LIBARNA “CAPUT MUNDI” RACCONTATA DA UN LIBARNESE
Nascendo nel 1956 ho avuto la” fortuna ” di crescere in una Serravalle in cui era un vero piacere abitare.
Nonostante ora il paese sia in difficoltà, continuo ad avere una grande affezione verso il mio borgo natio.
Mi capita spesso di sognare il suo risorgere in storie dove divento il protagonista di una Serravalle lontana nel tempo, quando il suo nome era Libarna. Nel mio narrare ho cercato di documentarmi facendo riferimento a fatti e testi storici, in particolare quelli dell’Archeologa Silvana Finocchi. La grande domus ad atrio, la caupona (trattoria), la fullonica (lavanderia/tintoria), il grande tempio ed altro di cui parlo sono realmente esistiti e sono visitabili nell’area archeologica. Essendo però i miei racconti tratti da sogni, la fantasia è stata libera di viaggiare tra mito e realtà, restituendo una cittadina romana forse come avrei voluto che fosse… chi lo sa…Buona lettura, soprattutto ai nuovi studenti della scuola primaria.
Il mio nome è Minucio; nacqui il giorno seguente le calende di ianuarius nell’anno 956 dalla fondazione di Roma (203 dC) in una cittadina della Nona Regio, dal nome Libarna. Furono i miei nonni a volermi chiamare come il console romano Quinto Minucio Rufo a cui si arrese nel 561 (191 aC) il popolo dei Liguri che abitavano stabilmente la bassa Valle Olubria. Ebbi i natali e crebbi in una lussuosa domus affacciata sul decumano massimo, a pochi metri dall’anfiteatro. Libarna era una cittadina gradevole e tranquilla. Era stata costruita nel primo luogo pianeggiante che si incontrava scendendo dalle aspre colline che la separavano dal mare. Attraversata nel 605 (148 aC) dalla Via Consolare Postumia, che univa Genua alla Pianura Padana, si trasformò da villaggio ad urbe grazie al grande passaggio di commercianti e viandanti che vi cercavano riposo ristoro e svago.
I miei primi anni di vita li passai scorrazzando in una grande abitazione, tra l’impluvium dell’atrio e il peristilio, rincorso ed accudito dalle schiave di casa. Oltre che della domus eravamo proprietari anche di tre taberne, facenti parte dello stesso stabile, gestite dai miei genitori e di una caupona data in affitto, sita nell’angolo dell’isolato verso il foro cittadino. Avevamo ereditato questi beni dai nostri avi che si erano arricchiti grazie al commercio di tutto ciò che arrivava dalla Val Borbera: legna da ardere, latte, formaggi e miele. La nostra famiglia apparteneva alla classe sociale degli Equites (Cavalieri); più importanti ed influenti di noi erano i Nobiles (Nobili), tutte le altre persone meno agiate costituivano la Plebe. C’erano poi gli schiavi, circa un terzo della popolazione (circa un migliaio), costituita da prigionieri di guerra, debitori insolventi e bambini abbandonati che costituivano la forza lavoro su cui si basava l’economia romana e senza i quali lo stato non avrebbe avuto modo di prosperare ed esistere. Anche noi eravamo proprietari di alcuni schiavi che si occupavano di un po’ di tutto: dalle faccende domestiche al rifornimento delle nostre taberne alle stalle ecc. Erano stati acquistati, prima che io nascessi, nel foro cittadino. Alcuni di loro erano di origine nordafricana, altri provenivano dall’est dell’impero. Calimera, lo schiavo prediletto da mio padre, era greco, erudito e saggio; lo serviva e lo accompagnava ovunque. Ancora bambino mi sedevo fuori casa dove l’atriensis non mi perdeva mai di vista.
Mi divertivo ad osservare il passaggio sul decumano dei venditori ambulanti che strillando in un latino volgare decantavano la loro merce: pelli di animali, lana di pecora, calzari in cuoio, acciarini, anfore di terracotta. Spesso m’intrufolavo all’interno delle nostre rivendite, mi nascondevo tra gli otri di vino ed i sacchi di pesce secco da dove spiavo i clienti impegnati negli acquisti. Vendevamo un po’ di tutto, dai generi alimentari, al vestiario, agli oggetti per la casa di cui ci rifornivamo nelle due città più vicine: Genua, che distava dodici ore di mulo con un percorso tortuoso e disagevole, e Derthona che si raggiungeva facilmente in mezza giornata. La nostra specialità, per cui ci eravamo fatti conoscere nel circondario, era un garum pregiato e molto apprezzato: il flos floris, ricco di sangue di tonno, comprato direttamente dai pescatori di Boccadasse.
Nei giorni di festa si riversavano in città gli abitanti della campagna circostante che invadevano le taberne, le popine e le caupone.Tutti facevano affari d’oro e a fine giornata contavano i sesterzi che finivano nei tanti forzieri ostentati negli atri delle sontuose domus cittadine. Libarna, sorta alla confluenza delle Valli Olubria e Borbera, attorniata da copiose acque, da fertili pianure e da colline ricche di selvaggina, costituiva un piccolo mondo dove l’economia prosperava e dove non mancava niente per vivere bene in armonia con una natura generosa. Chiunque avesse avuto un po’ d’iniziativa non avrebbe avuto difficoltà a sbarcare il lunario senza troppa fatica. La presenza in città delle terme, del teatro e dell’anfiteatro attiravano una moltitudine di avventori ricevuti a braccia aperte dai commercianti. Abitare, come noi, nei pressi dell’anfiteatro significava essere spesso immersi in una folla oceanica che c’invadeva desiderosa di assistere ai ludi gladiatori e alle venationes. In quelle giornate le nostre taberne, venivano prese d’assalto. A tarda serata tante facce barbute coniate su metalli preziosi trasbordavano dal nostro cassetto. Da camera mia udivo gli squilli di tromba ed il rullio dei tamburi che davano inizio ai giochi. Non tardava ad arrivare il boato di più di settemila spettatori che, sgranocchiando fichi secchi e focacce dolci, incitavano i lottatori e gioivano alla vista del loro sangue.
Il teatro sito alla periferia nord, nei pressi di Porta Derthona, era riservato ad un pubblico più erudito. I miei genitori, insieme alla Libarna bene, ne erano assidui frequentatori e difficilmente si perdevano una rappresentazione tratta dalla cultura classica ellenistica. Le commedie degli autori romani Plauto e Terenzio, divertenti e coinvolgenti, attiravano tanti spettatori anche tra il popolino, così da fare spesso il tutto esaurito, con oltre tremilacinquecento spettatori.
Nel tardo pomeriggio di ogni giorno ero costretto a rimanere con Corinta, la schiava che mi aveva allevato. A quell’ora la città si svuotava, tutti si recavano alle terme dove in ambienti a diversa temperatura, uomini e donne passavano ore, oziando con gli amici, dopo una giornata di lavoro. Il calidarium e il tepidarium erano frequentati soprattutto nella stagione rigida per beneficiare di un po’ di tepore, mentre durante la calura estiva ad essere presa d’assalto era una grande piscina, il frigidarium, per le sue acque fresche provenienti dall’acquedotto del Rio Borlasca. C’erano anche una sala per i massaggi, per i bagni di vapore ed una piccola biblioteca dove, col permesso di mio padre, si dilettava in letture impegnate il colto Calimera.
Il foro, cuore pulsante della città, centro economico religioso e politico, distava da noi poco più di un isolato. Mio padre, che in passato era stato Duoviro, vi si recava quotidianamente come gran parte dei libarnesi. In prossimità del grande tempio, tra questo e la statua di Settimio Severo, incontrava altri facoltosi commercianti e proprietari di laboratori artigianali. Discutevano di affari e di finanza oltre a commentare gli ultimi spettacoli tenutisi nell’arena e nel teatro.
La prima volta che mi recai nel foro ero in compagnia di mio padre e di Calimera. Varcato un austero arco di trionfo mi ritrovai in un enorme spazio lastricato attorniato completamente da un porticato. Sul lato est spiccava un palazzo dal quale proveniva un acre odore di carni e di selvaggina: era il macellum. Verso Porta Genua, non lontano dall’imponente tempio dedicato alla triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva, si elevava l’edificio più importante della città, la Basilica, sede dell’ amministrazione cittadina e del tribunale.
In quello stesso giorno, verso Porta Derthona, nei pressi della grande fontana del foro, tra i molti banchi di ambulanti, si era radunata una piccola folla attorno ad un carro sul quale alcuni individui seminudi stavano in piedi.
Avvicinandomi mi accorsi che erano incatenati e un vistoso cartello con incisa una scritta, pendeva loro dal collo. Calimera mi spiegò che erano schiavi in vendita; anche a lui, anni prima, era toccata la stessa sorte. Mi rattristai nel vedere quelle povere persone trattate come animali e mi commossi nel sentire la storia di Calimera. Lo schiavo prediletto da mio padre in passato era appartenuto ad una famiglia greca caduta in bassa fortuna e trasferitasi a Genua in cerca di occupazione. Perse la propria libertà non essendo riuscito a risarcire un suo creditore. Diventato proprietà di quest’ultimo era stato venduto a commercianti che lo avevano poi proposto sulla piazza di Libarna. Anni fa, mio padre lo notò nel foro, insieme a Corinta. Nei loro occhi vide sensibilità, bontà ed intelligenza. Pagò tremila sesterzi per entrambi e spese bene i propri denari poiché si rivelarono ottime persone. Un giorno non lontano gli avremmo sicuramente concesso la meritata condizione di liberti, facendoli tornare padroni della propria esistenza.
Giocando sul decumano, davanti a casa, feci amicizia con Lucio, figlio dei proprietari di una fullonica, nostri dirimpettai, e con Claudio, figlio di Albinia, che gestiva la caupona di nostra proprietà, nell’angolo dell’isolato. Con loro ed altri ragazzini del quartiere, equipaggiati di stilus e tavola incerata su cui scrivere, frequentavamo le lezioni del grammaticus soprannominato da noi Pitagora. Ci insegnava il sermo familiaris, un latino adatto ad una conversazione colta, il greco ed a far di conto. Terminate le lezioni e fatti i compiti, con un po’ di frutta e focaccia in tasca, sparivamo nell’Olubria in cerca di tutto ciò che si muoveva: pesci, lucertole, bisce, ramarri. Rincasavamo all’imbrunire, e quando i genitori non ci vedevano arrivare, mandavano gli schiavi di casa a recuperarci. A malincuore ci allontanavamo dal torrente che per noi era un inesauribile fonte di divertimento.
Quando con mamma Laura andavamo a far visita ai nonni nel sepolcreto fuori dal perimetro cittadino, ci attardavamo ad ammirare la bellezza della campagna attorno all’abitato. Percorrevano un sentiero che da dietro l’anfiteatro, nei pressi dell’Olubria, si dirigeva verso sud lambendo il Rio Picareto. Camminando tra frutteti, orti e campi coltivati raggiungevamo il Rio Gamberi e quindi Porta Derthona oltre la quale si trovava l’area cimiteriale. Sontuosi monumenti funebri ai lati della Via Postumia si affiancavano a sepolture più modeste costituite da semplici urne cinerarie e lapidi in pietra. Sistemati fiori di campo sulle tombe dei nostri cari percorrevamo il cardine massimo per tornare a casa.
Con Claudio e Lucio passeggiavo lungo le vie cittadine, parallele e perpendicolari alla Postumia, tra le quali si trovavano una quarantina di isolati costituiti dall’insieme di più abitazioni, occupate da circa quattromila abitanti, e da tante attività commerciali. Curiosavamo tra la merce esposta in vendita sui marciapiedi o sulle bancarelle nel foro. Osservavamo il continuo passaggio di carri trainati da cavalli e muli che percorrevano la Via Consolare per rifornire la cittadina di preziose mercanzie provenienti soprattutto da Genua. Quotidianamente arrivavano anfore olearie colme del combustibile che si adoperava per illuminare le abitazioni, prodotti ittici tra cui il garum e l’olio sopraffino per uso alimentare.
A volte, insieme a miei due amici, consegnavo a domicilio la spesa commissionata dai clienti delle nostre taberne. Rimanevamo ammirati della varietà e quantità dei mosaici e degli affreschi all’interno delle domus. Tante famiglie potevano permettersi una nutrita servitù, vestiti di lusso, oggetti e cibi costosi provenienti anche da terre lontane. Gli schiavi atriensis che ci ricevevano, erano vestiti sontuosamente ad indicare l’opulenza che il padrone di casa amava ostentare. In molte case non mancava l’acqua corrente, la latrina ed anche piccole terme private con il pavimento riscaldato dall’ipocausto, una vera comodità durante i mesi invernali.
La città era fornita di un moderno sistema di approvvigionamento idrico e fognario, da fontane pubbliche e da numerosi abbeveratoi posti negli incroci tra le vie cittadine. In un angolo del foro si trovava una grande fontana con più vasche e zampilli dove in estate ci si poteva rinfrescare e dissetare. Per me Claudio e Lucio questa fonte d’acqua rappresentava la nostra popina gratuita e sempre disponibile.
Libarna non fu mai cinta da mura difensive. I profondi avvallamenti di tre corsi d’acqua, territorio di svago mio e dei miei amici, costituivano delle efficaci protezioni naturali oltre che nostro territorio di svago. Rane, gamberi, salamandre e tritoni se la davano a gambe levate quando sentivano le nostre voci arrivare. Durante la bella stagione, dalla primavera all’autunno inoltrato, la cittadina era viva e vivace con le vie sempre affollate da un continuo viavai di persone indaffarate. La merce esposta fuori dai negozi si alternava a lunghe file di banchetti nuziali o allestiti in occasione delle tante festività religiose.
Insieme a tutti gli abitanti anche la mia famiglia partecipava a queste manifestazioni popolari. Si mangiava, si cantava, si faceva baldoria fino a notte inoltrata. La città, illuminata dopo il tramonto da fiaccole accese, acquisiva un fascino particolare, misterioso, accattivante che però a noi bambini incuteva un certo timore dato dal buio totale al di fuori del foro e delle vie principali. Quando poi arrivavano le festività dei Saturnalia di dicembre e con essi il gelo e la neve copiosa, la città rallentava, il commercio sulla via consolare si paralizzata e tutta la zona entrava in una sorta di letargo dal quale ci si risvegliava non appena le vie tornavano ad essere percorribili.
Stuoli di schiavi ripulivano dalla neve gli accessi al foro, agli edifici pubblici e preparavano le ghiacciaie che avrebbero consentito la conservazione dei cibi nel periodo estivo. Tanti cittadini trascorrevano le loro giornate nelle caupone o nelle popine giocando ad astragali o ai dadi con gli amici in attesa del tepore primaverile.
Noi ragazzotti passavamo tanto tempo all’interno delle nostre abitazioni vicino ai bracieri sempre accesi improvvisando giochi insieme alle schiave di casa. Aspettavamo anche noi la primavera per tornare a rincorrerci tra i cardini e decumani cittadini, per fare il girotondo intorno alla statua di Settimo Severo nel foro e giocare con l’acqua della fontana. La nostra più grande attesa era comunque la vestitura della toga virile che ci avrebbe proiettato nel mondo degli adulti facendoci guadagnare più libertà e più possibilità di vivere appieno le bellezze dell’amata Libarna, nostra unica, vera, Caput Mundi.
Dizionario
Astragali: piccole ossa di animali usate come dadi
Atriensis: schiavo addetto all’ingresso
Calende: primo giorno di tutti i mesi
Calidarium: ambiente molto caldo delle terme romane
Caupona: locanda
Decumano massimo: una delle due vie principali insieme al cardine massimo. Nell’intersecazione delle due si trovava il foro cittadino
Duoviro: sindaco in carica con un suo pari
Derthona: Tortona
Domus: abitazione signorile monofamiliare
Flos floris: Il Garum Flos Floris era ricavato da sgombri, alici, tonni
Frigidarium: parte delle terme romane dove potevano essere presi bagni in acqua fredda
Fullonica: lavanderia /tintoria
Garum: salsa liquida di interiora di pesce e di pesce salato aggiunta come condimento a carni e verdure di primi e secondi piatti
Grammaticus: maestro
Ianuarius: gennaio
Impluvium: vasca per la raccolta dell’acqua piovana dell’atrio
Ipocausto: impianto atto a veicolare aria calda, convogliata sotto al pavimento
Ludi gladiatori: lotte tra i gladiatori
Macellum: mercato coperto in cui si vendeva prevalentemente carne
Nona Regio: la Liguria. Le regioni dell’Italia augustea furono 11: Regio I Latium et Campania, Regio II Apulia et Calabria, Regio III Lucania et Bruttii, Regio IV Samnium, Regio V Picenum, Regio VI Umbria et ager Gallicus, Regio VII Etruria, Regio VIII Aemilia, Regio IX Liguria, Regio X Venetia et Histria e Regio XI Transpadana. Sicilia, Sardegna e Corsica erano considerate province.
Olubria: nome del torrente Scrivia in epoca romana
Peristilio: giardino, porticato
Popine: bar/ tavole calde
Saturnalia: i Saturnali erano un ciclo di festività della religione romana, dedicate all’insediamento nel tempio del dio Saturno. In epoca imperiale si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, periodo fissato da Domiziano
Sermo familiaris: nel latino parlato si possono distinguere diverse varietà: il sermo familiaris (la conversazione colta), il sermo vulgaris (il latino parlato dalla gente comune), il sermo plebeius, con l’eventuale ulteriore accentuazione in senso plebeo del sermo castrensis, la lingua dei militari
Sesterzio: mercato coperto in cui si vendeva prevalentemente carne
Settimio Severo: imperatore romano dal 193 al 197 dC
Stilus: bastoncino usato a mo’ di penna
Taberne: rivendite, negozi
Tepidarium: ambiente delle terme con acqua tiepida
Venationes: cacce di animali selvatici simulate nell’arena