Carlino RAVIOLO e i ragazzi di Porta Genova
Carlo Raviolo, carpentiere (Alessandria, 17 giugno 1930 – Novi Ligure, 16 ottobre 2019)
Ci sono antiche cartoline ingiallite della piazza a Porta Genova dove l’asfalto non esiste. Solo terra e tanta polvere. E in quei pomeriggi inondati di sole ti vedo ancora. Carlino con gli occhi celesti e le ginocchia sporche, per terra a pizzicare le cartine per lanciarle più lontano. Vincerai tu o Marchino Traverso che domani sarà gran signore dei cannoli? I 4 Moschettieri Perugina volano veloci fra le dita ma il Feroce Saladino non l’avete mai trovato. Se guardo bene ti vedo correre dietro a un pallone di stracci e cuoio che la Lina ha messo insieme con grandi aghi in fretta e furia. Sono tanti i bambini del quartiere ma tutti a tifare Juve e Toro. Basta, ci sarà un’altra squadra!
C’è l’Ambrosiana? Va bene, Ambrosiana sia, e interista lo sarai per sempre. Ti ricordi il nonno che vince quattro soldi al lotto e ti porta a San Siro? Peppin Meazza, il più bravo di tutti, lo hai visto con i tuoi occhi chiari. Quante imprese del Peppin ti hanno raccontato e quante partite hai ascoltato alla radio, quella che ha costruito lo zio Gigi. Il prato così verde ti è rimasto impresso dentro, mica polvere e sassi come le contrade del paese.
Ora non lo sai ma quel prato lo vedrai per ottant’anni ancora.
Ti vedo in mezzo a una tribù di donne: mamma, zie e tante cuginette. Tu, unico maschietto, a farti coccolare e a farle disperare. La scuola è una rottura, dài Marchino cambiamo strada, andiamo sopra agli alberi per frutta. Tanto comunque le buschiamo, quattro sculaccioni sono sempre dietro l’angolo. La maestra Trevisan poi ci perdona e ci chiama a far merenda su da lei. Lo sa che a casa non c’è un granché da mettere sotto ai denti. E dove li trova la nonna i soldi per la divisa da balilla per le strane pantomime nel cortile della scuola? Te la presta la mamma di Marchino. Una volta vai tu, una lui. Quando alla parata ad annoiarsi va Marchino, tu corri in cerca di “lisgorbue” e dopo si fa finta di fumare come i grandi.
E cresci con quegli occhi che fanno voltare le ragazze. La Lina urla alla finestra “Va via… va via da ki !!” a una donna che ti fa la punta sotto casa. Borbotta “A l’ö fatu trop belu is fiö. L’ea meiu in po pü brütu”.
Ti riconosco nonna con il passo dondolante e il fiato corto, di corsa al comando a domandare quando torna a casa quel matto di tuo figlio. Sono arrivati tutti, ma “quande cü riva e me fiö?”
“Arriva, arriva. Vedrà che tra un po’ lo riavrà a casa”.
Trasferimento di caserma per reiterate insubordinazioni. Il colonnello aveva detto “Dove la mando c’è anche uno di Serravalle. Si chiama Marco Traverso, lo conosce?” “No, no! Mai sentito nominare”. Marchino? E cosa potevi sperare di meglio? Hai toccato il cielo con un dito. Vuoi non combinarne delle belle con un amico così? Sei mesi di consegna in più ti sei beccato.
E sei tornato proprio quando cominciavano gli anni pieni di stipendi, di automobili e speranze.
Ti capisco mamma. Un altro vuole sposarti ma lui è così bello, lo sai già che sarà sempre un po’ bambino, però è proprio quello che vuoi tu. Lo incontri alla stazione. C’è il fidanzato che ti aspetta. Ma lui dice “Andemü au cine?” e in un istante lasci tutti e tutto quanto. Forse lo sai già che il giorno della comunione di tua figlia a un certo punto mollerà baracca e burattini perché al Mulino c’è la Patti “Provu”. “Koski disi a ghen demü?” si son detti tra gli amici.
Lo sai che dovrai fare Check Point Charlie ogni volta che l’Inter gioca fuori casa. Dovrai alzare la cortina di ferro tra lui e il nostro mondo. Per 90 minuti non si deve disturbare. Sul tavolo una radio e la schedina sono tutto ciò che serve. Lo sai che le altre domeniche sparirà perché c’è San Siro che lo chiama come una sirena.
Censino Carrea, Tonino Canuto e Gianni Bobbio sono pronti. Vuoi mica non andare? Anche contro un albero siete finiti nel parcheggio dello stadio. “Non frena più, non frena più!”.
“Va bain l’è uguole, ‘ndema che a partia l’e sa kminsò!”.
E sei sfortunata mamma perché è il momento in cui la Grande Inter vince tutto e ci sono le coppe, le partite anche alla sera. “Andemü” a Vienna, c’è da battere il Real. Vuoi mica che manchiamo? A Milano c’è il Benfica. Piove? No, diluvia. Ma chi se ne importa se i mocassini sono gonfiati e sembrano due barche. C’è Jair a farti andare in paradiso. Me ne hai parlato così tanto che li vedo in sogno: Jair, il piede sinistro di Dio e il mago Herrera. E con gli amici vuoi non andare a festeggiare? C’è tempo per tornare, ci vuole un’altra tappa all’autogrill.
Però varchi casa col sorriso e un pupazzo di plastica moplen. Cagnolini, gattoni e coniglietti: uno per ogni vittoria importante alla tua bambina, quella grande perché io per il momento sono ancora sotto i cavoli. E quando arrivo anch’io, Check Point Charlie è sempre lì, ma finita la partita sparisce l’Inter e ricompari tu e quel talento naturale per matite e pennarelli. Ore e ore a ricopiare copertine di Topolino su un foglio grande perché possa colorarlo insieme a te.
Se osservo bene vedo anche te Marchino, e sento ancora il legno scuro che scricchiola sotto ai piedi nella tua pasticceria. Era il locale più bello, col profumo di crema e l’aroma del caffé. E mi abbracciavi perché ero la figlia di Carlino. Un po’ come se fossi figlia tua. Ti ho ammirato per la strada col vestito delle feste e il papillon. Indossavi il sorriso più sfrontato e camminavi come un re.
Sento una risata forte e vedo il tuo pancione che ballonzola su e giù, Censin Carrea. Ridevi così tanto che venivano giù le lacrime. Un po’ Gongolo, un po’ Mammolo. Quante volte mi hai fermato per la strada per commenti neroazzurri. “Kosk ku disa to pupà?”
Non c’è bisogno che mi sforzi per far tornare te, Tonino. Puoi dimenticare uno che lancia la macchinetta del caffè in strada perché il cliente non ti piace? “Come la macchina è rotta? L’ho visto che ha fatto un caffé”. “Ah sì? Sta a veghe!” e bam l’hai scaraventata fuori. “At l’avaivu ditü chl’ea ruta!”
Mi siedo ancora con te al tavolo dell’osteria. Avevi quell’aria trasognata, le mani che gesticolando costruivano castelli. Alzando appena il mento, incantavi di parole e di proclami.
Carlino sei invecchiato ma ti vedo ogni mattina, cappello verde e Gazzetta rosa sotto il braccio. Se ha vinto l’Inter devi andare a sventolarla in faccia al Peo, quello juventino scellerato. Quante ve ne siete dette. Apriva l’ombrello bianconero il Peo per farti andare via, ma quanto gli hai voluto bene? Peo non te la prendere. Sono diventata apposta juventina anch’io e faremo comunella. Ti ricordi la partita contro il Milan? Mi hai fatto stare tutto il tempo con un piede dentro al bar e uno fuori. Ti facevo la radiocronaca mentre tu tracciavi solchi nella piazza del mercato.
Ai rigori ho pensato che scoppiassi. “Kie ku tia?” “Shevchenko”.
“Bel Segnü a sema a postu”. “U la fatu?” “Si”. Sei diventato bianco come un cencio e hai girato sui tuoi tacchi.
Mi hanno detto che tifare non va bene, è una cosa che non serve proprio a niente. Forse è vero ma per voi era magia, rimanere un po’ bambini, riempire sto paese troppo vuoto di avventure e di risate. Carlino te ne sei andato in tutta fretta e il Peo manco lì ti voleva lasciar vincere. Ti ha seguito a spron battuto dopo poco più di un giorno.
Sai Carlino, l’Inter ha la maglia nerazzurra perché l’hanno creata in una notte di buio pesto e mille stelle. Ti sentirai a casa in mezzo a tanto blu mentre aspetti il Peo che con l’ombrello bianconero sale su.
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