Le gite della Pia Borasi
Nel silenzio della notte più profonda di una primavera di tanti anni fa la figura di una donna si staglia davanti a un portone, chiude a doppia mandata e si incammina, aggiustandosi il fazzoletto legato sotto il mento.
Fra le tenebre si scorgono sagome scure che attraversano Via Berthoud trascinando bambini per mano. Una lenta processione prende forma, una fila di ombre cinesi si muove verso un’unica direzione.
Nella Piazza della chiesa sta per arrivare la corriera. Oggi è il giorno della gita.
La TV si è introdotta nelle case e tutti hanno negli occhi Intervallo e Carosello con immagini di piazze e scorci di famose e bellissime città italiane. Località che tre quarti dei Serravallesi possono ammirare attraverso il tubo catodico.
Sarà il tam tam quotidiano di queste visioni, sarà che le leve del commercio stanno tessendo la tela e sanno come ammaliare milioni di potenziali clienti, ma gli spettatori ora vogliono fare un passo avanti, oltrepassare il piccolo schermo e colorare ciò che la tv può regalare solo in bianco e nero.
Probabilmente anche il clero, oltre all’encomiabile impegno volto ad ampliare gli orizzonti e fortificare lo spirito dei fedeli in splendidi luoghi di culto, ha intravisto un business; di certo offre un favoloso volano al turismo di massa che sta per irrompere nella vita di chiunque.
Nella Serravalle d’antan i fautori e factotum delle gite sono la Pia e l’arciprete.
Il mese antecedente la partenza la bottega della Pia, un’agraria ante litteram, si trasforma in una vera centrale operativa.
Entrando, oltre che dall’odore acre di una mescolanza indecifrabile di semenze e prodotti multiformi per ortocoltura, la sensazione è di essere avvolti da tutte le gradazioni del marrone. Dai sacconi di juta al pavimento ai mobili fino alla “cappa” che la proprietaria indossa in orario di lavoro, tutto è declinato nelle sfumature dal beige all’ebano più scuro.
L’unica macchia a contrasto sono gli occhi azzurri e taglienti della Pia e il suo volto magro e spigoloso come un’aquila. Chiaro fin da subito che per lei le cose vanno fatte a puntino, il capo di stato maggiore delle gite serravallesi non è donna da margini d’errore.
Mia nonna Lina la “Capouna”, annusata aria di gita all’orizzonte, si precipita al negozio non tanto per dare una mano nell’organizzazione quanto per perorare la causa della meta a Padova, essendo sant’Antonio il santo di riferimento, quello che con il giglio e il Bambino in braccio domina dall’alto la sua cucina.
Una volta definito il protocollo la Pia sguinzaglia la Lina e le sue amiche, soldatesse in prima linea che leste scendono in campo per diffondere la lieta novella e raccogliere adesioni.
Per meglio immergersi in quei tempi lontani ricordo una storiella che riguarda mia nonna e la cognata Nora. In villeggiatura presso parenti a Genova Quinto, vengono colte dall’improcrastinabile desiderio di oltrepassare la frontiera per scoprire cosa c’è dopo l’Italia. Salgono su un treno locale perché mia zia adora stare al finestrino il maggior tempo possibile. Varcato il confine si trovano davanti il primo paese francese, Sortie. Alla seconda fermata la Lina chiede “’Nde ca sema Nora?” Con grande sorpresa “a Sortie!” “Painsa tì che afore, i gan datu u stesu nume sti fransaisi”. Al terzo sono costernate e al quarto, scrutando finalmente con cura, si accorgono che il cartello col nome della città è un altro e sortie è ovviamente l’uscita.
Ora, nonna e zia non sono complete sprovvedute. E’ vero, non hanno studiato ma sono comunque intelligenti e scaltre. Inoltre uscire in dialetto si dice “surtì”.
Il nocciolo è che le due donne sono talmente abbagliate dalla novità, dalla felicità di vivere quel momento così esotico e estraneo alla vita di tutti i giorni che il loro raziocinio si è momentaneamente interrotto. La testa gira come sull’ottovolante al lunapark.
E’ questo lo spirito con cui partono i parrocchiani, almeno quelli delle gite ai suoi albori. Semplicemente per dare forma e colore a una foto in bianco e nero, senza troppe aspettative e nessuna possibilità di rimanere delusi.
“Ti ngel’è no e fular? Aghn’ö dui mi”. “E su piöva?” l’ impermeabile, quello di plastica trasparente che sta in un sacchetto lungo 10 “citti ti g’le?”? E quattro o cinque panini perché “ti se asse’ “ se ti verrà fame durante il viaggio?
E cerotti, garza, medicine? sai mai che “tic pichi ‘na scramassa ‘n tera”. Ci sarà la farmacia? Mah.. meglio portarsi un po’ di tutto.
Io bambina aspetto in piazza masticando a fatica un grissino delle “Albigne” (Albinio in italiano, ora Mersoni) perché mia nonna non concede liquidi ma solo cibo solido. Teme che soffra il pullman e ha dotato le mie tasche di sacchetti di emergenza.
In virtù della carica di luogotenente e soprattutto perché è un mastino da sfondamento, la Lina ottiene per me un posto nelle prime file. Pare che davanti si patisca meno. In questo modo ho la perfetta visuale dei sedili 1 e 2, occupati dall’Arciprete Don Teresio Angeleri e dal capo di stato maggiore Pia che per l’occasione chiude in casa il marrone e indossa abiti finalmente a motivi floreali.
“Cu staga atainto, cu vaga pian m’racumandu” e l’autista annuisce con la testa, mentre dietro è un turbinio di borse, borsette, macchine fotografiche, rullini (sì, ci vogliono i rullini.. senza niente foto).
Per un po’ si prova a dormire anestetizzati dall’effluvio di lacca e permanenti nuove di zecca. Questa notte qualche “sciua” ha dormito con la retina in testa per non “scarlasarsi”. Si va ordinate in gita, “cui caveli” a posto.
L’eccitazione però è al massimo, è sufficiente una nottambula che intona “Noi vogliam Dio che è nostro Paaaadre, noi vogliam Dio che è nostro reeee!” ed esplode un coro allenato da anni e anni di messe e processioni che sostanzialmente non si fermerà fino all’arrivo.
La media dei partecipanti comprende un 80% di vedove, che la dice lunga sull’aspettativa di vita delle donne rispetto agli uomini, un 5% sono coppie, un 5% fantini e fantine (ora li chiamiamo single), e il resto ragazzi e bambini, per lo più nipoti delle sopra citate vedove.
L’abbigliamento non assomiglia neanche lontanamente a quello odierno: sono gonne, spesso con la piega davanti, camicette e giacchette casomai facesse freddo.
I pochi uomini hanno i soliti pantaloni di basen (oggi fustagno) e i mocassini. Persino per il prete ci vorrà qualche anno prima che lasci nell’armadio l’abito talare.
L’inesistenza di aria condizionata e della radio, i finestrini effetto phon, i sedili che si appiccicano alle gambe e gli ammortizzatori a molla che a ogni dosso intrecciano le budella non creano problemi a nessuno. Si va avanti a tutto spiano, si fa per dire, al massimo si fanno 70 km orari e questo spiega le partenze antelucane. Ogni tanto ci si deve fermare perché i servizi igienici sulla corriera non ci sono ma le tappe all’autogrill sono gradite, si possono comprare cose che in paese te le sogni.
Gli itinerari sono in linea di massima a sfondo religioso: la Sacra di San Michele, Sotto il Monte con annessa visita alla casa natia di papa Giovanni XXIII, Arona e il gigantesco San Carlone al cui interno ci si inerpica rischiando di precipitare o di morire soffocati, Padova e la basilica di Sant’Antonio, maximum gaudium di mia nonna.
A volte ci sono tour “laici” ma con S.Messa sempre inclusa: Venezia (che per me rimarrà il ricordo con la R maiuscola, quello di una giornata di pioggia battente, con i fratelli Rebuffo e il vaporetto che va in panne in mezzo alla laguna e le nostre nonne trasformate in boa constrictor che ci stritolano convinte di salvarci da annegamento certo), Macugnaga, Trieste con la tappa a Redipuglia per scovare parenti caduti durante la prima guerra mondiale, persino il Monte Bianco, dove oggi valuteremmo per ore la grammatura del piumino e quali scarponi da trekking indossare.
Invece qui scarpette “a brettiu”, gilet e via. E’ divertente guardare questa foto di mia nonna, l’Anita dei Rossi e altre amiche intorno a Freggiaro, il celeberrimo bottegaio “veloce”. Tolto il kway della Lina fregato a mia sorella che la proietta una decina d’anni avanti, sembrano persone in posa a Punta Helbronner a 3400 metri? No, eppure sono lì in mezzo alla neve, felici di esserci.
A parte le divagazioni, eccoci arrivati. I parrocchiani hanno realizzato il sogno: la città della tv si materializza finalmente in un prisma di colori. Lo stupore da bocca spalancata dura una manciata di minuti, vince l’impellente urgenza di fare la pipì. Ci si affastella al primo bar in allegra brigata.
Si va a messa come di consuetudine e poi di corsa a curiosare tra negozi e bancarelle di souvenir che spuntano come viole al primo sole dinanzi ad ogni sagrato, basilica o santuario.
Architetture, monumenti, dipinti e sculture belli sì, ma occorre fare in fretta e scegliere portachiavi, immaginette, santini o statuette per i parenti rimasti a casa. A meno che il viaggio non sia in Val d’Aosta, nel cui caso si compra il Genepì.
Anche se si sta fuori casa un giorno non si rinuncia a spedire cartoline “Scrivimla ti che ti scrivi bain”: “ti ricordo sempre…”, “saluti da…”
Sono una disdetta le cartoline perché mandano quelli con le gambe fresche in cerca della buca per le lettere e, alla faccia di virus e batteri, i francobolli sono tutti da leccare.
Si risale in corriera, rapido giro della città, nasi contro il vetro e la fame che comincia a farsi viva. Il ristorante prenotato aspetta.
E’ uno stanzone con cinquanta tavoli, tovaglie e piatti rigorosamente bianchi che fa lusso e gotti da osteria, alle pareti quadri a tema paesaggistico/campestre, in montagna selvaggina impagliata e corna di cervi. Il turismo di massa è ai primordi, non siamo ancora al tempo del restyling per gourmet sempre più chic ed esigenti.
Le portate tradizionali e l’arte dell’impiattamento lungi a venire: razioni abbondanti di pastasciutta al ragù, arrosto, qualche piatto tipico del luogo. Forse è più genuino, probabilmente davvero a chilometro zero.
Le bevande non sono comprese e anche se lo fossero non sono mai abbastanza. Nessun problema: un parrocchiano estrae un fiasco dal borsone della moglie con somma gioia dei commensali, incluso il parroco che, chiedo venia all’Altissimo se lo dico, non disdegna affatto il bicchiere della staffa e comincia ad arrossarsi.
Se non vede la fine durante il banchetto, la bottiglia tornerà a fare capolino tra le fila posteriori del pullman durante il viaggio di ritorno.
Ritorno che culmina con immancabile sequela di canti a squarciagola. Una dozzina di “Quel mazzolin dei fiori” e altrettante “Vola colomba bianca vola” che non sono più propriamente delle hit d’attualità (le cose duravano di più, anche le canzoni), e delle quali mia nonna ha fatto mettere le parole in bella copia per studiarle a memoria e non farsi cogliere impreparata.
Ultima performance a ringraziamento per la giornata senza intoppi “Risplenda nei cieli la dolce armonia, lodateee lodateee lodateee Maria!” e saluti all’autista “cu scüsa néh se abbiamo cantato un po’ troppo…”
Si torna a casa stanchi morti e soddisfatti, “ ciau ciau, as vedima ‘dman!”
Chissà se a quei tempi le gite erano oggettivamente più belle. “Era meglio prima” è una frase fatta che diciamo spesso ma è la nostra memoria selettiva che sceglie cosa ricordare e cosa no. La memoria edulcora i ricordi, amplifica i momenti positivi e allontana i negativi.
Cosa penseremmo se per magia potessimo salire in corriera e rivivere la stessa giornata?
Posso solo aggiungere un pensiero: mia nonna non diceva quasi mai “era meglio prima”. Sapeva che il “prima” non era stato così bello e viveva il presente in modo schietto e spontaneo, attraversando la vita giorno dopo giorno senza troppe lamentele. Sembra banale ma forse non lo è.
Concludo con la foto di una gita più recente e relativo programma originale “strafugnato” metà anni ’70 dove ci sono l’inossidabile Lina, mia sorella e tanti compagni di viaggio. Io non c’ero, avrò avuto l’acetone.. (ce lo dicevano sempre, sospetto fosse una scusa per farci stare a casa).
Passo la palla a chi vorrà raccontare di questa e delle successive gite dell’energica Norina, della vulcanica Vitalia o dell’indimenticabile Nella.
Grazie Emma Camussa Traverso per la simpatica e preziosa consulenza.