10 giugno 1945 – I funerali dei Ragazzi della Benedicta
Ricordati di non dimenticare
(Nuto Revelli)
Il rastrellamento della Benedicta, con il successivo eccidio, fu uno degli episodi più tragici e sanguinosi di tutta la Resistenza italiana.
147 partigiani vennero fucilati, altri caddero in combattimento. 200 ragazzi furono deportati a Mauthausen e pochissimi fecero ritorno.
Serravalle fu particolarmente colpita: 19 ragazzi, tutti tra i 19 e i 24 anni, uccisi nei giorni successivi al Rastrellamento o deportati e deceduti in campo di concentramento.
Sul rastrellamento una vasta bibliografia forte di decine di studi, ricerche, documentari, memorie. Anche Chieketè se ne è occupata, con particolare attenzione alle vicende dei ragazzi di Serravalle Scrivia.
Con questo contributo vogliamo invece offrire qualche ulteriore notizia su due aspetti particolari: l’oltraggio ai cadaveri, che i nazifascisti impedirono di recuperare e di riportare a valle, e i funerali che poterono quindi avvenire soltanto dopo la Liberazione.
QUASI CENTO PARTIGIANI FUCILATI E INSEPOLTI
Quasi tutti i caduti originari di Serravalle furono fucilati il 7 aprile 1944 nei pressi del cascinale della Benedicta dove morirono 97 partigiani (o 98, le fonti non concordano). I ragazzi vennero fatti uscire a gruppi di cinque dalla cappella del cascinale, dove erano stati in precedenza rinchiusi, e condotti poco lontano per la fucilazione.
Racconta Giuseppe Odino, scampato alla fucilazione, all’epoca residente a Serravalle dove svolse un’intensa attività di reclutamento partigiano:
“Ci hanno chiamato, al mattino, cinque alla volta. Io ero nel quinto gruppo, dal ventunesimo al venticinquesimo. […] Dopo la curva sulla destra ho cominciato a vedere cinque morti, di Serravalle, che era poi il mio gruppo che conoscevo meglio. […] Anche lì, si ha delle sensazioni, perché… […] Io vedevo un certo Chiappella, di Serravalle, tutto sporco di sangue evidentemente.
La mia impressione… Mi sembrava impossibile… L’hanno impiastrato di rosso per farci parlare noi… […] C’hanno schierato là […] e lì c’era il plotone d’esecuzione… tempo neanche d’essere in fila e c’han tirato… e… Io sostenevo un partigiano […] praticamente l’ho tenuto su e m’ha salvato lui […]. E son caduto giù, e questo me lo son portato dietro, involontariamente [e mi sono salvato] (Testimonianza di Giuseppe Odino).
Decine di corpi di giovani ragazzi vennero lasciati praticamente insepolti.
I pericoli di inquinamento erano enormi, anche perché nel luogo delle fucilazioni scorreva un piccolo ruscello che scendeva sino a valle e contribuiva ad alimentare gli acquedotti dei paesi vicini. Nonostante questo, i nazifascisti impedirono a chiunque di avvicinarsi. Per cercare di ovviare all’inquinamento delle acque, decisero di far intervenire una squadra di disinfestazione dell’Ospedale Militare di Alessandria.
Ne faceva parte Franco Barella, novese, poi partigiano della Divisione Pinan Cichero, che così raccontò quella terribile esperienza:
“Io ero militare, ero all’ospedale di Novi, e hanno fatto una squadra disinfezione. Siamo arrivati qui alla Benedicta il giorno sette, alla sera. E l’indomani mattina scortati da un sottoufficiale ci hanno portato alle fosse.
Per noi è stata una cosa tremenda, perché la prima cosa che abbiamo visto è stato su un ramoscello un berretto in finta pelle tutto stracciato, colpito dai proiettili, e poi una mano che sporgeva fuori dalla fossa rosa dai topi…
E allora abbiamo cominciato a tirare fuori i cadaveri dalle fosse, naturalmente a mani nude perché non c’erano guanti né niente! Solo un fazzoletto davanti alla bocca perché si cominciava a sentire l’odore e soprattutto il tormento di nuvole di mosche di tutte le qualità che si avventavano su questi cadaveri (Testimonianza di Franco Barella).
I giovani fucilati furono sommariamente sepolti e cosparsi di calcina dal reparto di sanità, che ben presto per ordine dei Comandi tornò alla base.
PARENTI E AMICI RAGGIUNGONO IL LUOGO DELL’ECCIDIO
La notizia del rastrellamento arrivò a valle quasi in tempo reale perché i rapporti fra i partigiani e le famiglie non si erano mai interrotti (venendo meno a elementari norme di sicurezza, il che fu tra le cause del disastro). Inoltre, il via vai di truppe e mezzi nazifascisti era evidente e continuo e lasciava presagire il peggio; infine, nei paesi di fondo valle arrivarono anche notizie dirette dai fortunati che erano riusciti a passare indenni e rapidamente fra le maglie dell’azione nazifascista.
I familiari tentarono subito di recarsi alla Benedicta ma furono respinti. Tuttavia le truppe nazifasciste restarono in zona solo pochi giorni e, una volta che ebbero abbandonato il terreno, amici e parenti raggiunsero alla spicciolata il luogo dell’esecuzione. Fra i primi ad arrivare, furono i genitori di Enrico e Pietro Grosso, accompagnati dal figlio minore, il quattordicenne Michelangelo che così racconta quel drammatico momento:
“Mia mamma ha avuto subito la percezione che i suoi figli fossero stati fucilati, e subito si è disperata dicendo: andiamo, andiamo perché stanno uccidendo Enrico e Pietro.
[…] Siamo arrivati proprio alla Benedicta dove abbiamo trovato le fosse con tutti questi cadaveri… Mi ricordo benissimo che vi era una ragazza molto giovane che si dava da fare per ripulire tutti questi caduti in queste tre fosse che vi erano… Mentre mia mamma, di temperamento più forte, li puliva e cercava di aggiustarli, mio babbo, probabilmente perché era debole di cuore, non ha visto niente, è svenuto… (Testimonianza di Michelangelo Grosso).
Se i nazifascisti non poterono impedire a lungo alle tante persone che intrapresero la via della Benedicta di raggiungere il luogo dove i partigiani erano stati uccisi, non concessero però loro il permesso di recuperare le salme e di riportarle a valle.
Ai giornali fu proibita la pubblicazione di qualsiasi necrologio e neppure i sacerdoti poterono stendere i loro atti di morte. Nell’Archivio Parrocchiale di Serravalle, nel registro dei decessi del 1944 non c’è menzione dei Ragazzi della Benedicta. Soltanto dopo la Liberazione la mano pietosa di Monsignor Luigi Guerra aggiunse un foglietto in carta velina con i loro nomi e la data e il luogo di morte, che resta come un prezioso documento a testimonianza di quella tragedia.
Dei caduti si doveva perdere memoria, di loro non doveva restare traccia.
Anche questo atto di oltraggio ai caduti e alle loro famiglie rappresentava in realtà un elemento costitutivo del rastrellamento.
Oltre all’annientamento delle formazioni partigiane attive, i rastrellamenti nazifascisti avevano infatti almeno altri due scopi: fiaccare il morale dei giovani renitenti per impedire che andassero a ingrossare le fila partigiane e creare un clima di terrore fra la popolazione per dissuaderla da ogni forma di aiuto e assistenza alle formazioni. Una strategia che si fondava anche su atti terribili e disumani, come quello attuato sui corpi dei giovani uccisi alla Benedicta, che però non di rado sortirono l’effetto opposto.
CROCI DI LEGNO PER UN CIMITERO PROVVISORIO
I parenti e gli amici dei partigiani fucilati nella zona intorno al cascinale della Benedicta – quasi tutti giovanissimi, intorno ai vent’anni – poterono dunque offrire ai loro Cari solo una sepoltura sommaria. Fu quello che fece anche la mamma di Pietro e Enrico Grosso, aiutata da Martina Scarsi, una antifascista ovadese, e dall’amica Egle Canepa, giunte coraggiosamente e fra le prime sul luogo dell’eccidio:
“Partimmo e andammo avanti senza più fermarci sino a giungere finalmente al luogo dell’eccidio. Incontrammo per primo un prete domenicano, vestito di bianco, si aggirava attorno a quelle fosse e sembrava pregasse. Poi, subito dopo, incontrammo una donna con addosso un grembiulino bianco e in mano una bottiglia d’alcool e del cotone. Non lontano, un uomo stava seduto su di una pietra e lui stesso, immobile, pareva una pietra. E poi vicino alla donna c’era un bel ragazzo di 12-13 anni con occhi azzurri e capelli ricci e nerissimi. Era in piedi e non diceva nulla. Eravamo soli, in tutto sei persone vive in mezzo a tanti morti trucidati dalla barbarie nazista.
Mi avvicinai a un albero. Era da tempo un albero secco e vidi in terra tanto sangue e poi dei pezzi di cranio. Uno spettacolo spaventoso.
Ritornammo poi vicino ai genitori di quel ragazzo. Aiutammo quella povera donna. Il padre non era più in grado di fare qualcosa. Era impietrito. Stava solo e guardava nel vuoto. Anche il ragazzo continuava a rimanere immobile e ci guardava.
La madre, rivolgendosi ad uno dei suoi figli che aveva scoperto massacrato dai nazisti chiedeva: – Enrico dove lo hai lasciato? Dove è tuo fratello? – Era mamma Grosso di Serravalle Scrivia che aveva lasciato lì due dei suoi figli. L’unico rimasto ora in vita era quel ragazzo.
Li aiutai a ripulire il volto irriconoscibile del primo figlio individuato e poi insieme continuammo a cercare l’altro suo figlio. Finalmente lo trovammo. Con tutta la volontà e tutte le mie forze aiutai a pulire bene con l’alcool e cotone il volto dei figli di mamma Grosso e cercammo di ricomporli nel migliore dei modi (Testimonianza di “Martina” Scarsi)
Secondo un documento manoscritto conservato nell’Archivio Comunale di Serravalle Scrivia questi fatti si svolsero fra il 13 e il 15 aprile 1945.
I corpi furono sepolti in bare di fortuna costruite con legname trovato sul posto o donato dai contadini delle cascine vicine. Nei giorni successivi le famiglie si procurarono bare di legno e zinco e seppellirono i loro Cari in un cimitero improvvisato, segnando le tombe con una semplicissima croce in legno a indicare il luogo della sepoltura.
Le spoglie di quei cento ragazzi rimasero nel luogo della fucilazione per oltre un anno e poterono essere portate a valle solo dopo la Liberazione.
Il recupero delle salme fu piuttosto complesso e dovette rispettare precise norme igienico-sanitarie.
Anche il trasporto a valle dei corpi fu difficile a causa dello stato delle strade. Il percorso più praticato per scendere dalla Benedicta fu quello attraverso sentieri che congiungevano Capanne di Marcarolo ai Laghi della Lavagnina. Le bare vennero caricate su lese trainate da buoi e, giunte nel piazzale antistante la diga, caricate su camion e trasportate nei paesi d’origine dei ragazzi.
Il recupero si svolse in più riprese, fra il giugno e il settembre 1945, e fu organizzato quasi sempre dai Comitati di Liberazione dei paesi di residenza dei partigiani caduti.
10 GIUGNO 1945: I FUNERALI DEI FUCILATI A SERRAVALLE
A Serravalle le bare giunsero venerdì 9 giugno 1945. Lungo l’itinerario Benedicta-Voltaggio vennero utilizzate le lese, e poi con i camion il trasporto proseguì verso Gavi per arrivare a Serravalle, dove vi fu un primo momento di accoglienza a Porta Genova; successivamente le salme vennero sistemate in piazza Paolo Bosio per la veglia.
I funerali solenni, accompagnati dalla banda cittadina, si svolsero sabato 10 giugno. Per l’occasione, il Sindaco dispose che tutti i negozi rimanessero chiusi. Il sindaco dell’epoca era Giacinto Guareschi, padre di Marco, catturato alla Benedicta e deportato a Mauthausen, da dove non fece ritorno.
Della cerimonia esistono una documentazione fotografica e qualche testimonianza.
La testimonianza più vivida è quella di Gian Cravero, che ricorda l’enorme partecipazione popolare e il clima di grande commozione di quella triste giornata di giugno:
“MI ricordo che quando sono arrivati li avevano portati tutti in piazza Porta Genova e poi di lì li hanno portati in piazza Paolo Bosio. E mi ricordo tutto questo traffico che c’era….
Il funerale l’ha celebrato don Guerra, ma lì è dove l’ho visto piangere don Guerra. Piangeva! Proprio profondamente piangeva quando sono arrivati questi ragazzi, che i più tanti erano tutti ragazzi della Casa del Giovane, tutti ragazzi che venivano lì. Mi ricordo che c’erano i fratelli Grosso che ci insegnavano a giocare a pallone che noi eravamo piccoli, me li ricordo…
Suo cugino! Come si chiamava… Tutti ragazzi che venivano qui, Casa del Giovane l’hanno chiamata dopo, prima era circolo Santo Stefano. (Testimonianza di Gian Cravero)
Quasi inesistente invece la cronaca giornalistica. In quegli anni il mensile della parrocchia La Buona Parola non veniva pubblicato, e diversi giornali locali erano stati chiusi per le passate collaborazioni con il regime fascista. Negli archivi digitali dei giornali locali siamo riusciti a trovare solo un breve articolo pubblicato dal settimanale diocesano Il Popolo.
Il settimanale cattolico, nell’articolo pubblicato il 16 giugno 1945, ricorda l’omelia di Monsignor Guerra pronunciata “con voce rotta per l’emozione”, e la grande e composta folla che partecipò alle solenni esequie:
Ritornano le salme ai paesi di origine. Il gruppo più compatto è quello di Serravalle Scrivia; il paese, industrioso e ospitale ha accolto i suoi martiri con esemplare compostezza nel dolore.
La popolazione, commossa, al loro passaggio ha circondato in un muto rispetto le lagrime dei famigliari. Troppe madri in lagrime in un piccolo paese!
LA CAPPELLA DEI MARTIRI
la Cappella-Mausoleo dei Fucilati e Deportati
Come sottolineava Il Popolo, Serravalle fu uno dei centri della Valle Scrivia più segnati dal dramma dell’eccidio che colpì, direttamente o indirettamente, molte famiglie (qui cerchiamo di spiegarne le ragioni).
Subito dopo la Liberazione, uno dei primi atti della nuova Giunta Comunale nominata dal Comitato di Liberazione intese rendere onore ai giovani partigiani fucilati. Nella seduta del 28 aprile 1945, la prima dopo la resa dei nazisti, venne stabilito di di costruire “un’artistica tomba ove saranno collocate le salme dei Martiri caduti per il II Risorgimento […] ad eterna memoria del loro sacrificio“.
La Cappella fu costruita in tempi rapidissimi con finanziamento pubblico e attraverso una sottoscrizione popolare, così da essere pronta per il giorno dei funerali.
Quattordici mesi dopo l’eccidio, i Ragazzi della Benedicta poterono finalmente trovare riposo nella Edicola-cappella costruita per loro dalla cittadinanza serravallese.
In collaborazione con l’ANPI di Serravalle-Stazzano, stiamo cercando di “restituire” un nome a ciascuno di questi 39 volti
Onore e ricordo perenne a questi martiri innocenti.. NO A TUTTE LE GUERRE
Bellissima testimonianza. Grazie per averla pubblicata.