LIBARNA CAPUT MUNDI.
Foto in evidenza: Libarna, pavimento a mosaico raffigurante il Mito di Licurgo,
Nascendo nel 1956 ho avuto la” fortuna ” di crescere in una Serravalle in cui era un vero piacere abitare.
Nonostante ora il paese sia in difficoltà, continuo ad avere una grande affezione verso il mio borgo natio.
Mi capita spesso di sognare il suo risorgere in storie dove divento il protagonista di una Serravalle lontana nel tempo, quando il suo nome era Libarna. Nel mio narrare ho cercato di documentarmi facendo riferimento a fatti e testi storici, in particolare quelli dell’Archeologa Silvana Finocchi. La grande domus ad atrio, la caupona (trattoria), la fullonica (lavanderia/tintoria), il grande tempio ed altro di cui parlo sono realmente esistiti e sono visitabili nell’area archeologica. Essendo però i miei racconti tratti da sogni, la fantasia è stata libera di viaggiare tra mito e realtà, restituendo una cittadina romana forse come avrei voluto che fosse… chi lo sa…Buona lettura, soprattutto ai nuovi studenti della scuola primaria.
UN TESORO NEI POZZI DI LIBARNA
Il mio nome è Minucio; nacqui il giorno seguente le calende[1] di ianuarius[2] nell’anno 956 dalla fondazione di Roma[3] in una cittadina della Nona Regio[4], dal nome Libarna. Furono i miei nonni a volermi chiamare come il console romano Quinto Minucio Rufo a cui si arrese il popolo dei Liguri che abitavano stabilmente la bassa Valle Olubria[5].
Ebbi i natali e crebbi in una lussuosa domus[6] affacciata sul decumano massimo[7], a pochi metri dall’anfiteatro. Libarna era una cittadina gradevole e tranquilla. Era stata costruita nel primo luogo pianeggiante che si incontrava scendendo dalle aspre colline che la separavano dal mare.
Attraversata nel 605 dalla Via Consolare Postumia, che univa Genua[8] ad Aquileia, si trasformò da villaggio ad urbe[9] grazie al grande passaggio di commercianti e viandanti che vi cercavano riposo ristoro e svago.
I miei primi anni di vita li passai scorrazzando in una grande abitazione, tra l’impluvium[10] dell’atrio e il peristilio[11], rincorso ed accudito dalle schiave di casa.
Oltre che della domus eravamo proprietari anche di tre taberne[12], facenti parte dello stesso stabile, gestite dai miei genitori e di una caupona[13] data in affitto, sita nell’angolo dell’isolato verso il foro cittadino. Avevamo ereditato questi beni dai nostri avi che si erano arricchiti grazie al commercio di tutto ciò che arrivava dalla Val Borbera: legna da ardere, latte, formaggi e miele.
La nostra famiglia apparteneva alla classe sociale degli Equites[14]; più importanti ed influenti di noi erano i Nobiles[15], tutte le altre persone meno agiate costituivano la Plebe. C’erano poi gli schiavi, circa un terzo della popolazione, costituita da prigionieri di guerra, debitori insolventi e bambini abbandonati che costituivano la forza lavoro su cui si basava l’economia romana e senza i quali lo stato non avrebbe avuto modo di esistere.
Anche noi eravamo proprietari di alcuni schiavi che si occupavano di un po’ di tutto: dalle faccende domestiche al rifornimento delle nostre taberne alle stalle ecc. Erano stati acquistati, prima che io nascessi, nel foro cittadino. Alcuni di loro erano di origine nordafricana, altri provenivano dall’est dell’impero. Calimera, lo schiavo prediletto da mio padre, era greco, erudito e saggio; lo serviva e lo accompagnavo ovunque.
Ancora bambino mi sedevo fuori casa dove l’atriensis[16] non mi perdeva mai di vista.
Mi divertivo ad osservare il passaggio sul decumano dei venditori ambulanti che sbraitando in un latino volgare decantavano la loro merce: pelli di animali, lana di pecora, calzari in cuoio, acciarini, anfore di terracotta. Spesso m’intrufolavo all’interno delle nostre rivendite, mi nascondevo tra gli otri di vino ed i sacchi di pesce secco da dove spiavo i clienti impegnati negli acquisti. Vendevamo un po’ di tutto, dai generi alimentari, al vestiario, agli oggetti per la casa di cui ci rifornivamo nelle due città più vicine: Genua, che distava dodici ore di mulo con un percorso tortuoso e disagevole, e Derthona[17] che si raggiungeva facilmente in mezza giornata.
La nostra specialità, per cui ci eravamo fatti conoscere nel circondario, era un garum[18] pregiato e molto apprezzato: il flos floris[19], ricco di sangue di tonno, comprato direttamente dai pescatori di Boccadasse.
Nei giorni di festa si riversavano in città gli abitanti della campagna circostante che invadevano le taberne, le popine[20] e le caupone. Tutti facevano affari d’oro e a fine giornata contavano i sesterzi che finivano nei tanti forzieri ostentati negli atri delle sontuose domus cittadine.
Libarna, sorta alla confluenza delle Valli Olubria e Borbera, attorniata da copiose acque, da fertili pianure e da colline ricche di selvaggina, costituiva un piccolo mondo dove l’economia prosperava e dove non mancava niente per vivere bene in armonia con una natura generosa. Chiunque avesse avuto un po’ d’iniziativa non avrebbe avuto difficoltà a sbarcare il lunario senza troppa fatica. La presenza in città delle terme, del teatro e dell’anfiteatro attiravano una moltitudine di avventori ricevuti a braccia aperte dai commercianti. La cittadinanza romana, per chi abitava nella penisola italica, dalle Alpi alla Sicilia, consentiva molti privilegi tra cui quello di non dover pagare le tasse. Eravamo fortunati; nel resto dell’impero, considerato provincia, la vita era sicuramente più difficile, con meno diritti, certezze e tanti doveri.
Abitare, come noi, nei pressi dell’anfiteatro significava essere spesso immersi in una folla oceanica che c’invadeva desiderosa di assistere ai ludi gladiatori[21] e alle venationes[22]. In quelle giornate le nostre taberne, venivano prese d’assalto. A tarda serata tante facce barbute coniate su metalli preziosi trasbordavano dal nostro cassetto. Da camera mia udivo gli squilli di tromba ed il rullio dei tamburi che davano inizio ai giochi. Non tardava ad arrivare il boato di più di settemila spettatori che, sgranocchiando fichi secchi e focacce dolci, incitavano i lottatori e gioivano alla vista del loro sangue.
Il teatro sito alla periferia nord, nei pressi di Porta Derthona, era riservato ad un pubblico più erudito. I miei genitori, insieme alla Libarna bene, ne erano assidui frequentatori e difficilmente si perdevano una rappresentazione tratta dalla cultura classica ellenistica. Le commedie degli autori romani Plauto e Terenzio, divertenti e coinvolgenti, attiravano tanti spettatori anche tra il popolino, così da fare spesso il tutto esaurito, con oltre tremilacinquecento spettatori.
Nel tardo pomeriggio di ogni giorno ero costretto a rimanere con Corinta, la schiava che mi aveva allevato. A quell’ora la città si svuotava, tutti si recavano alle terme dove in ambienti a diversa temperatura, uomini e donne passavano ore, oziando con gli amici, dopo una giornata di lavoro. Il calidario[23] era frequentato soprattutto nella stagione rigida per beneficiare di un po’ di tepore, mentre durante la calura estiva ad essere presa d’assalto era una grande piscina, il frigidarium[24], per le sue acque fresche provenienti dall’acquedotto del Rio Borlasca. C’erano anche una sala per i massaggi, per i bagni di vapore ed una piccola biblioteca dove, col permesso di mio padre, si dilettava in letture impegnate il colto Calimera.
Il foro, cuore pulsante della città, centro economico religioso e politico, distava da noi poco più di un isolato. Mio padre, che in passato era stato Duoviro[25], vi si recava quotidianamente come gran parte dei libarnesi. In prossimità del grande tempio, tra questo e la statua dell’Imperatore in carica Settimo Severo, incontrava altri facoltosi commercianti e proprietari di laboratori artigianali. Discutevano di affari e di finanza oltre a commentare gli ultimi spettacoli tenutisi nell’arena e nel teatro.
Quando con mamma Laura andavamo a far visita ai nonni nel sepolcreto fuori dal perimetro cittadino, ci attardavamo ad ammirare la bellezza della campagna attorno all’abitato. Percorrevano un sentiero che da dietro l’anfiteatro, nei pressi dell’Olubria, si dirigeva verso sud lambendo il Rio Picareto; raggiunto l’acquedotto, questo piegava verso il Rio della Pieve e, oltrepassata Porta Derthona, terminava nell’area cimiteriale. Numerosi sontuosi monumenti funebri ai lati della Via Postumia si affiancavano a sepolture più modeste costituite da semplici urne cinerarie e lapidi in pietra.
La città a forma di quadrilatero, di settecento passi[26] di lato, era attorniata da frutteti, campi coltivati e orti.
Una dozzina di vie, tra loro parallele e perpendicolari, la suddividevano in una quarantina di isolati costituiti dall’insieme di più abitazioni ove vivevano circa quattromila abitanti, di cui un terzo schiavi. Ci conoscevamo praticamente tutti per nome, tant’è vero che passeggiando per i cardini e decumani era un continuo salutarsi con passanti e negozianti.
Le domus sfarzose erano la maggioranza. I pavimenti a mosaico o di marmo pregiato non si contavano, così come gli affreschi negli atri, nei tablini[27] e nei triclini[28].
Tante famiglie potevano permettersi una nutrita servitù, vestiti di lusso, oggetti e cibi costosi provenienti anche da terre lontane. In molte case non mancava l’acqua corrente, la latrina ed anche piccole terme private con il pavimento riscaldato dall’ipocausto[29].
La città era fornita di un moderno sistema di approvvigionamento idrico e fognario, da fontane pubbliche e da numerosi abbeveratoi posti negli incroci tra le vie cittadine. Libarna non fu mai cinta da mura difensive, i profondi avvallamenti di tre corsi d’ acqua, territorio mio di caccia di gamberi e rane, costituivano delle efficaci protezioni naturali. Dalla pace augustea[30] in poi non ci fu comunque mai bisogno di difendersi né da invasori, né da malintenzionati.
Giocando sul decumano, davanti a casa, feci amicizia con Lucio, figlio dei proprietari di una fullonica[31], nostri dirimpettai, e con Claudio, figlio di Albinia, che gestiva la caupona di nostra proprietà, nell’angolo dell’isolato. Con loro ed altri ragazzini del quartiere, equipaggiati di stilus[32] e tavola incerata su cui scrivere, frequentavamo le lezioni del grammaticus[33] soprannominato da noi Pitagora. Ci insegnava il sermo familiaris[34], un latino adatto ad una conversazione colta, il greco ed a far di conto.
Appena terminata la lezione mattutina nella scuola di Vicolo del Tempio, con un po’ di frutta e focaccia in tasca, sparivamo nell’Olubria in cerca di tutto ciò che si muoveva: pesci, lucertole, bisce, ramarri, topi muschiati. Rincasavamo all’imbrunire, e quando i genitori non ci vedevano arrivare, mandavano gli schiavi di casa a recuperarci. A malincuore ci allontanavamo dal torrente che per noi era un inesauribile fonte di divertimento.
La prima volta che mi recai nel foro ero in compagnia di mio padre e di Calimera. Varcato un austero arco di trionfo mi ritrovai in un enorme spazio lastricato attorniato completamente da un porticato. Sul lato est spiccava un palazzo dal quale proveniva un acre odore di carni e di selvaggina: era il macellum[35]. Verso Porta Genua, non lontano dall’imponente tempio dedicato alla triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva, si elevava l’edificio più importante della città, la Basilica, sede dell’ amministrazione cittadina e del tribunale.
In quello stesso giorno, verso Porta Derthona, tra i molti banchi di ambulanti, si era radunata una piccola folla attorno ad un carro sul quale alcuni individui seminudi stavano in piedi. Avvicinandomi mi accorsi che erano incatenati e un vistoso cartello con inciso delle scritte pendeva loro dal collo. Calimera mi spiegò che erano schiavi in vendita, anni prima anche a lui era toccata la stessa sorte.
Mi rattristai nel vedere quelle povere persone trattate come animali e mi commossi nel sentire la storia di Calimera. Lo schiavo prediletto da mio padre in passato era appartenuto ad una famiglia greca caduta in bassa fortuna e trasferitasi a Genua in cerca di occupazione. Perse la propria libertà per non essere riuscito a risarcire un suo creditore. Diventato proprietà di quest’ultimo era stato venduto a commercianti che lo avevano poi proposto sulla piazza di Libarna. Anni fa, mio padre lo notò nel foro, insieme a Corinta. Nei loro occhi vide sensibilità, bontà ed intelligenza. Pagò tremila sesterzi[36] per entrambi e spese bene i propri denari poiché si rivelarono ottime persone. Un giorno non lontano gli avremmo sicuramente concesso la meritata condizione di liberti, facendoli tornare padroni della propria esistenza.
Durante la bella stagione, dalla primavera all’autunno inoltrato, Libarna era una cittadina molto viva e vivace con le vie sempre affollate da un continuo viavai di persone indaffarate. La merce esposta fuori dai negozi si alternava a lunghe file di banchetti nuziali o allestiti in occasione delle tante festività religiose. Sulla grande via consolare era un susseguirsi continuo di carri, trainati da muli. Dalle pianure del nord arrivavano prodotti della terra come ortaggi, frutta, frumento.
Dal mare, oltre ai prodotti ittici, arrivava il prezioso olio, utilizzato anche per le lampade, e qualunque mercanzia proveniente da tutto il bacino del mediterraneo compresa la superba Roma. Noi barattavamo o vendevamo ai commercianti di passaggio il buon vino delle nostre colline, uva, castagne, funghi, capre, pecore e animali da soma allevati nell’alta Val Borbera. Ad inizio novembre s’iniziava a notare una diminuzione dei transiti sulla Postumia a causa delle prime piogge e nebbie.
Quando poi arrivavano le festività dei Saturnalia[37] di dicembre e con essi il gelo e la neve copiosa, la città rallentava, il commercio sulla via consolare si paralizzata e tutta la zona entrava in una sorta di letargo dal quale ci si risvegliava non appena le vie tornavano ad essere percorribili.
I negozianti riversavano la cenere dei loro bracieri sui marciapiedi per rendere meno scivoloso il percorso ghiacciato per i pochi che si avventuravano sulle strade a far provviste. Stuoli di schiavi ripulivano dalla neve gli accessi al foro, agli edifici pubblici e preparavano le ghiacciaie che avrebbero consentito la conservazione dei cibi nel periodo estivo. Tanti cittadini trascorrevano le loro giornate nelle caupone o nelle popine giocando ad astragali[38] o ai dadi con gli amici in attesa del tepore primaverile. In quei lunghi e noiosi pomeriggi, terminati i compiti di latino e greco, cercavo di distrarmi facendo lavoretti in casa con la complicità di Corinta.
Un bel giorno del mese di gennaio del 958, faceva un freddo pungente; Settimo Severo, nel foro, pareva vetrificato ricoperto com’era di uno spesso strato di ghiaccio.
Costretto a rimanere tra le mura domestiche, pensai, per ingannare un po’ il tempo, di ripulire le statuine dei Lari e dei Penati[39] che le lucerne ad olio, sempre accese sul larario[40], annerivano di fumo.
Data la vicinanza con la vasca del peristilio pensai di lavarle con l’acqua che scorreva nel giardino. Mi accorsi però che il ghiaccio formatosi me lo avrebbe impedito. Portai così le statuette vicino al pozzo sito nelle fauces[41] tra l’atrio e l’uscio. Issai un secchio d’acqua ed iniziai a strofinare con un panno i miei antenati sotto l’occhio vigile dello schiavo atriensis che, sentendo rovistare, era apparso dalla sua stanza a fianco dell’ ingresso. Improvvisamente qualcuno sul decumano bussò facendo sbattere violentemente il batacchio contro il portone. Quel rumore secco ed inaspettato mi fece sobbalzare e perdere la presa di mio nonno paterno bronzeo che finì a testa in giù nel profondo pozzo. L’atriensis impegnato a capire chi fosse l’ospite inatteso non si accorse di nulla. Feci finta di niente, ripulii alla meglio gli altri parenti e li riportai al loro posto sul larario nel peristilio, sostituendo la statuetta mancante con una simile in vendita nelle nostre taberne.
Se i miei si fossero accorti dello scambio non l’avrei di certo passata liscia. Gli Dei Lari e Penati erano a protezione della casa e della famiglia e mio pater[42], con il nonno a bagno avrebbe temuto per la nostra incolumità; inoltre, se la cosa si fosse venuta a sapere in giro, per tutti noi sarebbe stata una vergogna. La mattina dopo andai nella caupona e nella fullonica a rendere partecipi dell’accaduto Claudio e Lucio. Avrebbero dovuto darmi una mano a recuperare il pater di mio pater. Saremmo dovuti andare a rovistare sul fondo del pozzo, profondo più di otto passi[43]. La cosa non ci spaventava ma avremmo dovuto escogitare un piano realizzabile senza rischi e senza farci scoprire. Pensammo di discuterne, lontani da orecchie indiscrete, nel cortile della caupona di Claudio quando tutti erano alle terme. La Signora Albinia, mamma di Claudio, vedendoci parlottare al freddo ci invitò ad entrare ed a sederci al tavolo della cucina dove ci mise davanti tre boccali fumanti di latte e miele con delle crustule[44] appena abbrustolite sulla brace.
Quando fummo soli capimmo che non saremmo riusciti nell’impresa non fosse altro per il fatto che il pozzo era situato in un punto di continuo passaggio con l’atriensis sempre presente a pochi passi. Ci venne però in mente che, tale Cartas Velinas, un omino minuto tutto nervi, di professione ripuliva i pozzi ed i camini. Per pochi sesterzi vi s’introduceva e in poco tempo tirava fuori tutto quello che all’ interno non doveva stare. Il difficile ora era convincere mio padre ad assoldare Velinas per ripulire il pozzo che ormai, con l’ acqua corrente in casa, non si adoperava praticamente mai. L’eccezionale ondata di gelo invernale ci dette una mano. Tutte le condutture cittadine erano ormai ghiacciate da alcuni giorni ed il freddo non sembrava voler diminuire. Fu così che, per aver acqua a disposizione, o la si portava su a dorso di mulo dall’Olubria o si doveva necessariamente utilizzare quella del vetusto ed obsoleto pozzo, la cui costruzione risaliva a quella del quartiere, vecchio di duecento anni.
Prima che Velinas venisse subissato di richieste mio padre si convinse a mandare uno schiavo a bussare alla porta di questo omino che per le sue fattezze sembrava nato per questo tipo di lavoro.
Il giorno dopo, senza preavviso, Velina si presentò alla nostra porta armato di una scala di corda, di un cesto e di una canna di sambuco vuota al suo interno. Fui io a riceverlo; i miei per fortuna erano impegnati nelle taberne. Senza proferire parola, calò la scala e sparì nel buio del pozzo con la canna tra i denti per poter respirare sott’acqua. Dopo poco tempo ricomparve, prima la canna, poi il suo sorriso di soddisfazione. “Tutto fatto” disse e riversò il cesto dentro un secchio che avevo preparato.
Ringraziai Velinas e portai il recipiente al primo piano, in camera mia, spargendone il contenuto sulle tavole del pavimento per poi frugare in cerca di mio nonno paterno. Il pozzo aveva restituito molto di più di quello che speravo di ritrovare e pensai che era da molto tempo che non veniva effettuata una ripulitura.
Tanti manufatti appartenuti ai miei avi erano lì davanti a me, a ricordarmi di loro e dei tempi passati. Intravidi la statuetta e la riportai subito al suo posto sul larario sotto al porticato del peristilio, pregustando ,durante il breve tragitto, la soddisfazione nell’andare a curiosare tra le cose recuperate che attendevano di essere esaminate e di avere una seconda vita. Alla luce di una lanterna allargai per bene un bel po’ di oggetti che sembravano usciti da un solaio dimenticato di una domus repubblicana. Mescolati a noccioli di pesca e gusci di vongole c’erano alcune chiavi di porta, lunghi aghi da rammendo, piccoli scalpelli da cesellatore, una trottola in osso, un recipiente in terracotta recante la scritta “PATER”, tubuli per il riscaldamento, un supporto in bronzo a forma di faccia del manico di un secchio, alcune pedine da gioco e parecchi frammenti di ceramica.
Quello che colpì di più la mia attenzione furono alcune monete luccicanti tra cui alcuni sesterzi di Traiano, un asse[45] di Adriano ed un cosidetto Giano bifronte[46] repubblicano di cui avevo sentito parlare a proposito del gioco detto testa o nave. La sera feci vedere ai miei genitori il risultato del repulisti di Velinas; anche loro rimasero stupefatti e misero subito nel forziere dell’atrio quel po’ di storia della nostra famiglia resuscitata incredibilmente dal pozzo di casa.
Quella notte mi addormentai pensando ai secoli passati, agli imperatori che resero grande lo Stato Romano. Era tutto vero! Ciò che ci insegnava il grammaticus Pitagora era realmente accaduto. Le monete rinvenute rappresentavano la testimonianza concreta che personaggi come Giulio Cesare, Augusto, Nerone ,Traiano erano realmente esistiti e così le loro gesta. Presi maggiormente coscienza del nostro glorioso passato attendendo impaziente l’ora per raccontare tutto a Lucio e Claudio. Ci trovammo, come capitava spesso, nella fullonica dove Lucio era quotidianamente impegnato nel ritiro dei panni da lavare e tingere immerso nel pungente odore di ammoniaca. Entusiasti dal fortuito ritrovamento, pensammo che a Libarna dovevano esserci più di trecento pozzi. Alcuni di questi appartenevano ad abitazioni anche molto vecchie, costruite sicuramente prima della Via Postumia.
Ci solleticava l’idea di chissà cosa si sarebbe potuto trovare se fossero stati ripuliti tutti. Se fossimo riusciti a farlo, con i tanti oggetti vetusti ritrovati si sarebbe potuto allestire una raccolta a testimonianza del passato. Tra non molto, sarebbero iniziati i preparativi per i festeggiamenti del millenario dalla fondazione di Roma e sarebbe stato carino se Libarna avesse potuto fregiarsi di una collezione di antiche testimonianze della nostra illustre civiltà. Pensammo di parlarne con il maestro Pitagora. Fu così che, durante l’ora di lettura di un testo dello storico Tito Livio che menzionava Libarna, alzai la mano e a voce alta, davanti a tutti, parlai della vicenda del pozzo. Sia i compagni che il maestro si dimostrarono stupiti ed entusiasti.
Quando poi proposi di cercare altri reperti nei pozzi della città per raccoglierli in una mostra permanente, il grammaticus Pitagora disse che gli sembrava un’idea interessante e ne avrebbe parlato quanto prima con i duoviri. Aggiunse che durante la ricerca noi ragazzi del quartiere dell’anfiteatro avremmo dovuto tenere un diario che a fine anno, rilegato su pergamena, sarebbe diventato il catalogo della mostra con la storia della nostra città dall’origine ai tempi nostri.
Iniziò così un incessante lavoro che coinvolse noi ragazzi dell’anfiteatro e la cittadinanza tutta.
Come prima cosa censimmo i pozzi esistenti e li classificammo in ordine di costruzione delle case, dai più antichi, siti nel centro storico, ai più moderni della periferia. Velinas avrebbe eseguito il lavoro, insieme ad uno scriba pubblico, un impiegato dell’amministrazione, e alcuni di noi per la stesura del diario che il grammaticus ci aveva commissionato.
Dopo che i duoviri chiesero la collaborazione della cittadinanza i libarnesi aprirono le porte delle loro case e furono ben lieti di partecipare alla ricerca e perché no, anche di farsi ripulire i pozzi gratuitamente.
Dopo un anno di lavoro furono trovati talmente tanti manufatti che fu necessaria una cernita dei più antichi ed interessanti. Fu allestita una sala espositiva a piano terra della basilica con una collezione di monete a partire dalla di fondazione della città in cui erano rappresentati un po tutti i consoli e gli imperatori, una collezione di corniole[47] con incise varie divinità, una collezione di lucerne ad olio e tanti altri oggetti di varia provenienza utilizzati dagli avi di tutti gli abitanti di Libarna. Noi alunni del grammaticus Pitagora fummo omaggiati, insieme a Velinas, di una pergamena di pelle di pecora che ci fu consegnata sul palcoscenico del teatro davanti agli spalti gremiti di pubblico.
Avevo da poco compiuto 13 anni, la vita sembrava sorridermi invitandomi a trascorrerla con operosità ed entusiasmo. Dopo non molto tempo avrei indossato la toga virile[48] che mi avrebbe proiettato nel mondo degli adulti. L’incantevole Libarna appariva sempre più ai miei occhi non come una semplice cittadina lontana da Roma e dispersa nella campagna ligure, ma una stimolante, piccola ma pulcherrima[49] bellissima Caput Mundi[50].
[1] primo giorno di tutti i mesi
[2] gennaio
[3] 21 aprile 753 aC
[4] la Liguria. Le regioni dell’Italia augustea furono 11: Regio I Latium et Campania, Regio II Apulia et Calabria, Regio III Lucania et Bruttii, Regio IV Samnium, Regio V Picenum, Regio VI Umbria et ager Gallicus, Regio VII Etruria, Regio VIII Aemilia, Regio IX Liguria, Regio X Venetia et Histria e Regio XI Transpadana. Sicilia, Sardegna e Corsica erano considerate province.
[5] nome del torrente Scrivia in epoca romana
[6] abitazione signorile monofamiliare
[7] una delle due vie principali insieme al cardine massimo
[8] Genova
[9] città
[10] vasca per la raccolta dell’acqua piovana
[11] giardino, porticato
[12] rivendite
[13] locanda
[14] la borghesia
[15] membri dell’aristocrazia
[16] schiavo addetto all’atrio
[17] Tortona
[18] salsa liquida di interiora di pesce e di pesce salato aggiunta come condimento a carni e verdure di primi e secondi piatti
[19] Il Garum Flos Floris era ricavato da sgombri, alici, tonni
[20] bar/ tavola calda
[21] lotte tra i gladiatori
[22] cacce di animali selvatici dentro all’arena
[23] ambiente molto caldo delle terme romane
[24] parte delle terme romane dove potevano essere presi bagni in acqua fredda
[25] sindaco in carica con un suo pari
[26] il passo romano è un’unità di misura pari a 73,5 cm; 700 passi corrispondono a 514,5 metri
[27] ambiente posto fra l’atrio e il peristilio, per lo più adibito al ricevimento
[28] sala da pranzo
[29] impianto atto a veicolare aria calda, convogliata sotto al pavimento
[30] pace donata dall’imperatore Augusto al mondo romano
[31] lavanderia /tintoria
[32] bastoncino usato a mo’ di penna
[33] maestro
[34] nel latino parlato si possono distinguere diverse varietà: il sermo familiaris (la conversazione colta), il sermo vulgaris (il latino parlato dalla gente comune), il sermo plebeius, con l’eventuale ulteriore accentuazione in senso plebeo del sermo castrensis, la lingua dei militari
[35] mercato coperto in cui si vendeva prevalentemente carne
[36] un sesterzio è pari all’incirca a 6 euro
[37] i Saturnali erano un ciclo di festività della religione romana, dedicate all’insediamento nel tempio del dio Saturno. In epoca imperiale si svolgevano dal 17 al 23 dicembre, periodo fissato da Domiziano
[38] piccole ossa di animali usate come dadi
[39] protettori della casa e della famiglia
[40] piccolo altare domestico
[41] ingresso
[42] padre
[43] sei metri
[44] biscotti
[45] inizialmente il Sesterzio aveva un valore di 2 assi e mezzo; quando verso il 142 a.C., il sesterzio assunse il valore di 4 assi,
[46] questa moneta, del peso di 288,30 grammi, mostra al dritto la testa di Giano bifronte, mentre al rovescio compare la prua di nave, forse in ricordo della vittoria della flotta di Roma su quella di Anzio, avvenuta nel 338 a.C. Datazione: 225 – 217 a.C. Questa moneta è l’equivalente dell’asse in epoca augustea
[47] gemme
[48] toga dell’età adulta, che si raggiungeva attorno ai 15-17 anni, solitamente di colore bianco avorio
[49] bellissima
[50] capo del mondo