Libarna al tempo di Nerone, in pieno boom economico
Ci trasferimmo a Libarna nel 63 d.C., l’anno prima che Roma andasse a fuoco per colpa dei Cristiani o per mano dello stesso Nerone. Se ne parlò talmente tanto che sembrò anche a noi Libarnesi di sentire l’acre odore di bruciato provenire da oltre le colline che ci separavano dal mare. Forse il fumo, rimasto dentro alle navi ostiensi trasportato poi sulla Postumia dagli abiti intrisi dei tanti commercianti di passaggio, aveva alimentato nelle nostre menti la paura che un disastro simile potesse verificarsi anche nella nostra bella e laboriosa cittadina. Provenivamo dal ravennate, mamma Laura, pater Andrea, Rienzo fratello maggiore ed io. Mosaicisti da molte generazioni eravamo stati chiamati da Viosus, un nostro cugino imprenditore, che ci aveva voluto per pavimentare le domus del quartiere dell’anfiteatro. Le stava costruendo per poi venderle ai tanti che cercavano abitazioni in cui avviare qualche attività redditizia. In quel periodo nello Stato Romano ed in Libarna era in atto un forte incremento dell’economia.
Effettivamente il giorno in cui arrivammo, notammo subito un gran fermento di gente indaffarata in mille imprese, sia di scambio che di ammodernamento ed ampliamento del tessuto urbano. La Via Consolare Postumia, nelle ore di punta, era una interminabile fila di carri che trasportavano ogni mercanzia edilizia, alimentare, per l’arredamento della casa ecc. Nostro cugino ci venne a prendere a Derthona con un mulo su cui caricammo le nostre mercanzie. Ricordo che il giorno stesso in cui passammo sotto all’arco di ingresso cittadino e sostammo nel foro, mio padre volle subito andare a vedere i locali che avremmo dovuto pavimentare.
La mattina seguente all’alba eravamo già al lavoro. Libarna non poteva aspettare, il progresso ed il commercio bussavano insistentemente alle porte. Ogni giorno di ritardata apertura delle attività corrispondeva a sesterzi persi a vantaggio di chi invece aveva già avviato le proprie taberne, caupone, popine, fulloniche, laboratori artigianali. ecc. Il nucleo centrale repubblicano della città si stava espandendo verso la periferia all’interno di tre corsi d’acqua, l’Olubria, il Rio Picareto ed il Rio Gamberi (Pieve) che ne delimitavano i confini naturali. I sesterzi circolavano a fiumi, non si badava a spese per la costruzione delle ricche domus. Era importante far bene ed in fretta il lavoro per soddisfare nostro cugino ed i compratori che attendevano impazientemente di potersi sistemare. Pavimenti che sembravano tappeti, affreschi murari che simulavano arazzi. Più erano sfarzosi ed eleganti più la casa acquistava valore e più trovava acquirenti.
I primi tempi lavoravamo venti ore al giorno, mangiavamo in piedi e dormivamo sul posto di lavoro per finire in fretta e passare ad un nuovo mosaico da posare. Se il proprietario comprava la casa prima che fosse finita nei suoi interni era lui a scegliere il motivo decorativo, altrimenti ci pensavamo noi ricordando i tanti mosaici fatti nelle case di Ravenna. Si andava da scene della mitologia classica, soprattutto greca, a disegni geometrici o inerenti l’attività commerciale intrapresa dal proprietario. Un classico era la rappresentazione di un cane da guardia posto nel vestibolo, dopo la porta d’ingresso, oppure la decorazione dei tanti larari domestici. La tecnica consisteva nello stendere un sottofondo cementizio sul quale veniva dipinta la scena prescelta, posavamo quindi le tessere, le stuccavamo e le levigavano in superficie.
A dipingere i soggetti erano artisti locali. I più capaci erano tre sorelle, schiave di un certo Malbrutus, così detto per il suoi modi, che intascava i loro compensi. Bigia, Antonia e Maria erano talmente brave da eseguire in un battibaleno il disegno, a carboncino e gesso, senza doverlo mai ritoccare. Una tracciava il primo schizzo, un’altra lo completava, la terza lo abbelliva. Sei mani affusolate, agili, veloci e baciate dalla Dea Fortuna in sintonia con tre menti fantasiose, eclettiche e miti.
Erano le più richieste sulla piazza locale e con loro il risultato era garantito. Scherzavamo e mangiavamo insieme, terminato il disegno ci aiutavano a dividere le tessere per colore e dimensione in attesa che Malbrutus venisse a recuperarle. Aveva forse paura che le sue macchine da soldi venissero rapite. Con i lauti guadagni si permetteva di viaggiare su una grande lettiga, all’ultima moda, trasportata da otto schiavi africani ciclopici.
Passavamo da una casa all’altra insieme alle tre sorelle e ai colleghi che si occupavano di cocciopesto (opus signinum) o di intonaci affrescati. Spesso ci chiamavano anche per il restauro di mosaici nelle vecchie taberne dove, per il continuo calpestio, si consumavano le tesserine di marmo. Con la nostra squadra poliedrica e precisa nei modi e nei tempi, soddisfacemmo anche i clienti più difficili ed esigenti. L’unico lavoro, che ci lasciò un po’ di amaro in bocca lo eseguimmo nel tablino della casa del medico, detto Ippocratus per le sue abilità professionali. L’enorme domus, proprio di fronte all’anfiteatro, ospitava spesso gladiatori feriti durante i combattimenti che Ippocratus cuciva come un abile sarto. Tessera dopo tessera componemmo per lui il famoso mito di Licurgo.
Lo avevamo eseguito già alcune volte; purtroppo però, con li medico, ci fu un malinteso e dovemmo riparare in qualche modo per non dover rifare tutto da capo.
Il mito racconta che Ambrosia, nutrice di Dionisio (Dio del vino e dell’ebrezza), inseguita e afferrata dal Re trace Licurgo, invoca la Dea Terra. Questa la riceve nel suo grembo trasformandola in vite i cui germogli avvolgono il re soffocandolo.
Pensammo di far bene rappresentando Licurgo cinto e imprigionato da una pianta di vite come avevamo sempre fatto. Il medico lo avrebbe invece preferito con la sola Ambrosia al centro, trasformata nella vite e attorniata dalle sue foglie e da putti. Fu così che dovemmo cambiar un po’ le carte in tavola in corso d’opera e alla fine, per volere del proprietario, Licurgo venne estromesso dal mosaico. Come se non bastasse ci giunse notizia che, dopo un po’ di tempo, la moglie di Ippocratus volle posizionare una fontana al centro del pavimento, rovinando così per sempre la nostra ammirevole opera musiva.
In quel periodo la città fu un cantiere continuo che vide la costruzione anche dell’anfiteatro. A proposito di questo ci fu una squadra di specialisti che, nel giro di pochissimi anni, portò a compimento l’edificio pubblico più amato dal popolo. Un nostro mosaico con una scena di caccia impreziosì il suo ingresso. L’arena venne inaugurata con una festa memorabile, con gladiatori giunti da Genua e Derthona. Prima del suo inizio ci fu il ringraziamento ufficiale da parte delle autorità a tutti gli operai che avevano preso parte alla sua realizzazione. Furono anni di sacrificio e molto lavoro però avemmo il piacere di veder la città ampliarsi anche grazie al nostro operato. Molti artigiani, qui affluiti da varie parti del nord d’Italia per prendere parte al grande sviluppo cittadino, decisero di rimanervi, innamoratisi del luogo ameno e redditizio. Tutti si costruirono, o come noi, si comprarono una casa . Le domus venivano edificate tenendo conto delle regole vitruviane (un autorevole architetto autore di vari manuali). Erano tutte ben costruite, sfarzose e provviste a piano terra di attività commerciali molto frequentate dai tanti viandanti, commercianti ed avventori dei giorni festivi, attratti dalle rappresentazioni teatrali e dagli spettacoli dell’arena. Si susseguirono gli imperatori Nerva, poi Traiano mentre noi eravamo sempre lì a soddisfare le esigenze di chi voleva un capolavoro di pavimento da mostrare agli ospiti e dove posizionare i triclini per cene pantagrueliche. Un bel giorno Malbrutus passò a miglior vita proprio dentro alla sua lettiga. Rimproverando a squarcia gola, a suon di frustino, i suoi schiavi portatori per i sobbalzi, fu colto da un colpo apoplettico, per la gioia di chi lo conosceva e sopportava.
Le tre sorelle, schiave disegnatrici, rimasero improvvisamente senza proprietario. Prima che altri venissero a conoscenza della cosa fummo noi a comprarle, pagando una considerevole cifra all’erario, visto che Malbrutus non aveva eredi. Concedemmo subito a Bigia, Antonia e Maria lo stato di libertà facendole venire ad abitare con noi. Costituìmmo tutt’insieme una piccola cooperativa. Adottati poi alcuni bambini orfani, formammo anche una bellissima famiglia “allargata” di artigiani sopraffini che lasciarono un segno indelebile a Libarna. Sui nostri manufatti camminarono per secoli i suoi abitanti ignari come noi, che un giorno, le uniche cose a rimanere della città, sarebbero stati proprio i nostri mosaici. Vi prego! Oggi, voi che visitate l’area archeologica romana, quando vedete un mosaico o quelle tesserina di marmo, ricordatevi del nostro glorioso passato ed onorare il vostro presente lasciando ai posteri altrettanta bellezza e magnificenza con tanto amore per il vostro lavoro, la vostra città, la vostra gente.