Il Signor Giovan Battista Gemme
I bar com’erano una volta forse non ci sono più, smarriti nella fretta, nei telefonini e nei computer, ma da qualche parte resistono perché qualcuno ha ancora voglia di “perdere” un po’ del proprio tempo prezioso. Così a Serravalle, nel bar Caffè Latte succede ancora di guardarsi negli occhi per scambiare quattro chiacchiere in compagnia.
Fino a poco più di un anno fa ogni giorno parcheggiava la Punto grigia il nostro amico Giovanni Gemme, scherzosamente ribattezzato John. Classe 32, tortonese d’origine, serravallese d’adozione. Un po’ inclinato in avanti, il passo flemmatico e le mani immancabilmente dietro la schiena si affacciava all’ingresso.
“Buonasera a tutti e signora mi raccomando non li stia a sentire questi qui!” rivolto a me.
Mai sono riuscita a farmi dare del tu, era fuori dalle regole del galateo. Gabriele, lui stesso tortonese, senza bisogno di chiedere sapeva cosa versare: “bianch cur campari” da prassi tassativamente servito nel gotto da osteria. Con il rinfrescante “lambruciòun” John si accomodava in uno dei due tavoli. Ci osservava per un po’ e se lo appassionava l’argomento si inseriva nel discorso e piano piano, gira che ti rigira, finiva col parlare dei tempi che furono, i suoi tempi.
Sceglieva le parole a una a una soppesandone l’importanza. Mentre parlava potevi immaginare le virgole, i punti e gli accapo. Tutto in italiano inframmezzato da qualche breve cenno in dialetto solo se lo considerava indispensabile.
Voleva che capissimo bene i lunghi viaggi anni ’50 per mezza Italia a bordo del camion che era stata una seconda casa, le camionali polverose, le consegne da rispettare e la fierezza di avere fatto il proprio dovere al meglio.
Come un vecchio albero con grandi cerchi concentrici, Gemme faceva scorgere ogni anello, uno per ogni periodo della vita: la campagna dell’infanzia, la lunga storia della Liebig, fabbrica di dadi e estratto di carne, per la quale faceva i trasporti; la dogana di Concorezzo e il transito di centinai di autotreni carichi di merci disparate; gli anni della guerra e il servizio militare nell’aeronautica in una postazione radio sulle montagne parmensi insieme a quello che per noi è ormai leggenda, il mitico Capitano Giulini.
Gemme era un uomo dal fisico forte e robusto, capace in tarda età di intraprendere faticosissime pedalate in bicicletta, unica vera grande passione. Se le chiacchiere cadevano sulle due ruote gli occhi tornavano quelli brillanti del ragazzo che non si perdeva nemmeno una corsa dei grandi assi del pedale Magni, Bartali e il campionissimo di zona, l’idolo Fausto Coppi. Prima le radiocronache, poi la tv e le gare viste di persona. Quanta strada in bici o a piedi per essere presente al momento del passaggio dei ciclisti. 17 km verso il Mortirolo aveva scalato per veder sfrecciare i suoi amati corridori. Si era tolto persino lo sfizio di spendere una fortuna per una bici appartenuta a Coppi e che curava come una reliquia da ammirare e lucidare.
D’estate, quando al posto del maglione beige a collo alto sfoggiava allegre polo colorate, si presentava appena prima della chiusura. Aveva lavorato nell’orto, per forza si era fatto tardi. Invitava con un cenno della mano per porgerci dal portabagagli una zucca o succosi pomodori spiegando la varietà dell’una e come aveva curato i secondi. Poi lanciava uno sguardo sornione al barista che sbuffava ironico perché non avrebbe potuto abbassare la serranda. “Le sembra l’ora di arrivare?” ma John scrollava semplicemente le spalle “Se sei ancora aperto io entro” lasciava intendere senza proferire parola.
A quante partite di scopa e briscola in cinque abbiamo assistito. Finivano spesso con qualcuno che scagliava le carte recriminando “Ero io il socio come hai fatto a non capirlo? Hai sbagliato a giocare il sette!”. Gemme però non si scaldava per nulla. Era per la pacatezza, andare d’accordo con tutti la sua indole innata e si faceva scappare un sorriso allargando le braccia.
Sorrisi enormi li sfoderava invece quando Luciano Gogna varcava la soglia del bar imbracciando la fisarmonica per sessioni di canti folkloristici in un crescendo, probabilmente alcolico, di divertimento e stecche da paura.
Signor Gemme, siamo sinceri, ci siamo divertiti. Grazie per i racconti e le memorie, grazie per aver provato ad insegnarci a pensare prima di parlare.
Una volta il ritmo era scandito da stagioni sempre uguali e gli anziani, che avevano vissuto di più, erano custodi di ricordi e di saggezza da tramandare. Oggi il mondo non scorre dentro un cerchio, sfreccia indiavolato su una linea retta verso un orizzonte incerto mentre lo spazio per la memoria si riduce.
Ecco perché “quando il giardino della memoria inizia a inaridire, si accudiscono le ultime piante e le ultime rose rimaste con un affetto ancora maggiore (O. Pamuk)”
In alto i gotti per il caro vecchio Signor Gemme, cin cin!