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Capanne

Foto in evidenza: Capanne di Cosola

Fino alla metà degli anni ’70 ai miei genitori non era mai passato per la testa il concetto di vacanza.
Al massimo qualche giornata al mare mordi e fuggi e una serie di scampagnate nei dintorni.
Se oggi mio papà avesse vent’anni sarebbe sicuramente ipertecnologico: già allora bramava e si accaparrava qualsiasi piccola novità in commercio. Nel ’74 eravamo pronti con la tv a colori anche se i colori scorrevano solo in noiosissime prove di trasmissione con immagini di fiori e paesaggi, eppure l’idea di stare fuori casa per una settimana non lo sfiorava nemmeno.
Poi d’improvviso l’idea di ferie era entrata di prepotenza nelle nostre vite, forse sull’onda delle chiacchiere tra mia nonna e l’amica Livia, nonna della Monica Cerutti, oggi titolare della bella enoteca in Via Berthoud.

“I me’ i fitta n’apartamaintu ae Cabane, gni anche vui otri!”

La casa di Capanne di Cosola oggi

Le Capanne di Cosola erano di gran moda: a un’oretta di macchina da Serravalle, i 1500 metri di altitudine ne facevano di diritto una località di montagna. La vicinanza in linea d’aria al mare in realtà crea un clima non esattamente da altura, all’epoca però gli effetti del cambiamento climatico erano lungi a venire e quando a casa si scoppiava dal caldo, lassù non si boccheggiava e di notte non schifavi quasi mai la copertina.
Così dallo zero giorni di vacanza, quando avevo più o meno 9 o 10 anni, mi ero trovata a trascorrere quasi ininterrottamente con mamma e sorella i mesi di giugno, luglio e agosto alle Capanne, con papà che ci raggiungeva nei fine settimana.

Occupavamo un piccolo appartamento riscaldato a legna in una palazzina aggrappata tra la strada e la scarpata a strapiombo verso Cosola, per cui sembrava che noi, abitanti del livello più alto, vivessimo a piano terra mentre sotto c’erano, come succede per esempio in Liguria, altri due piani seminascosti.

Bibi Raviolo e Monica Cerutti

Oltre che di genovesi, Cosola e le frazioni superiori erano dagli anni ’60 una vera e propria enclave di serravallesi e novesi. Al nostro arrivo il gruppo era numeroso e, se le mie sensazioni di bambina non mi ingannano, anche abbastanza chiuso.

Bibi Raviolo alle Capanne


Si trattava di villeggianti “bene”, piccoli industriali e imprenditori, negozianti d’alto rango e impiegati di banca, allora attività di sommo grado, che ci tenevano a mantenere la loro isola felice il più intonsa possibile.
Non parlo di tutti, ma per molti vigeva il vecchio Piemonte style: etichetta e galateo, saluti e sorrisoni di cortesia, stentata propensione a mischiarsi con altri “generi”. A me non importava, anzi: ero lieta di avere a disposizione una nutrita fauna di personaggi da osservare.
Il massimo spasso l’avevo raggiunto con la comparsa di un medico in là con gli anni e molto popolare tra i vacanzieri, presentatosi in compagnia di una signora che non era la moglie, dalla quale pare fosse separato. Il fatto di per sé dava adito a accese conversazioni e nel grande dehors dell’albergo gestito dalla famiglia Callegari, centro nevralgico di tutta la comunità, registravo bizzeffe di commenti e espressioni di sdegno e perplessità. Quello che però faceva letteralmente impazzire il gossip era il look della donna, anche lei anzianotta, in jeans attillati, t-shirt striminzite e, guaio peggiore, un cortissimo taglio di capelli ossigenati fino all’osso e un vistoso rossetto rosso melagrana. Davanti una profusione di salamelecchi (“Tant’è l’è ‘n megu di na certa impurtansa”), dietro si ascoltavano improbabili versioni della storia fra i due e giudizi a sproposito sulla mise della donna (il più gettonato: “Ma an ghe l’à vergogna? L’è tropu vegia per vestiste lì csì!”).
A discolpa dei commentatori, devo ammettere che in fondo tutti quanti dovevamo in qualche modo far passare il tempo in un posto dove il tempo non finiva mai.

Le sorelle Raviolo

Avevo perso il conto delle camminate tra i sentieri verso i monti Chiappo, Ebro eccetera che scalavo come una capretta senza nessuna fatica e offrivano prospettive di vallate in smaglianti tonalità di verde e blu.
C’era legna da accatastare e le schite pavesi con la ricetta che ci aveva insegnato il papà della Monica: un misto tra focaccia e piadina, deliziose quando la cambusa scarseggiava e non avevamo voglia di scarpinare fino all’unico e lontano negozio.
C’erano giornate dedicate alla raccolta di lamponi e fragole selvatiche che facevano gongolare dalla goduria, ma alla fine il rimedio numero uno per quella mole di tempo libero consisteva nel martoriare le orecchie dei vicini con la racchetta da tennis.
Non avendo un campo a disposizione e spesso neanche un compagno di gioco, mi accontentavo dei muri di casa che facevo rimbombare senza tregua.

Un’altra àncora di salvataggio mi veniva lanciata ogni mattina dall’edicola mobile, una Seicento verde stinto nella quale era rimasto solo il posto del conducente mentre il resto dello spazio era ricoperto da giornali, riviste e fumetti. Si inerpicava da Cabella o da Cosola e passava in rassegna una ad una le case e gli alberghi fino a Pian del Poggio. Era un uomo in carne, dagli occhi bovini che mai ho visto scendere dall’auto, incastrato lì dentro come gli omini delle macchinine per bambini.
Potrei scommettere che eravamo i suoi migliori clienti, perché come sempre mamma non lesinava sulla carta da leggere e le Settimane Enigmistiche da completare.

Ai primi di agosto però cambiava tutto e il consesso serravallese/novese entrava in fibrillazione, l’atmosfera si faceva frizzantina e carica di tensione per l’annuale torneo di bocce che prevedeva la finalissima il giorno di Ferragosto.
Non ho mai capito se all’iscrizione si presentassero squadre predefinite o se ci fosse un sorteggio ma il clima era quello palpitante del calciomercato di precampionato.
Oltre a un bocciatore, testa di serie, per una squadra occorrevano un altro giocatore e una donna, spesso assoldata all’interno delle famiglie delle stesse teste di serie.
Da Serravalle spiccavano i quotatissimi e temuti Giovanni e Aurelio Dalla Fiore e da Novi i fratelli Cabella dell’ex fornace.

Da sinistra Marina Raviolo, Monica Cerutti,
Bibi Raviolo e Alberto Calissano

Della nostra palazzina erano parecchio ambiti Giuseppe Romairone, frequentatore abituale della bocciofila in piazza Matteotti e Paolo Gaggero, un signore sui sessant’anni, nostro dirimpettaio. Genovese fino al midollo, indossava con un certo fascino camicie a quadri da boscaiolo. Slanciato, passo da bersagliere, baffetti alla Zorro e sguardo ammiccante, era il ritratto di Sean Connery in età avanzata.
Unico cruccio, condiviso con la moglie, una donna mite e discreta, era che la figlia avesse sposato un brillante e squisito giovanotto invece dell’ingegnere (come si fa a disdegnare il matrimonio con un ingegnere?) figlio della Scia’ Elena, una novantenne dai modi aristocratici parcheggiata in albergo per mesi dallo stesso figlio che in questo modo si guadagnava un meritato periodo di pace.

Da sinistra i Signori Calissano, Giorgio Raviolo, Bibi Raviolo, Marina Raviolo e Alberto Calissano

Le partite attiravano al giardino dell’albergo una moltitudine di villeggianti, assiepati alla ringhiera sovrastante il campetto di gioco. Le sedie erano merce rara e se te ne accaparravi una dovevi tenertela incollata al sedere per non perdere nemmeno uno dei teatrini goliardici dei giocatori, che gareggiavano per puro divertimento.
Anche Aurelio Dalla Fiore scendeva in campo rilassato e con spirito decoubertiano. Giovanni al contrario alzava e abbassava in continuazione gli occhiali, la fronte gli si imperlava e le vene pulsavano per gli errori grossolani dei suoi compagni di avventura. Composto e garbato nella vita, in gara proprio non gli andava di perdere e, se in squadra lo affiancava la malcapitata figlia, si lasciava andare, per la gioia del pubblico, a quello che oggi chiameremmo uno spudorato mobbing.
Noi per campanilismo tifavamo Romairone e Gaggero che, da vecchio lupo di mare, quando era necessaria una giocata di vitale importanza, si faceva avanti guasconamente esclamando per scaramanzia “Cruxe de beccu restighe seccu!

Capanne di Cosola e i suoi campi da bocce

I pomeriggi scivolavano via tra colpi sordi di bocciate andate a segno, applausi e granatine, portando a casa alla fine anche una discreta abbronzatura e qualche ustione di terzo grado.
Talvolta invece, causa maltempo, le partite, rigorosamente segnalate su tabellone con orari e slittamenti di programma, si giocavano in recupero un po’ a tutte le ore e, come a Wimbledon, con il telone steso sull’erba, gli spettatori attendevano pazientemente seduti sotto rifugi improvvisati.

La finale vedeva quasi puntualmente almeno un Cabella vincente, avendo schierato oltre alle due coppie di genitori tutta la prole al gran completo.
La sera l’albergo e il piazzale erano stracolmi di gente in festa per le premiazioni con coppe e medaglie che consacravano definitivamente gli adulti nel pantheon delle bocce locali e profetizzavano per i giovani un roseo futuro di tornei da disputare.
Oltre alla pentolaccia per i più piccoli, concludevano la serata polenta concia e vin brulé, perché alla metà di agosto l’estate era ormai ai titoli di coda.
Ancora una manciata di giorni e avremmo dismesso maglioni e piumini per rituffarci nella vita reale di Serravalle.

Tornata a scuola, dovendo riassumere le vacanze appena trascorse mi ero ricordata di aver captato qualcuno definire “stilizzata” una statua della Madonna posta sulla vetta di non so che monte sul quale ci eravamo arrampicati. La parola mi era piaciuta ma di certo non l’avevo assimilata a fondo perché scrissi “sterilizzata”, aggiudicandomi la prima riga rossa della maestra Montessoro in quinta elementare.