U Signù e i séingri
Esistono due tipi di “poveri”: è legère e i ligeròuni. I primi sono persone a cui la vita non ha mai sorriso, gli altri sono probabilmente anche stati toccati, almeno una volta nella vita, dalla buona sorte ma hanno rifiutato di cambiar modo d’essere in conseguenza della fortuna dell’occasione incontrata, preferendo continuare a menare una esistenza fatta di stenti ma anche di assoluta anarchia verso sé stessi… forse a qualcuno va bene così… Lo stesso dicasi per gli zingari: séingri ossia persone di etnìa rom e singròuni ossia “professionisti” ed habituè di una vita nomade.
Questa premessa ci ricorda che “nessuno è più irreprensibile di altri” ed ha il dovere di pensare a giustificare le proprie azioni prima di valutare quelle degli altri. I cosiddetti bravi ed i cosiddetti cattivi sono tutti imputati davanti a Dio che fa sorgere il suo sole indistintamente sugli uini e gli altri. Questo lo si vede ad esempio nel presepe in cui si può inserire ogni ambientazione ed ogni personaggio (anche quelli più avulsi dalla Natività) perché Cristo ha inteso nascere per tutti, dappertutto; lo stesso dicasi per gli “spettatori” più eterogenei che circolano attorno al Calvario, visto che Cristo è morto pure per tutti (si è offerto “per molti”, nel senso che avrebbe voluto immolarsi per tutti ma c’è chi ha accettato questo gesto e chi invece gli è restato indifferente). Sicché, come nel presepe c’è ad esempio il dormiente che continua il suo sonno voltando le spalle alla grotta, chi direbbe che pure gli zingari trovano posto nella Passione di Cristo ove, anziché dormire, avrebbero agito con un certo dinamismo di cui diremo tra poco?
Gli zingari entrano in scena nel momento della crocifissione, secondo modelli e soggetti di iconografia sviluppatisi in Oriente ed in seguito, una volta giunti nel Mediterraneo, passati nell’arte occidentale.
L’attribuzione agli zingari di aver fabbricato i chiodi della crocifissione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ha origine nell’immaginario negativo che li accompagna, ma dalla fama di eccellenti fabbri/artigiani dei metalli, di cui essi godevano nell’impero bizantino. Tutte le fonti del tempo riferiscono infatti che vi erano comunità zingare di fabbri dediti alla lavorazione dei metalli, specializzati nella fabbricazione dei chiodi.
Non solo l’iconografia, ma anche la musica ha in diverse occasioni ricordato questa abilità del popolo rom: celeberrimo in questo senso il “Coro degli Zingari (Chi del gitano i giorni abbella)” del Trovatore nel quale Giuseppe Verdi introduce, come elemento orchestrale per cadenzare il ritmo, l’incudine e il martello.
Del resto chi non ricorda gli zingari che fino a pochi decenni fa passavano pure nei nostri paesi chiedendo pentole da riparare o utensili ed altri oggetti da stagnare (reminiscenze della metallurgia che fu la loro specializzazione storica)? In fondo anche quelli che oggigiorno vediamo impegnati nelle loro attività, si occupano di raccolta di materiali ferrosi o di rame e ottone. Lavori di manualità e che richiedano attrezzature ed utensili poco ingombranti da trasportare, sono del resto funzionali a popoli nomadi, lo stesso accadde per esempio agli ebrei che dopo la diaspora si specializzarono nell’orologeria o nel traffico degli oggetti preziosi e delle valute.
In alcune scene della crocifissione e/o della deposizione di Cristo dalla Croce, compare la figura di uno zingaro che mette/toglie i chiodi. Qui lo zingaro è una figura positiva, sostitutiva o complementare di Nicodemo, il discepolo di Gesù che, nel racconto evangelico, accompagna Giuseppe d’Arimatea sul Calvario e lo aiuta a calare dalla croce il corpo di Gesù una volta schiodato.
A Serravalle un richiamo indiretto a questo popolo è presente nel “compianto”. Tra le figure che lo compongono c’è quella, appunto, di Nicodemo, che assiste alla deposizione dalla Croce piangendo. Tiene nella mano destra un fazzoletto (questo oggetto nonché l’atteggiamento del personaggio, nel tempo hanno incuriosito molto i fedeli) e nella sinistra i chiodi della crocifissione. Qualche anno fa, in occasione del restauro del nostro gruppo statuario, essi vennero rimossi assieme alla croce collocata sul retro della “scena”, perché ritenuti non coevi al manufatto ma questo nulla toglie al simbolismo che li accompagna, quindi sarebbero da ricollocare, come pure il vaso di cui si dirà nelle righe che seguono.
Possiamo supporre che i nostri vecchi, che usavano molto i simboli e le testimonianze materiali per trasmettere un messaggio, per catechizzare, per evangelizzare, ecc. avessero presente almeno la leggenda dello zingaro e che in qualche modo l’avessero voluta trasferire anche sul “compianto”, mettendo i chiodi della crocifissione in mano alla statua di Nicodemo del gruppo scultoreo custodito nell’Oratorio dei “bianchi”.
Alcuni altri elementi -trasposti- richiamano ugualmente la presenza dei Rom nella Passione, e questo anche per un motivo preciso: riabilitare in qualche modo questo popolo (ricollocarlo almeno un poco più vicino al Signore) altrimenti equiparato alla pessima reputazione e conseguente condanna dell’ebreo errante, ossia ad un nomadismo senza fine e senza pace.
Nel “compianto” serravallese pure Giuseppe d’Arimatea (in atto di sorreggere il Cristo morto, appena deposto dalla croce) porta in sé elementi e dettagli indicati come specificamente caratterizzanti lo zingaro della leggenda: indossa pantaloni rossi, corpetto verde, turbante, ed ha una postura simile a quella dello zingaro che -nella richiamata iconografia della crocifissione- tiene adagiata la croce su cui un altro addetto (forse zingaro pure lui) sta inchiodando Gesù.
E’ evidente che si tratta di modelli iconografici provenienti da lontano, ossia gli artisti non erano locali o non erano comunque fermi al gusto locale: sapevano il fatto loro, erano preparati ed erano sensibili o toccati dagli influssi che la loro arte riceveva dall’esterno. Cosicché non è inusuale trovare analogie in opere di zone lontanissime tra loro. E’ stupefacente la sensibilità dei pittori tardo-gotici in particolare, che hanno saputo cogliere tutti i dettagli che in queste righe cerchiamo di illustrare, cosa che ci fa capire come i Rom, fin dal loro arrivo in Europa, entrino a pieno titolo a far parte della cultura e della storia del nostro continente, che tende ad ignorare questo importante “tema” artistico. Queste espressioni iniziano a trovare posto nella raffigurazione della Crocifissione quando le prime comunità di zingari arrivarono nel centro Europa agli inizi del XV secolo, fuggendo davanti all’avanzata dei turchi ottomani (non a caso a Serravalle si svilupperà una confraternita -i “rossi”- dedita al riscatto dei cristiani catturati dai Saraceni).
Narra ancora la leggenda che (in accordo con l’iconografia bizantina) i chiodi non erano 3 ma 4, due per le mani e due per i piedi (secondo un’altra versione erano addirittura 5, uno pure per trafiggere il cuore della Madonna, evocativo del passo evangelico “un pugnale ti trafiggerà l’anima”). Alla tradizione degli zingari chiodaioli fa però da contraltare un’altra leggenda, secondo la quale, quando Cristo era appena stato crocifisso, una zingara presente alla scena fu mossa a compassione e per alleviare in qualche modo la sofferenza del Signore, cercò di estrarre i chiodi riuscendo a sottrarne solo uno. C’è da immaginare che con la narrazione di questo episodio gli zingari cercassero di mitigare la fama che li metteva in cattiva luce nel mondo cristiano, volgendo tale noméa a loro favore in modo da produrre di sé un’immagine positiva (mentre il chiodarolo sarebbe stato addirittura aiutato dalla moglie che avrebbe portato la produzione dei chiodi da 3 a 4 o 5, invece la donna che assiste alla crocifissione -forse anche qui sempre la moglie del fabbro- cerca di ridurre i patimenti che accompagnano il supplizio rimuovendo gli strumenti necessari ad attuarlo).
Ma come mai questi personaggi assolutamente nuovi (i gitani) pur entrando in scena non convergono poi attorno al Calvario ma si muovono in direzione opposta, come se stessero fuggendo/uscendo da esso? Ciò avvalorerebbe l’ulteriore ipotesi (tra le tante che circondano questo originale popolo) che siano fuggiti prima della crocifissione di Cristo portandosi dietro il quarto chiodo di cui sopra come “trofeo”.
Avendo presenti i prototipi ed analizzandoli meticolosamente per capire quali indicazioni portano, si osserva che nei “movimenti” della scena-tipo uno dei fuggiaschi si sta allontanando, tenendo un secchiello sottobraccio -come per nasconderlo- dopo averlo preso dal luogo della crocifissione. Presumibilmente si tratta del recipiente in cui ha nascosto il chiodo, e questo contenitore altro non sarebbe che il vaso posto accanto alla croce, dove i Vangeli indicano fosse l’aceto nel quale venne intinta la spugna presentata a Cristo quando chiese da bere. Nel nostro Oratorio dei “bianchi” abbiamo rinvenuto un vaso di terracotta di dimensioni proporzionate al “compianto”, vaso che pare servisse appunto per l’allestimento del c.d. “sepolcro”. I nostri predecessori rammentavano che esso fosse stato realizzato nel secolo scorso dai sagrestani dell’Arciconfraternita (essi avrebbero pure realizzato alcune statuine per il presepe, statuine tuttavia disperse). Ora abbiamo qualche ragione in più per ricollocarlo al posto giusto ed evitare che finisca per fare di nuovo il giro dell’Oratorio come spesso usavano fare i vecchi sagrestani nei loro allestimenti, seppur in assoluta ingenuità, dove ogni occasione era motivo per spostare senza mèta oggetti a volte eterogenei tra loro, che finivano per essere mescolati cosicché non si ricordava più la loro destinazione originaria o attinente. Quel che anche qui, una volta di più, ci colpisce, è che probabilmente anche tra i gli “addobbatori” c’era chi aveva notizia delle leggende dei Rom che poi, possiamo ben immaginarcelo, costituivano una buona percentuale delle storie ed aneddoti da raccontare nelle lunghe veglie invernali od ai bambini per spaventarli: in valle Scriva e non solo, quelli cattivi vengono portati via dagli zingari, mica dall’uomo nero (anche se poi gli stessi zingari hanno pelle scura e pure i magnan ossia i calderai -spesso di etnia Rom, come si è detto all’inizio, presentano volti anneriti dall’uso delle forge usate nel loro mestiere… in sostanza sono stereotipi che si rincorrono).
Mi piace immaginare qualche nostro concittadino (in particolare qualche nostra nonna che accompagnava i nipotini a Messa) fermo davanti alla Deposizione, in atto di preghiera ma anche di osservazione, mentre addita le varie figure agli astanti, che a volte finisce in buona fede per sbagliare personaggi e ricamarci sopra chissà quale storia, e che si rivolge a chi gli è di fianco esclamando:“guàcia u Signù… e anke quei k’ igh soun d’avséin… is mìa propiu ‘d i sèingri!” (per non dire delle eventuali deduzioni, leggende o favole relativamente a kisà xe kl’é kugh’a ‘n te i man e e perké… a nu sö, a ‘n lu capisu mia… forsi… i m’u diva i végi ma mi an me ricordu… guacia ‘m po ti ke ti stűdi o ke t’è seimpre dai previ…).