A Smàuna Sàunta. 1
U pò iei klea Natòle… e a sèma zà a Pasqua ! Di solito, fino ad una trentina d’anni fa, questa esclamazione accompagnava normalmente gli incontri per strada tra i nostri compaesani, oggi magari parliamo di sport, virus, dell’assolutamente non trascurabile meteo, d’i zuni e id quel ki stüdia, id quel k’ a disa à televisioun… la sensibilità religiosa, insomma, ne esce notevolmente ridimensionata, comunque tra poco è Pasqua! Serravalle rispecchia nella sua storia quelli che sono i riti liturgicamente previsti, parecchio ridimensionati col tempo, come vedremo. Però alcune cose sono entrate a far parte del nostro bagaglio socio-religioso, impensabile tener separati i due aspetti come succede attualmente.
Sicuramente una cosa che mette tutti d’accordo è la cucina, nelle altre apposite sezioni del sito si potranno trovare opportune ricette. Qui bisogna però espressamente soffermarsi su uno dei semplici ma tanto attesi dolci che per secoli hanno fatto felici i piccoli di casa: ei cavagnein ‘ncu l’œvu, un semplice biscottone di pasta frolla al centro del quale veniva collocato un uovo di gallina fissato alla base con due striscioline incrociate sopra di esso, sempre di pasta frolla, che lo facevano idealmente assomigliare ad un cesto (senza dimenticare il simbolo della croce che accompagna ogni preparazione da forno, infatti nessuna delle nostre mamme o nonne ha mai dimenticato di tracciare od incidere un segno di croce sul pane). Perché proprio l’uovo? L’idea ancestrale del guscio in cui risiede il germe della vita è passata a significare (tra le diverse interpretazioni possibili) il sepolcro dal quale Cristo è risorto, quindi non solo la nascita ma soprattutto la risurrezione di Cristo e la rinascita dell’uomo e delle sue attività (l’eterno alternarsi delle stagioni). In oriente le uova appese alle lampade delle chiese richiamano l’idea che l’uovo che si schiude sulla sabbia al calore del sole ricorda la potenza fecondatrice dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. L’usanza di colorare le uova e della preparazione della colomba pasquale sono, da noi, certamente successive per non dire abbastanza recenti.
La preparazione alla Pasqua non era certamente culinaria od ideale ma soprattutto spirituale. A mezzanotte del martedì di Carnevale il campanone suonava per avvertire dell’inizio del periodo di preparazione, ossia della Quaresima. Domenica, lunedì e martedì grassi in Collegiata si tenevano le Quarant’Ore con l’intenzione di chiedere a Dio misericordia per gli eccessi festaioli in cui si sarebbe potuti incorrere. Parallelamente al calendario liturgico si tenevano d’occhio i 40 giorni di penitenza perché a partire dal loro inizio si iniziavano a preparare vasetti di grano germogliato con cui adornare il cosiddetto Sepolcro. Si seminava in ambiente buio cercando di favorire una crescita rigogliosa di steli di colore verde tenue (dato che si era sviluppato nella semioscurità), anche in questo caso era evidente il riferimento biblico al seme che germoglia, destinato a portare frutto, ed alle tenebre da cui Cristo esce illuminando gli uomini con la Sua Luce.
E siamo dunque arrivati alla domenica delle Palme. La riforma liturgica prevede una vera e propria processione (seppur breve) che muova da un luogo all’altro per rievocare l’entrata di Gesù a Gerusalemme. Attualmente si fa dall’Oratorio dei ”Bianchi” alla Collegiata, a suo tempo si svolgeva con un breve corteo tra l’interno e l’esterno della piazza del Municipio, con la particolarità dell’apertura del portone della Parrocchiale dopo aver “bussato” su di esso con la croce astile. La funzione aveva il suo momento saliente nella proclamazione, in qualche modo cantata, della narrazione della Passione del Signore. Tutti sapevano che sarebbe stata una funzione particolarmente lunga, ed andava bene così. A Messa si arrivava muniti di rametti di ulivo da far benedire e da portare non solo a casa ma pure in campagna e nelle stalle, e da collocare davanti alle porte di casa, all’esterno di esse, in caso di temporali, appoggiandoli su un gancino o un mollettone da stufa ed una paletta (bernàsu) sempre da stufa (o su una zappa ed un badile) incrociati tra loro.
Chi poteva dava la pia caccia a qualche rametto di palma intrecciata, acquistata magari in qualche bottega visto che nel nostro entroterra non si è mai sviluppata l’arte del loro intreccio, al massimo era il fiorista o il gestore che improvvisava qualche intreccio al momento del confezionamento al cliente. Il problema era il rientro a casa, immancabilmente si incrociava qualcuno che arrivava in ritardo o che neppure era andato in chiesa ma che chiedeva un rametto del simbolico “talismano” da portare a casa od a parenti infermi od impossibilitati a presenziare. Non mancava neppure qualche curioso personaggio che recava praticamente una fascina di rami d’ulivo da distribuire a tutta una serie di persone che gli avrebbero conferito questo incarico, o forse da consegnare previo “rimborso spese”…
Di sicuro c’era che neppure le singole foglioline staccate dai rami sarebbero dovute andare perdute, sono benedette, non devono andare n’t l’armàinta, cosicchè su di queste qualcuno incideva con le unghie dei taglietti in cui faceva passare due foglioline intrecciate tra loro, per ottenere una piccola croce da usare come segnalibro, Nulla da segnalare il Lunedì Santo, né il Martedì Santo, e neppure il Mercoledì Santo.
Per tutta una serie di motivi di ordine pubblico e di usi locali divenuti generalizzati, prima della riforma liturgica voluta da Pio XII con la restaurazione della veglia pasquale, dal XVI sec. le funzioni del Triduo Pasquale (Giovedì Santo, Venerdì Santo, Sabato Santo) erano praticamente anticipate di 12 ore.