L’uomo dalle suole di vento
Il primo racconto su Chieketé l’ho scritto convinta da Riccardo dopo avergli spiegato la storia di mia bisnonna Felicita. Con entusiasmo mi ha spinta a proseguire e sono saltate fuori le vicende di nonna, papà e amenità varie. Finiti gli argomenti vicini, ho provato a guardarmi intorno. E’ bastato sapere dal gruppo che il maggior collezionista della Buona Parola della Parrocchia di Serravalle era stato tal Vittorio Rampa e ho coinvolto l’amica Paola che, va da sé, di cognome fa Rampa.
Dal vecchio indirizzo di Vittorio a Genova è stato possibile risalire ad un diretto discendente e abbiamo fatto il possibile per scovare copie mancanti. Non siamo state fortunate, tuttavia abbiamo avuto l’opportunità di ricostruire piccoli pezzi di storie antiche.
Mia zia Maria, sorella di mia nonna l’inossidabile Lina a Capouna, aveva sposato negli anni 20 del secolo scorso un Rampa parente della Paola; di lei sapevo che trascorreva molte notti tenendo compagnia al marito mentre costruiva casse da morto. Ai tempi non si sceglievano feretri belli e pronti alle pompe funebri ma i congiunti chiamavano il falegname che preparava la bara per il funerale del giorno dopo.
Tralasciando ora quest’uomo che si occupava forse solo di casse e affini, abbiamo invece riscoperto una dinastia, i Rampa, di valenti falegnami.
Attilio, proveniente in origine da Bettole di Rivalta e bisnonno della Paola, aveva la bottega accanto alla Chiesa dei rossi e tramandato l’arte e la tecnica di lavorare il legno al figlio Pietro.
Su una parete della falegnameria era addirittura dipinto il loro albero genealogico, purtroppo andato perduto cancellato da mani improvvide.
Intarsiavano di fino mobili di legni pregiati, creando probabilmente alcuni arredi delle chiese a Serravalle.
Attilio faceva la sua parte nella comunità anche come Priore della Confraternita della Trinità nell’Oratorio dei rossi ed è arrivata fino a noi la cantilena che lo accompagnava ogni giorno:
“ Cu souna l’è Rampa, l’è Rampa cu souna!” canticchiavano i compaesani mentre sulla torre armeggiava con tiranti e battaglio.
Speravamo di poter confezionare un articolo su più generazioni di artigiani ma al momento non abbiamo molte altre informazioni. Primo o poi qualcos’altro salterà fuori, però una cosa è successa. Con la Paola ho trascorso un pomeriggio con suo padre che oggi ha superato brillantemente gli ottant’anni. Secondo tradizione si chiama Attilio (detto Ilio) e vive in una bella villa a Porta Genova, costruita con possenti travi uscite dal laboratorio di famiglia.
Una parola tira l’altra e, si sa, dentro qualsiasi persona c’è una storia che aspetta di essere raccontata.
Dalla voce di Ilio sono scaturiti ricordi di quando, davanti alla Sepo, il soldato Rudolf tagliava il pane per i bambini, della sua famiglia costretta dai tedeschi a lasciare casa e a rifugiarsi tra gli sfollati in Gazzolo, dove il Marchese De Fornari al pomeriggio gli passava pane e marmellata.
Villa Balbi, a monte di casa Rampa, era intanto diventata un comando nazista e solo molto tempo dopo la guerra, casualmente durante il rifacimento del selciato, si era scoperto che tutta la proprietà brulicava di mine.
Siamo presto passati ai fasti del calcio giocato da attaccante nel Libarna, apprendendo che le rovesciate allora erano quasi un obbligo: nessuno ci teneva a “darci di testa” perché il pallone aveva cuciture a vista che se non lo beccavi nel punto giusto ti tagliava la fronte.
Insomma ci ha raccontato tante cose interessanti ma nella mia mente tornava sempre l’uomo delle corse come l’avevo visto cento volte da bambina, in maglietta e pantaloncini corti, quelli di raso lucido di moda negli anni settanta. Ogni volta andava o tornava da una competizione podistica.
E’ bastato quindi toccare l’argomento per far scattare lo start.
Sono emersi dalle mani di Ilio due quadernetti che mi hanno lasciata di stucco. Disordinata quale sono, ho visto elencati con precisione amanuense tutte le sue corse, dalla prima il 5 settembre del 1974 all’ultima il 5 ottobre del 2014: 2463 gare!
Alla prima, i Brichi ‘d Seravale da 18 km, aveva partecipato con gli amici per curiosità, per vedere un po’ com’è. Con ogni probabilità, vista la data, quel giorno c’era anche mia sorella tredicenne che, con lungimiranza fantozziana, aveva preso il via con su un paio di sneaker Superga di tela nuove di pacca anche se lo sanno anche i sassi che le Superga, almeno quelle di quell’epoca, le dovevi calzare poco per volta per allargarle e renderle innocue.
Al traguardo in Piazza del Mercato la Lina la dava già per dispersa, quando finalmente dalla Croce Rossa era spuntata fuori la nipote con due hamburger al posto dei piedi.
Tornando a Ilio, con gli amici dopo la prima prova, hanno pensato: Ma se ci alleniamo un po’ invece “d’caminò a pudema curì!”
Sull’onda dei racconti abbiamo ripercorso chilometri sotto il sole cocente o sotto la pioggia dall’inizio alla fine, attraverso i paesi delle risaie dove al termine della gara i concorrenti venivano rifocillati persino col risotto; avvertito la passione con la quale ha superato la fatica, le zanzare a mucchi nei capelli, le bisce lungo i sentieri.
A Vaprio d’Agogna nel 1979 i partecipanti erano talmente numerosi che, approfittando dell’incrocio delle vie, gli organizzatori fino all’ultimo istante non avevano mostrato la linea di partenza temendo che qualcuno facesse il furbo e partisse con largo anticipo.
Ha ricordato il giorno in cui preso dal “fur fur” aveva partecipato a tre gare, mattina, pomeriggio e sera. Finito il tour de force poi c’era da portare la Carla al cinema Italia a vedere Luci della Ribalta. “A nö vistu neinte, ö drumiu tütu u taimpu” ha sussurrato quasi a scusarsi ancora con quella moglie così paziente.
Corri, corri, non si è più fermato. Spesso con gli amici, tra i tanti Giancarlo Casanova, Mirco Morando e Francesco Mersoni, sempre con la ferma convinzione di non andare oltre al puro amore per la corsa, senza mai pretese di vittoria o competizione. Solo per il piacere di stare insieme, di ammirare panorami nuovi, per la convivialità tra partecipanti.
Ci sono altre ragioni che spingono un uomo a correre? Perché ci si mette in gioco con con le proprie sole forze, si focalizza un obiettivo e lo si vuole raggiungere. Perché, anche se ce ne dimentichiamo, siamo nati per correre, altrimenti avremmo potuto avere le dita dei piedi lunghe come quelle delle mani. E’ l’evoluzione unita alla forza dell’intelletto.
La corsa è una metafora della ricerca della pace interiore. Aiuta ad aprire la mente, a spingerti un po’ più in là. Ogni passo che tocca la terra è un mantra, un rosario che si snocciola, un orologio dove a un ticchettio ne seguirà un altro uguale.
Ilio, forse l’ha imparato dalle corse, è un uomo senza passi fuori dal sentiero.
Con i taccuini a rammentargli che ogni cosa ha tempi e misure precisi, non ama vivere in prima fila, farsi notare per eccessi o bischerate.
A Serravalle è facile ricordare personaggi guasconi, estroversi e chi per natura ha avuto una vita sopra le righe. Eppure anche Attilio Rampa è un grande personaggio del paese con le sue 2463 gare che ne fanno, tirando in ballo il mio mito Arthur Rimbaud, letterato e giramondo, un uomo dalle suole di vento.
Alla fine, quando pensi che ti abbia detto tutto, Ilio ti stupisce ancora. Sfodera, tra mille coppe e medaglie, due fogli in bella calligrafia e ci regala un’altra storia.
In un periodo in cui a Serravalle nei soliti giri di bar e barbieri non si parlava altro che del libro di Romolo Benasso e delle poesie di Gianni Bobbio, camminando verso casa si è chiesto “ti vö dì c’an son no boun de scrivè na puesia in dialetu anche mi?”
E come per la marcia, senza voglia di vantarsi o di prevaricare ma solo per provarlo a sé stesso, ha preso carta e penna ed ha scritto una gustosa poesia in dialetto. Ironia e garbo a braccetto.
Qualcuno gli aveva già chiesto questo testo senza ottenerlo. Io ce l’ho fatta forse avvantaggiata dall’amicizia con la figlia. Non so, ma dal profondo del cuore dico grazie all’Uomo dalle Suole di Vento.
Ecco a voi:
STA VOTA AG SEMU
Na mateina in po’ a bunua
quandu u su otu u ne ‘ncua
in te e paise per catò
e u nevu a scöa cumpagnò.
Bagunaundu avaunti e ‘ndré
a fag na tapa da e barbé
a cuntò e solite musse
inter, juve e culpi d’tuse.
Öin u ga l’ortu, l’otru u va n’ferie
em finiu d’parlò id cosse serie,
u vena u discursu du libru du Giani
stavota ag semu ma i son pasé id ani.
Ug painsa e Comüne a fol püblicò
e prublema pü grosu l’e pudelu truvò.
Am presaintu au giurnalò
libri ki in ghe nan purtò.
Alua a vagu in libreria
anche lì un ghe ne mia
se pö a vagu da e besagnein
ag fagu sul giò e belein.
Parlem no da farmacia
i ciapa a scua e im manda via
as pontu qui a son disperò
l’e gme sercò n’agugia nt’in paiò
Stüdia, painsa, un ghé de scampu
tut’an culpu um vena n’lampu
in ti n’atimu um suvena
id fo n’sotu a Cafarena.
A na sciua ögi brudusi
a fagu n’segnu e ag digu:“scusi”
femu prestu, poche bale
le u vö u libru d’Seravale
E mi lestu alua ag fasu
quel du Giani, no d’Benasu.
A porta e as torsa gme na bisa
e n’ti natimu a sparisa
Dopo un po’ a riva e as seta
am da u libru e na buleta
A son cuntaintu, un me pö veo
a glu fagu vede ae Peo
Gme cul veda um lu pia
per sercò na puesia
Dopo avei sfuiò mesua
un la tröva e u s’lamainta ancua
a rivu a cà e a son mes ciucu
a soun ‘d giò a son gnüu lucu
Dopo aveimla vista brüta
a mangiu in piatu d’pasta süta
queindi fatu n’bel sugnetu
a lesu u libru du dialetu.
Grazie Ilio e Paola per il tempo e i vostri ricordi.