Dino Cochis e il discorso di Giuseppe
Da quando Dino Cochis era passato a fine anni settanta, per limiti d’età, dalla categoria amatori a quella dei veterani, per lo Sci Club Serravalle non c’era stato più niente da fare. Dino, della cosa non riusciva proprio a darsi pace. Piccolo, grintoso, sempre abbronzato, il passo svelto e frequente, ricorda nello stile Grillo De Zolt. Per anni nella categoria amatori erano state lotte terrificanti con l’indimenticabile Giovanni Nanni Zunino di Acqui, fondatore nella sua città della sede del CAI, a lui ora intitolata.
Zunino aveva un’eleganza senza uguali. Alto, magro, la barba folta, spingeva gli sci carezzando la neve, come solo i grandi del nord sono in grado di fare. Era il Thomas Wassberg dei nostri campionati. La spinta, sicuramente potente, non tradiva alcuno sforzo ed il solo che, negli anni ’70 era riuscito a contrastarlo e qualche volta addirittura a batterlo era stato proprio solo lui, Dino. Poi quando, più vecchio di Zunino, passò di categoria per gli altri non rimasero che le briciole.
In quegli anni ero ancora studente. Ero chiuso con Maurizio Cremonte in una stanza a picco sul torrente Scrivia, coperto da libri ed atlanti di medicina. La stanza era di proprietà di Maurizio e a questa aveva dato un non so che di sepolcrale, giacché l’ingresso, ancorché sempre aperto, era permesso solo a qualche suo raro amico.
Uno di questi si chiamava Borghetto. In realtà il suo nome era Giuseppe Di Casa, ma Maurizio lo chiamava così perché questi a Borghetto ci abitava. Borghetto entrava nella stanza chiedendo permesso e poi stava lì fermo ad attendere che Mauri, finito il capoverso, tirasse su la testa dal libro. La scena era sempre uguale, ma ogni volta interrompevo lo studio per gustarmela per bene.
“Allora, Burgheto? Kmé ka va?”
“Bain.”
“Kméla t’é ki?”
“Neinte.”
Il tutto rigorosamente in dialetto e rigorosamente falso. Borghetto aveva già più di quarant’anni, di lavoro faceva il carpentiere e nelle braccia aveva la forza di un bue. Di media statura, spalle larghe e carnagione scura non l’ho mai sentito pronunciare più di due parole per volta. Maurizio sapeva benissimo perché quell’uomo fosse lì. Voleva andare a fare una camminata sui monti, oppure un giro in montagna con gli sci da fondo. Maurizio era il suo compagno preferito, perché ad entrambi piaceva una sola cosa: il silenzio.
“Domenica alle cinque, a casa mia”, diceva sorridendo il mio compagno di studi.
“Va bain”, faceva l’altro e, senza aggiungere nulla, si girava su se stesso e se ne andava.
“Borghetto!” chiocciava Maurizio, sprofondato nella sua poltrona verde lucertola, come quando un presentatore accomiata l’ospite d’onore davanti al pubblico.
Entrambi facevano parte della squadra dello Sci Club Serravalle e Maurizio gareggiava fra i Seniores. Un inverno, poco prima del campionato, mi chiese se mi facesse piacere accompagnarli. Ci pensai un po’ su e anche se non sapevo assolutamente sciare, gli risposi di sì, perché la montagna m’era sempre piaciuta.
Lo Sci Club aveva organizzato le cose per bene. Gli allenamenti, la preparazione fisica, i materiali. Alle prime gare non andai, ma a Festiona nel cuneese, per la gara decisiva, sì. Cochis tutto sommato poteva dirsi soddisfatto: la “Squadra Agonia“, come lui chiamava la sua banda di faticatori dello sci, era pronta. Dino era tranquillamente primo fra i veterani e anche arrivando ultimo, il trofeo sarebbe stato suo. Fra gli Juniores aveva già ipotecato tutto il suo nuovo pupillo, Luigi Padalino, e fra i Seniores se la giocavano, in famiglia, due dei suoi: Vincenzo La Camera e Mauri. Ma a guastargli il sonno ed ad impedirgli la realizzazione di un fantastico en plein era la solita situazione fra gli amatori.
Zunino era in testa come sempre e questo non faceva che peggiorargli la gastrite. Per la verità, poiché, a seguito di un infortunio, Zunino si era dovuto fermare per due gare; la matematica non gli dava ancora ragione e Borghetto era onorevolmente secondo a pochi punti. Borghetto era approdato allo sci da fondo molto tardi: buon camminatore e discreto corridore fondista, il suo stile era un po’ approssimativo. Gli sci non scivolavano via sotto i piedi; in realtà sembrava che, invece di sciare, corresse. Tuttavia la sera prima della gara vedemmo arrivare in un altro albergo Zunino e questo chiudeva anticipatamente ogni ragionevole speranza.
Il cielo di quella notte era limpidissimo, sfavillante di stelle. Feci quattro passi insieme a Borghetto e Mauri. Con quest’ultimo non feci altro che parlare di medicina, di donne, di politica. Tutti argomenti ai quali, come al solito, Borghetto non partecipò. Solo davanti all’entrata dell’albergo, prima di andare a dormire, se ne usci con un:
“Dmaun u piova”.
“Che cavolo dici, Borghetto?”.
“Dmaun u piova”, ripeté lui contro l’evidenza di quel cielo.
La sveglia suonò presto. Dal letto sentii un rumore strano proveniente da oltre le persiane, come di uno scroscio. Mi alzai di scatto e spalancai l’imposta. Fuori diluviava. La cosa continuò implacabile per alcune ore, ma alle dieci di colpo smise. Le nuvole basse furono spazzate via dal vento per lasciare spazio ad un sole incredibilmente caldo. Il bianco mantello del percorso di gara era diventato una sorte di palude acquitrinosa. Fra i concorrenti era un continuo scrutarsi per cercare di capire quale diavolo di sciolina potesse essere spalmata sotto gli sci, ma anche i più esperti scrollavano la testa. Con una neve così marcia non c’era sciolina che potesse servire.
Alla partenza della gara per amatori Zunino era là, alto, bellissimo, sicuro di sé, fasciato dalla sua tuta azzurra superaderente. Tutti gli altri erano solo pochi metri più in là, ma il suo sguardo li allontanava di qualche chilometro. Borghetto si era aggiustato i bragoni alla zuava e ben protetto le gambe con spessi calzettoni di lana. Come al solito guardava solo per terra. Tutto era un pantano. Vicino gli stava Cochis che cercava di somministrargli le ultime raccomandazioni tattiche:
“Stagli attaccato a quello là; stagli sulle code fin che puoi. Lo so che è forte, ma tu provaci almeno fino ai dieci. Magari s’innervosisce…”.
Dino parlava più per il dovere impostogli dal ruolo, ma sapeva di raccontare delle frottole. Era come chiedere ad un ragazzino di marcare Maradona e lo sapeva benissimo.
“Forse non ha ancora recuperato bene dall’infortunio. Ho visto che parlava col suo medico e mi sembrava che quello gli toccasse il ginocchio…”.
Dino continuava a parlare ma Borghetto non lo ascoltava nemmeno. Si assicurò gli sci ai piedi, fermò con una spilla il numero di gara e, camminando sugli sci, si mise dietro la linea di partenza, già brulicante di concorrenti. Il giudice diede il via. L’inizio fu quasi tragicomico. Un gran mulinare d’acqua, come una partita di pallanuoto, come una tonnara. Quel gran sciacquio si mescolava a frequenti bestemmie. Poi i primi chilometri e la fatica avevano zittito tutti e creato selezione. Molti, scoraggiati mentalmente, non sapevano adattarsi a quella poltiglia. Si era già creato un gruppetto di testa con i migliori, Zunino ovviamente davanti a tutti. Faticava anche lui e, forse, per la prima volta si vedeva il suo viso piegarsi in una smorfia. Bisognava puntare forte i bastoncini ed aiutarsi con le braccia. Borghetto tuttavia era lì. Per lui non era cambiato nulla. Su quel terreno, come sul ghiaccio più compatto, come al solito correva sugli sci. All’ottavo chilometro erano rimasti in quattro, con un sole sempre più caldo intento a sciogliere più neve possibile. Zunino sbuffava spazientito. Il suo bel alternato non poteva rendergli come sempre. Anche lui era costretto ad appoggiarsi ai bastoncini, cercando d’imprimere quel ritmo solo a lui noto, in grado di stroncare chiunque. Ma Borghetto non lo mollava e questo lo infastidiva non solo sportivamente ma anche esteticamente.
Dino intanto continuava ad incitare Borghetto. Aveva già fatto la sua gara, giungendo terzo e aggiudicandosi il campionato, ma ora era là a correre lungo quella pista per incitare il suo uomo. Dino era una persona che aveva altissimo il senso del dovere e anche se non ci credeva, urlava a squarciagola lo stesso.
“Non mollarlo, non mollarlo!”.
Zunino contrariato dalla situazione che si andava creando, al tredicesimo chilometro richiamò a sé tutte le forze disponibili ed operò un allungo decisissimo. Neve o non neve doveva vincere, il secondo posto non gli sarebbe bastato. Picchiò sci e bastoncini con prepotenza. Spinse come non aveva mai fatto, anche a corso di andare in acidosi. Oltre all’eleganza Zunino aveva una forza ed un coraggio eccezionali. Corse anche lui su quell’impasto d’acqua, neve e fango, corse fortissimo per tre chilometri ma poi, di schianto, scoppiò. Borghetto era ancora lì, come un’ombra. Come vide Zunino rallentare, schizzò via come se corresse un quattrocento in pista. Tutti intorno rimasero ammutoliti. Anche Dino aprì la bocca come di fronte ad un miracolo. Borghetto era là davanti a tutti. Piantava i bastoncini come se fossero due picconi sul cemento e gli sci scorrevano sulla melma, trainati dalla potenza che quelle braccia trasmettevano alla terra. Zunino vide Borghetto andargli via ed in un rigurgito d’orgoglio tentò di stargli attaccato almeno ad una decina di metri. Ma quel giorno Dio aveva deciso per Malabrocca e non per Coppi. Quelle braccia di Borghetto scoppiavano di energia ed anche le sue gambe, in virtù di quella forza, si muovevano con un’agilità dolce ed armonica. La sua faccia era impassibile, ricoperta di fango, come se stesse correndo una Parigi – Roubaix.
Dino gli correva vicino, tagliando per i boschi. Provava ad incitarlo, ma dalla bocca gli usciva solo qualche gorgoglio strozzato. Dino correva e piangeva. Il suo uomo era là davanti, quell’uomo sgraziatissimo ma che oggi andava come il vento. Io, Mauri e tutti gli altri guardavamo allibiti, quasi come se non riuscissimo a capire quello cosa stesse succedendo. Zunino era sempre più lontano; aveva la bocca aperta per lo sforzo, le gambe irrigidite e le braccia pesantissime.
Giuseppe Di Casa, detto Borghetto, gli era ormai quasi mezzo chilometro davanti, quasi vicino al traguardo e sembrava una nuvola leggera sospinta dalla brezza della montagna. Borghetto tagliò il traguardo senza alzare la testa. Spinse ancora per qualche decina di metri. Già qualcuno stava per corrergli dietro a fermarlo, ma non fu necessario. Borghetto aveva finito di sciare per quel giorno. Sganciò gli sci, li lisciò come per accarezzarli e le sue mani si riempirono di fango. Come tutto il suo corpo. Chiuse gli occhi. Tutti gli eravamo attorno. Cochis gli saltellava accanto felice. Noi, ugualmente commossi, lo riempivamo di pacche sulle spalle. Qualcuno fra i più disincantati iniziò ad urlare:
“Di-scor-so, di-scor-so, di-scor-so!”.
E Borghetto lo fece. A modo suo, ma lo fece.
Si rivolse a Dino Cochis, che lo guardava adorante come una mamma col proprio figliolo, e a voce bassa, in dialetto, disse:
“T’è cuntàintu Dino?”