Le borse della spesa. La storia di Said
Quando scrissi questo racconto, a Serravalle era cominciato il flusso migratorio massiccio dai paesi dell'Est, soprattutto di Albanesi, Rumeni e Ucraini (questi ultimi rappresentati da un nutritissimo stuolo di "BADANTI") mentre i nordafricani erano ancora pochissimi. Di quel periodo ne ricordo due soltanto, il primo un giovane di circa trent'anni che faceva il "vucumprà" e cercava di vendere camicie, calzini, blu jeans, fazzoletti e accendini con una scassatissima bancarella davanti alla trattoria "Da Giacomino", sulla strada per Cassano ai camionisti che si fermavano lì a mangiare, e l'altro, un giovane clandestino, il protagonista del racconto, che per qualche tempo si era accampato nella baracca del cantiere allora aperto presso le scuole nuove e che sbarcava il lunario facendo piccoli lavoretti, vendendo calzini, fazzoletti e accendini per le vie del paese, aiutando le signore a portare le borse della spesa lungo l'erte che portano a Borgonuovo o al Campo sportivo. Lo conobbi un sabato mattina nel salone del barbiere dove mi ero recato per tagliare i capelli. Entrò per ripararsi dalla pioggia e scaldarsi alla stufa del salone per cinque minuti. Poi notò che sugli specchi erano state inserite delle cartoline che gli amici del barbiere gli avevano spedito dalle loro vacanze. Ne prese una che raffigurava Marrakesh e si mise a decantare le bellezze del Marocco, a modo suo. Poi girò la cartolina e prese a baciare il francobollo: «Perchè lo fai?», gli domandò il barbiere. «Perchè sul francobollo c'è il mio Re, rispose il ragazzo...» B. Ciarlo Nota Bene: Tutti i nomi del racconto che segue sono frutto di fantasia.
LE BORSE DELLA SPESA
Il viale alberato rappresentava una salita improba per le due signore che tornavano a casa. Le borse della spesa, pesantissime, opprimevano le loro braccia non meno di quanto l’erta opprimesse i loro passi lenti. Il vento sferzava la strada e rendeva paonazzi i loro volti intrufolando polvere negli occhi . Le signore si vedevano costrette, ogni due passi, a posare le borse per riprender fiato e asciugarsi le lacrime, naturale reazione all’irritazione causata dalla polvere.
Il viale era, da un lato, costeggiato dalle piante secolari che limitavano l’area del parco pubblico, abeti poderosi che muggivano sotto l’azione del vento e, dall’altro, da una fila ordinata d’ippocastani altrettanto enormi. Sulla strada i loro frutti cadevano producendo tonfi sordi e rotolavano fino alle cunette dell’inizio della salita dove s’ammucchiavano occludendo le feritoie per lo scolo delle acque piovane.
Dalla via laterale che portava all’edificio delle scuole medie in costruzione, sbucò un giovane di circa vent’anni, che avanzando gagliardo nella loro direzione con le mani in tasca, sembrava non patire il vento gelido. Indossava un maglione consunto e un paio di braghe tutt’altro che adatte alla stagione autunnale. La pelle olivastra del suo viso mostrava comunque dei tratti più chiari, quasi grigi, a testimoniare che abbigliarsi in quel modo non era stata una scelta.
S’avvicinò alle donne salutandole e poi chiese:
«Si vo’, io aiuta porta borse. Prego, io aiuta portare borse, voi troppo stanche!»
Le due si guardarono per un momento, sorridendo, tentate di accettare. Certo, affidare le borse della spesa ad un ragazzo extracomunitario mal in arnese non appariva un’idea saggia. Metti che costui appena avuto in mano le sporte si fosse messo a correre? Chi mai avrebbe avuto la forza di raggiungerlo o di gridare “al ladro”? Se ne sentivano di tutti i colori sui furti piccoli e grossi fatti da questi sbandati. Negli occhi del giovane non erano, però, leggibili cattive intenzioni.
«Perché lo faresti?» chiese al giovane la più anziana delle donne.
«Perché voi stanche e senza fiato. Poi voi date me qualche cosa… sicuru sicuru un euro, no? Io fame.»
Che avesse fame non v’era il minimo dubbio. Serena, la meno anziana delle due, si risolse a porgergli le borse. Che le rubasse pure, pensò. L’altra, Marisa, ancora diffidava.
«Come ti chiami?» gli chiese;
«Mio nome Said», le rispose il giovane.
Il vento rinforzò all’improvviso. Marisa vinse ogni esitazione e consegnò a sua volta le borse con la spesa a Said, ringraziandolo. Questi se le caricò a due per due su ciascuna spalla e, invece di fuggire via come temevano, mantenne il passo lento delle donne camminando al loro fianco.
«Da dove vieni Said?» chiese Serena-
«Io dormo in capanno attrezzi vicino scuola, non ho casa ancora. Non ho lavoro per pagare casa. Senza lavoro sicuru nenti soldi, nessuno mi fitta casa….»
«No, Said, volevo dire, da quale paese provieni?»
«Di Marocco. Cercavo mio fratello grande, Mustafà. Lui qui da tempo lungo. Però ora non c’è. Personne sa dove stare lui. Sono tre giorni che io sta qui ma lui niente non venuto a cercare me. Prima stavo a Roma in centro accoglienza. Poi fuggito per trovare Mustafà.»
Man mano che procedevano, nel cuore di Said si faceva strada la speranza che forse quella mattina avrebbe mangiato qualcosa finalmente. Le donne sembravano burbere, però confidava nel fatto di averle mosse a pietà. La fame era così forte che temeva di svenire da un momento all’altro. Dopo qualche minuto giunsero sul portone del condominio. Said portò le borse fino all’ascensore. Le donne si sdebitarono consegnando ciascuna un euro al giovanotto e lo salutarono. La delusione sul suo volto era evidente. Mentre stava per tornare fuori, Serena lo fermò.
«Said?»
«Si, Madame»
«Vuoi mangiare qualcosa?»
«Magari! sicuru, certu madame. Merci Madame.»
Gli fecero posto e salì con loro. Al terzo piano Marisa, prima di lasciarli, con un sorriso disse sottovoce a Serena :
«Sta attenta, gli altri condomini potrebbero adirarsi se sapessero che lo hai fatto entrare.»
Serena alzò le spalle quasi a scacciare il fastidio per quell’avvertimento e sorrise a sua volta. Loro proseguirono fino al quinto.
Serena era vedova ed aveva due figli. Il primo, sposato, viveva a Genova e l’altro, più o meno della stessa età del giovane affamato, faceva il servizio militare a Novara. Certo Stefano, così si chiamava suo figlio più giovane, era più robusto di Said, più alto e non aveva mai sofferto la fame.
Entrarono in cucina. Li accolse il tepore d’una casa molto pulita, ben ordinata. Said esitava, con le borse in mano, aspettando indicazioni per capire dove posarle. Mentre Serena appendeva il cappotto all’attaccapanni dell’entrata gli disse: «Poggia pure tutto sul tavolo e siediti che ora ti preparo qualcosa… ».
Said s’accorse d’essere in imbarazzo. Sedette sul lato corto del tavolo verso la porta e pensò che la signora si sarebbe accorta, adesso, di quanto puzzasse. Erano giorni che non si lavava. E nonostante il freddo pungente continuava a sudare come quando era in Africa. Guardò il suo maglione liso e pieno di macchie, i suoi pantaloni di cui non riusciva a cogliere più il colore originale, le sue scarpe scalcagnate. Osservò il nitore di quella cucina, l’ordine meticoloso che vi regnava ed il suo disagio aumentò. Quasi non udì Serena che gli stava chiedendo se con le uova volesse della pancetta.
«No, prego, Madame, meglio no.»
La donna evitò d’indagare per appurare se il rifiuto fosse legato alla religione del giovane. Poi, da madre esperta, fece sciogliere due sottilette nelle uova e pose davanti a Said un bel piatto fumante, un panino e un bicchiere di latte freddo.
Il giovane dovette fare sforzi enormi per mangiare e contemporaneamente darsi un po’ di contegno. Serena mangiò con lui le stesse cose. Said era confuso. Non aveva mai ricevuto un minimo d’attenzione da quando era in Italia, da nessuno. Anzi, i più lo scacciavano come un cammello pigro. Pensavano di lui, evidentemente, che fosse un fannullone. Mai nessuno gli aveva concesso però di lavorare, a Roma. Forse Mustafà non aveva torto quando gli scrisse che qui la gente era un po’ più buona che altrove.
Terminò la colazione e, rosso in viso, ringraziò Serena. Si alzò per andarsene ma la donna lo trattenne.
« Aspetta, ho qualcosa da darti»
Il giovane marocchino restò muto e in piedi in attesa che la donna tornasse. Dopo cinque minuti Serena tornò con un voluminoso pacco.
«Ci sono un po’ di vestiti e un paio di scarpe. Dovrebbero andarti bene.»
«Merci, madame. Tu molto buona con me.»
In quel momento suonarono. Serena aprì la porta e Marisa entrò reggendo un cappotto grigio ancora in ottimo stato per regalarlo a Said.
« Fa freddo qui, ti sarà utile» si limitò a dirgli e se ne tornò di sotto senza dar tempo al giovane di ringraziarla né a Serena di salutarla.
«Vado ora. Io molto contento. Voi molto … molto…» Non seppe terminare la frase.
Da allora, per giorni e giorni, tutte le mattine, Said attendeva all’inizio della salita che le due signore arrivassero. Toglieva loro di mano le borse e se le caricava in spalla facendo quel ripido tratto di strada con loro. Stava assumendo le caratteristiche di un rito. Ora era vestito decentemente, aveva un buon paio di scarpe e, se proprio faceva tanto freddo indossava un cappotto largo ma pesante al punto giusto da difenderlo contro un malanno. Preferiva di gran lunga il giubbotto di pelle imbottito di lana di pecora che Serena gli aveva regalato con gli altri vestiti. Non lo indossava spesso, per paura di rovinarlo. Quando lo aveva addosso provava la stessa sensazione che Stefano, il figlio di Serena doveva aver provato molto tempo prima: immaginava di essere un pilota di aerei da caccia. Ai suoi occhi non aveva importanza che fosse liso e pieno di crepe, lo aveva nascosto con gli altri suoi tesori nel fondo del capanno degli attrezzi e spesso andava a controllare che fosse al suo posto.
Provava imbarazzo ad accettare l’euro che ciascuna delle donne gli regalava. Però non poteva far a meno di intascarli perché all’orizzonte non vi era altro mezzo di sostentamento. Sì qualcuno gli dava da fare dei lavoretti, però alla fine della giornata i soldi racimolati erano appena sufficienti per comprare un po’ di pane e del formaggio, oltre che una bottiglia d’acqua. Ostinatamente si rifiutava di chiedere l’elemosina come aveva visto fare a molti altri. Sì la carità non gli dispiaceva, anzi, ringraziava mentalmente l’Altissimo quando trovava una persona gentile. Ma era più forte di lui, doveva dare qualcosa in cambio e subito. Voleva essere utile, voleva guadagnarsi il necessario lavorando, non elemosinando.
Una mattina non si presentò all’appuntamento. E così le successive. Marisa e Serena pensarono che si fosse ricongiunto finalmente col fratello.
Incontrarono il bidello delle medie e gli chiesero se aveva più visto un ragazzo così e così…
«Chi, Said? »
« Lo conosce?»
«Sì, lo conosco, è un bravo figliolo. Non “sta più da me”», concluse alludendo al capanno « è dovuto partire per Milano, credo» e non seppe dare altre spiegazioni.
Una domenica dell’anno successivo, verso le tre del pomeriggio, lungo la salita alberata, una vecchia Uno rombava arrancando nella neve disciolta. Si fermò emettendo scoppiettii e fumo davanti al condominio. Ne discese Said che recava in mano una cassetta di vimini intrecciati. Indossava il giubbotto imbottito con lana di pecora. Indugiò a lungo davanti al citofono prima di decidersi a suonare un campanello. Attese qualche minuto e, non ricevendo risposta pensò che Serena fosse uscita. “Non importa”, si disse, “starò qui ad aspettarla”.
Depose il pacco in macchina e restò di fuori sperando di vederla arrivare dal viale.
Invece giunsero Marisa e il marito. Questi guardò con aria truce il giovane e quella macchina disastrata parcheggiata nell’area riservata ai condomini. Stava per inveire, quando la moglie lo fermò.
«E’ Said! Ciao, Said! Che bella sorpresa!
«Buon giorno signora Marisa, buon giorno, signore », disse Said sorridendo sia a lei che all’uomo che, nel frattempo s’era calmato. Marisa non potè far a meno di constatare di quanto fossero migliorati sia l’aspetto che l’italiano del giovane marocchino.
« La signora Serena non c’è? »
« Non lo so, hai suonato? »
« Sì, non risponde. Poi sarei passato anche da lei, signora Marisa. Ecco, aspetti… ». e così dicendo prese dal sedile posteriore un altro pacchetto, « Questo è per lei.»
Adesso era la donna ad essere confusa e incuriosita. Avrebbe voluto fargli tante domande, avrebbe voluto invitarlo in casa. Si limitò, però a dirgli soltanto un “grazie” per il dono. Esitò a lungo senza dire altro, temendo d’irritare il marito che aveva moltissimi pregiudizi sugli extracomunitari. Gli chiese, infine:
« Ora vivi a Milano?»
« No, a Milano ci sono stato soltanto un giorno per andare a trovare mio fratello. Vivo vicino a Brescia. Ho trovato lavoro e ora sono in regola».
«Bravo, sono contenta per te».
Marisa salutò ancora il ragazzo ed entrò con il marito nell’androne. Il portone interno si richiuse alle loro spalle.
L’attesa non produsse frutti. Così Said cominciò a pensare al ritorno. Doveva rincasare. Lo attendeva un lunedì di lavoro, di primo turno.
Strappo’ un foglio di carta da un taccuino che aveva nel cruscotto e vergò poche righe. Infilò il biglietto tra i vimini del coperchio del pacco di datteri e fichi secchi che depose sulla cassettiera delle lettere. Poi strappò un altro foglio e vi scrisse in uno stampatello stentato: PER SIGNORA SERENA.
“Carissima Signora, in Italia, a scuola, mi hanno parlato degli Angeli. Ma io già ne ho conosciuto uno, che è lei. Grazie molto perché mi ha trattato da uomo, come figlio. Ora lavoro in una trafileria a Brescia. Ho il permesso di soggiorno. Ho tanto desiderio di parlare con lei. Ho pure il telefonino adesso. Mi chiama per favore? 347…. Said”