicinanza all’ufficio con una vita da pendolare, per poi godere di un’esistenza a un ritmo meno frenetico nel tempo che ci resta? Quesito difficile ma dopo oltre un lustro vissuto, citando Adriano Celentano, “tra catrame e cemento”, molto più chiaro rispetto a un piovoso giorno di sei anni fa. Forse è vero. Osservare le cose dalla giusta distanza aiuta ad avere una visione più chiara dell’insieme.

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