8 marzo
Foto in evidenza: Pablo Picasso, Nudo Blu, 1902
La redazione di Chieketè mi ha chiesto di scrivere qualcosa riguardo all’ 8 marzo. Io però che diavolo dovrei scrivere in queste ore funestate da catastrofi?
Dovrei parlare di un giorno che oggi chiamiamo “festa”, una parola che ha sostituito quella che, citando Wikipedia, era “la Giornata Internazionale dei diritti della donna nata per ricordare sia le conquiste sociali, economiche e politiche, sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono oggetto in ogni parte del mondo”?
In altre circostanze avrei potuto raccontare degli anni 80 quando le contestazioni e le lotte per i diritti erano in ombra e l’otto marzo era ormai di fatto svuotato di ogni significato diventando soltanto un business per fioristi e qualche sparuto pasticciere.
Avrei potuto raccontare aneddoti di uomini ridotti all’acquisto in fretta e furia di uno scialbo mazzetto di mimosa, che peraltro puzza, dura poco e macchia, passando i soldi dal finestrino a un lavavetri mascherato per un giorno da fioraio.
Per par condicio dall’altro lato avrei potuto far sorridere con storie di orde di donne sedute al ristorante per la loro unica uscita serale dell’anno. E peggio ancora, di quelle accalcate ad assistere a uno squallido spogliarello, nell’intento di imitare le pulsioni animalesche dei loro compagni maschi.
Non vorrei offendere nessuno, è chiaro che molti signori hanno fatto e fanno del loro meglio per esprimere la gioia di vivere accanto a figure femminili.
Eppure non riesco a esimermi dal dire che questo giorno è ancora una scatola troppo vuota, così come tante ricorrenze in cui incappiamo senza mai fermarci a pensare davvero. O se anche per qualche attimo pensiamo, siamo ancora e sempre troppo inermi per cambiare.
E’ una scatola vuota che comincerebbe a avere un senso se si riempisse ogni anno di donne salvate, di bambine accudite e istruite, che una volta cresciute potessero insegnare ai loro figli come essere uomini migliori, di gesti di pace e mai più di violenza.
E siamo sicuri che abbia ancora un senso dedicare un giorno alle donne? Esiste persino la giornata dell’uomo che nessuno si fila. Forse sarebbe meglio dedicare una data a tutta l’umanità, per giunta senza meritarcelo.
Siamo uomini e donne di un secolo nuovo, dotati per la prima volta nella storia di mezzi di comunicazione che ci mettono in contatto con persone all’altro capo di questo strapazzato pianeta. Un tempo non sapevamo quasi che tratti somatici avesse uno che stava a 1000 chilometri di distanza da noi, ora abbiamo amici “a peso”, quintali di amici e, come scimmie replicanti, ci basta il video di un tizio su Tiktok per compiere miliardi di volte lo stesso movimento, lo stesso balletto o qualsiasi insulsaggine ci chieda di fare.
Sarebbe così facile invece replicare il gesto di buttare le armi, tutti da una parte e dall’altra, un’azione collettiva per non imbracciarle mai più e i signori in alto, gonfi di ricchezze e potere, non avrebbero mezzi per farci combattere.
Lo so, questa è utopia, è John Lennon e la sua Imagine, “immagina tutta la gente vivere in pace”. Lui stesso steso al suolo dalla canna di una pistola.
Ma la natura umana è sempre uguale, non cambia nei secoli, ci sarà immancabilmente uno che se molli il fucile ti spara alla schiena.
Per collegare l’8 marzo a Serravalle, essendo questo un sito che si occupa del nostro paese, avrei voluto raccontare la storia di una ragazza, una compagna di classe.
Avrei cercato di scegliere con cura le parole e frasi gentili per non urtare nessuno.
Ma non ci sono termini lievi per la storia di chi, minorenne, non ha avuto una famiglia a proteggerla e a sorreggerla, che non ha avuto in dono mai un libro o un conforto sincero.
In questo racconto non ci sono insegnanti che l’hanno pensata fuori dal recinto dei banchi, assistenti sociali che si sono sbattuti o istituzioni che abbiano mollato le loro inutili carte per capire cosa servisse davvero.
Trovarsi tra i rifiuti è stato un attimo e la droga ha dato una mano a non farle pesare che l’unico modo per racimolare quattro soldi era accontentare le voglie di un vecchio ricco maiale.
E quando non è stata più carne fresca, la fine è arrivata sul ciglio della strada. Lontano anni luci il viso tondo e entusiasta che aveva quando suonavo il campanello perché con me, la secchiona della classe, suo padre le avrebbe permesso di uscire.
L’ultima volta che ci siamo incontrate ho faticato a riconoscerla, lo sguardo stravolto e il trucco sbavato di chi sta per incamminarsi su un marciapiede. Dopo un timido “ciao”, prima che riuscissi a tentare un minimo approccio, era già scappata via. Ora è troppo tardi, è morta da anni.
Come per l’utopia delle armi deposte, anche lei aveva un sogno. Avrebbe voluto continuare a studiare e entrambe speravamo che qualcuno alla fine della scuola intervenisse per esaudire questo desiderio. Ricordo bene quei due pezzi di carta osservati sui gradini delle medie, il mio “ottimo” di cui avrei fatto sinceramente a meno e che avrei scambiato senza esitazione con il suo voto più scarso. Eravamo ingenue e innocenti e ovviamente non è servito a niente.
Per questo otto marzo vorrei solo ricordare un giorno in palestra, alunni e professori come goffi pinguini senza ghiaccio, ad ammirarla in alto, con il costumino blu e la margherita rossa della ginnastica ritmica che qualcuno le aveva dato, volteggiare su un attrezzo sopra le nostre teste con movimenti leggeri e eleganti. Un esercizio perfetto. Ma quello che aveva reso davvero speciale quel momento era che per una manciata di minuti era apparsa così lontana da noi, finalmente felice, bellissima e sola, sola con la sua forza, l’unica che potesse fare il suo bene.
“Solo la bellezza salverà il mondo” fa dire Dostoevskij a un suo personaggio. Credo intendesse la bellezza del Bene, di cui abbiamo tutti un infinito bisogno.
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