Lorenzo Bisio e la storia del miele serravallese
Nella famiglia Bisio, è la nipote l’erede di un’arte trasmessale dalla nonna. Racconto molto volentieri la sua storia e quella della sua famiglia. Il Signor Bisio abitava con sua moglie nel mio palazzo, un piano sopra la nostra abitazione. La sua passione per l’apicoltura era unica e straordinaria. E merita di essere riportata nel nostro sito. Ringrazio molto “l’Apis” la rivista di apicoltura che ce lo concede.
a cura di Paolo Faccioli – aprile 2007
da: l’Apis, Rivista di Apicoltura.
La famiglia Bisio è originaria di Serravalle Scrivia. E lì ha avuto i primi apiari. Lorenzo Bisio, il primo apicoltore della famiglia, era collaudatore della vecchia azienda Ansaldo-Fossati di Genova e negli ultimi anni lavorò anche all’Italsider di Novi Ligure. Negli anni del dopoguerra era solito andare a giocare alle bocce la mattina della domenica, poiché anche tutto il sabato lavorava. Una volta che aveva perso diverse partite di fila, fu provocato scherzosamente da un suo compaesano, Angelo Carenzo: “perché, invece di giocare a bocce, non vieni ad aiutarmi alle api?”. Fu così che nacque una vera passione. Carenzo, il cui fratello Battista anche lui si occupava di api, gli fece fare il primo apprendistato. La famiglia conserva ancora i vecchi manuali su cui Lorenzo Bisio approfondì la sua conoscenza negli anni successivi: il Sartori-Rauschenfels, edito nel 1878, e l’Asprea, in un’edizione del 1926. E Bisio, una volta diventato lui stesso apicoltore, trasmise ad altri l’arte dell’apicoltura senza quella gelosia che spesso la accompagnava. Quando in Val Borbera nacque la Comunità Montana, Lorenzo cominciò, a Cantalupo, a insegnare il mestiere di apicoltore ai contadini che volevano tenere le api. Li guidava nel loro apprendistato a volte regalando loro i primi sciami e i primi materiali.
Oltre alla soddisfazione morale per questo impegno sociale, che gli valse diverse onorificenze, c’era la possibilità di avere una piccola fonte di reddito supplementare, con cui Bisio riuscì a comprarsi un appartamento utilizzando un mutuo. A quei tempi l’economia di una famiglia, in quelle zone, veniva principalmente da un reddito artigiano o operaio, integrato da produzioni agricole di tipo famigliare. Le grandi coltivazioni erano per lo più in pianura e a Vignole Borbera, per esempio, erano solo due le famiglie contadine vere e proprie, i Marchegni e i Pavese. Gli altri avevano frutta e verdura per lo più per uso proprio, delle galline, e i formaggi misti (di vacca, di capra, di pecora), testimoniavano di una piccola economia in cui si metteva nella stalla quello che si poteva, anche un esemplare per specie, per avere la quantità. E’ un dato tipico della fascia prealpina e appenninica. Così anche a Ivrea e nel Canavese c’era il lavoro alla Fiat e all’Olivetti e il pezzo di terra intorno casa.
DAL BUGNO ALL’ARNIA
Il figlio di Lorenzo, Gianvittorio, è stato titolare, ad Alessandria, di un’azienda commerciale di ingrosso nel settore auto, che si rivolgeva a Piemonte, Lombardia e Liguria.
Aveva 12 anni, quando, in primavera, cominciò ad accompagnare suo padre, nei paesini dell’alta Val Borbera, dove il padre era precedentemente passato ad accordarsi per l’acquisto di bugni villici. I due partivano in bicicletta alle due di notte e arrivavano al luogo dell’appuntamento verso le quattro del mattino, che era ancora buio. Prima che albeggiasse e le api cominciassero a volare, prelevavano questi bugni. C’erano di solito tre o quattro favi, compresa la covata centrale e quella poca scorta che avevano. Mettevano ogni bugno in un sacco di iuta. Al telaio di ogni bicicletta si legavano due sacchi, ecco il perché della bicicletta, anche se una moto, nel ’55 già l’avevano.
“Se era discesa si andava bene, se no si spingeva a piedi. Arrivavamo a Serravalle Scrivia e subito si andava a togliere dai sacchi i bugni, si andava a romperli, a prendere i pezzi di favo per legarli nei telaini e inserirli nell’arnia moderna. I telaini accoglievano solo metà di quei lunghi favi. L’abbiamo fatto parecchie decine di volte, dal ‘52 al ’55, cominciando a creare gli apiari. Ai montanari che ci vendevano questi bugni si dava in cambio più o meno due chili e mezzo di miele del nostro, che era già miele smielato con lo smielatore moderno. Perché loro i bugni li prendevano, li chiudevano e ci bruciavano sotto dello zolfo per far morire tutte le api. Poi spremevano tutto: covata, miele, polline, e da questa spremitura ricavavano il miele. Probabilmente questo miele aveva un certo grado di acidità, e loro erano ben contenti se, invece di uccidere le api, potevano ricevere già il quantitativo di miele corrispondente. Altrimenti pagavamo sulle duemila lire a bugno, circa l’equivalente di quattro chili di miele, che all’epoca si vendeva a cinquecento lire al chilo. Poi abbiamo cominciato a creare sciami noi stessi e ad aumentare gli apiari. Siamo arrivati, in tutto, a centocinquanta alveari suddivisi in diversi apiari. Allora c’erano anche tanti possessori di apiari che non sapevano fare apicoltura, allora ci prendevamo carico noi della cura delle api, dividendo il raccolto al 50%”.
L’apicoltura moderna negli anni 50-60 esisteva solo a fondovalle, in pianura. Ed anzi, proprio alla provincia di Alessandria, la Prima Inchiesta Apistica Nazionale del 1937 assegnava uno dei più alti rapporti tra arnia razionale e bugno villico in Italia: 2 a 1. In tutte le zone appenniniche o preappenniniche dominava invece la cultura dei bugni. Annalia Bisio, nipote di Lorenzo, riferisce il racconto di un vecchio apicoltore ultraottantenne, che usava, d’estate, andare per sciami nei boschi e tagliare i tronchi di castagno in cui si erano insediati. Li trasportava poi dai 6-700 m ai 300 metri di Grondona, per riuscire a trasferire questi sciami nelle arnie. Doveva affrontare pendici scoscese e usava per questo una lesa, una specie di slitta per il trasporto della legna. In genere venivano chiusi alla meno peggio, per il trasporto, i fori di uscita delle api. Ma proprio una volta in cui si era seduto sul bugno per tenerlo fermo sulla slitta, si era accorto a sue spese di non aver chiuso tutti i fori… (vedi foto 1).
Annalia ha raccolto da una famiglia delle cassette rettangolari, simili esteriormente alle ferule siciliane, ma usate in verticale, con un coperchio fatto di tavole di legno rustiche inchiodate, con i tre fori classici come nei bugni, e due legnetti posti a croce all’interno, una forma che a lei sembra di aver notato solo nella zona di Mongiardino. I primi apicoltori di quella famiglia usavano raccogliere il miele recuperando le api: per questo sovrapponevano un bugno vuoto a quello con le api e col miele: dopo averlo strofinato con melissa, che ha una funzione attrattiva, e con miele, fumigavano le api nel bugno inferiore per indurle a salire in quello sovrapposto. Il rispetto per le api è andato poi perso e quello che fu l’ultimo membro di questa famiglia a tenere i bugni, uccideva le api.
Dopo aver perso la loro funzione originaria sono state usate come piedistallo per raccogliere la frutta e una appariva ancora sporca di solfato di rame.
Racconta ancora Gianvittorio: “A San Giorgio dai nonni c’era una cascina e ci portavamo le api. Avevo 15 o 16 anni. Mi ero fatto prestare un triciclo con due ruote davanti e una dietro. Ci avevamo messo su quattro cassette di api. Dietro, il triciclo era leggerissimo, perché il carico era davanti. Arrivando dopo il ponte della ferrovia per andare a Cassano c’era la Luminosa, una distilleria dell’olio pesante: e lì la ruota è uscita dall’asfalto. C’erano dieci metri di scarpata e io, il triciclo e le api ci siamo trovati in fondo alla scarpata. Si sono aperte tutte. Con mio padre abbiamo tirato su tutto piano piano riportando su un pezzo alla volta. Due autisti di camion avevano assistito alla scena ed erano accorsi per prestare aiuto, ma appena videro le api, la fuga fu una vera comica. Non abbiamo preso una sola puntura, eppure non avevamo i vestiti da apicoltura”.
“ Un’altra volta, in bicicletta, era una notte senza luna ed era talmente buio che io vedevo appena l’alone del grigio della strada due o tre metri davanti: in una curva, invece di girare a sinistra, un mucchio di ghiaia mi ha confuso e io ci sono finito dentro e mio padre dietro con tutte le api”.
Annalia Bisio: “Da bambina mi facevano addormentare raccontandomi queste storie”.
Con l’apertura dell’attività commerciale di Gianvittorio, procurarsi i mezzi di trasporto non era più un problema. Un furgone poteva essere utilizzato per il trasporto delle api o e poi ripulito e riportato per essere esposto alla rivendita di auto.
“Verso gli anni 60-65 -racconta Gianvittorio- abbiamo cominciato a fare nomadismo, soprattutto in Val Lemme, da Gavi verso il Passo della Bocchetta: la famosa salita delle Streghe, lì si faceva un secondo raccolto di acacia, dopo il primo raccolto fatto a valle. C’era un ritardo di 25-30 giorni tra le fioriture. Ma in Val Lemme, che era una zona incontaminata, si faceva soprattutto castagno puro o un castagno misto a fiori del sottobosco e dei prati appenninici, che costituiva il terzo raccolto. Alla fine si riportavano le api in pianura, dove era meno freddo, per svernarle.
Fino al 1964 c’erano stati inverni incredibilmente freddi, che comportavano una certa moria delle api. Era una cosa naturale, in queste nostre zone, arrivare ai 20 gradi sotto zero la notte. Poi, dal 1964 in poi, il clima è cambiato e abbiamo avuto inverni meno freddi. Negli ultimi anni questa cappa termica che abbiamo sul pianeta ha portato altri problemi, ma non ci sono più quelle gelate, tanto che si stanno piantando, nel cuneese, degli olivi. Poi c’erano anni che si riusciva a fare il Biancospino (il crataegus –specifica Annalia- non il prugnolo, che viene spesso chiamato con lo stesso nome), che veniva etichettato e venduto come tale. Con un altro apicoltore, nostro omonimo, che si chiamava Bisio Alfredo ed era originario di Bosio, un comune qui vicino (sembra un gioco di parole ma è proprio così), mio padre aveva iniziato un’esperienza di nomadismo sulle rive del Po, in provincia di Pavia, a Cervesina dove il “Bisio di Bosio” aveva fatto, l’anno precedente, un ottimo raccolto di vergadoro, che noi chiamavamo “i beduini”. C’era anche un’altra monocultura, il ravizzone che serviva subito a primavera a dare forza al nido. Però l’odore era abbastanza sgradevole e lo si usava d’inverno per alimentare le api.
Il miele era apprezzatissimo e mio padre, lavorando a Genova, lo vendeva tanto ai colleghi di lavoro. Poi chi lo conosceva ne parlava in giro. Anche la gente del posto acquistava miele. Tanti vecchi clienti di allora vengono ancora a comprare il miele da Annalia. Davamo anche molto miele ai Frati della Certosa di Pavia, che producono amari, erbe officinali”.
Tra il 75 e l’85 i Bisio parteciparono a varie edizioni del premio Piana, anche come occasione per conoscere altri apicoltori. Lorenzo ricevette un primo premio per il millefiori, e anche altri apicoltori della zona si fecero onore, Bussalino di Persi, una frazione vicina, con un primo premio per l’acacia, Alfredo Bisio con un secondo premio.
La preoccupazione per la genuinità più che per la quantità ha caratterizzato tutte le generazioni della famiglia Bisio:
“Abbiamo sempre fatto il miele in zone montane incontaminate. Chi comprava il miele nei negozi vedeva la differenza. L’unico scoglio che abbiamo avuto è stato la cristallizzazione. Non capivano che avviene proprio se il prodotto è genuino”.
NON SOLO MIELE
Nel frattempo si diffondevano le prime ricerche di applicazioni a scopo medico o nutrizionale degli altri prodotti dell’alveare.
“Ci richiedevano molto la pappa reale che mio padre faceva su richiesta in piccole quantità con le celle reali delle famiglie sciamate (a cui ne lasciava due o tre) ed essa veniva mescolata con del miele perché da sola ossidava”.
“Mio padre quand’è morto non ha lasciato nessun ricettario, ma faceva, da una ricetta avuta da un vecchissimo apicoltore, una pomata i cui ingredienti di base erano cera di api e olio extravregine di oliva, la prima spremitura, il mosto d’oliva, a cui aggiungeva delle erbe. Questa pomata si era rivelata un vero toccasana per le ustioni: ricostituiva la carne nel giro di quarantott’ore e funzionava anche per gli eczemi. Con altri ingredienti, oltre alla cera e all’olio, preparava anche un’altra pomata, c’erano dentro edera, ortica, e altre erbe che non ricordo. Con questa aveva curato un caso di alopecia totale di una signora di Serravalle che si era rivolta per anni ai migliori specialisti, senza successo.
Dai Frati della Certosa di Pavia, che rifornivamo di miele, c’era un laboratorio di restauro dei libri antichi, e quando c’è stata l’alluvione di Firenze molti dei volumi danneggiati sono stati portati in quel laboratorio, che era diretto da un cistercense, padre Sisto. Noi fornivamo la propoli che serviva loro per invecchiare la carta e fare dei riporti su libri dove mancava una pagina. La propoli serviva a riprodurre carta invecchiata”.
IL RAPPORTO CON LA COLDIRETTI
A Serravalle, o a Ovada, in frazione Gnocchetto, la famiglia Bisio partecipava alle chiusure dell’anno dell’agricoltura con la Coldiretti. Si chiudeva l’anno con un meeting sull’agricoltura e un’ esposizione di prodotti. C’erano rappresentati diversi settori col loro stendardo: “Avicoltura”, “Coniglicoltura”, “Apicoltura” (vedi documentazione fotografica), e intervenivano il prefetto, il questore, e le massime autorità della provincia di Alessandria, oltre all’on. Traversa, figura di politico-contadino, che fu anche apicoltore. “Ma era un raccoglitore di voti, più che di miele” commenta Annalia.
Lorenzo Bisio era molto attivo dal punto di vista associativo, oltre che insegnare l’apicoltura aiutava per esempio le vecchie contadine ad avere la pensione sociale,e, insieme, raccoglieva voti per Traversa. Traversa era un grande organizzatore di pranzi sociali e gite a Roma, alla sede centrale dell’organizzazione. “Allora una gita del genere era davvero un evento: c’erano contadini che non avevano mai visto il mare” ricorda Annalia, che all’epoca era bambina. “Traversa regalava quattro medaglie, e dava a tutti la sensazione di dare qualcosa in cambio dei voti che riceveva” commenta Gianvittorio, che ricorda anche:
“A uno degli incontri di fine anno ci si rese conto che non c’era né megafono né microfono, allora telefonai a un mio cliente di Tortona che mi trovò subito un megafono. Ritenendo che potessi avere qualche numero in più, Traversa mi prese sottobraccio e mi disse “Sarà bene che vieni con noi”. Ma io ero repubblicano convinto, e non democristiano come tutta la famiglia. Mio nonno materno era mazziniano. Ci credevo veramente”.
MATRILINEARE
Gianvittorio: “Purtroppo ho dovuto smettere l’apicoltura perché quando mi capitava di prendere una decina di punture andavo in crisi allergica, e poi la mia attività commerciale era diventata così intensa e onerosa che non ce la facevo più. Aiutavo a fare i trasporti ma non ero più un vero e proprio collaboratore, poi mia figlia ha avuto la bella pensata di riiniziare. Ma il mio rapporto con lei rispetto all’apicoltura è stato più indiretto che quello coi nonni”.
Racconta Anna Pierotti, moglie di Gianvittorio: “Il nonno è morto a 79 anni. Lavorò alle api fino all’ultimo: anche quando sentiva mal di stomaco e capogiri si è sempre alzato alle quattro del mattino. Venne ricoverato in Ospedale il 17 aprile del 1994, ed è morto il 24 maggio. Non ha potuto fare la smielatura, che ha poi fatto al suo posto un vecchio di Borghetto, Trentin”.
Annalia Bisio: La nonna (Maria Piera Negrino) è stata l’ultima detentrice della memoria. Finché ha avuto 91 anni mi insegnava apicoltura e mi ricordava puntualmente i lavori da fare in apiario. Aveva aiutato il nonno sia in laboratorio che sul campo, non era soltanto un’apicoltrice da laboratorio. Io ero stata in apiario da bambina e avevo qualche ricordo. Ho iniziato veramente solo nel 95-96 perché ero incinta e ho dovuto aspettare la nascita dei bambini. Mi insegnava i suoi metodi. Si è sempre usato soltanto lo smielatore a manovella. Mi ha insegnato anche le cure per il controllo della sciamatura e per far fecondare le regine. Ancor oggi non uso i cupolini con l’innesto, ma preparo dei nuclei con una o due celle reali. E quando faccio le sostituzioni inserisco il telaio con le celle reali, oppure il nucleo, o inserisco le celle nella famiglia orfana dopo le classiche 24 ore, dopo averle ritagliate con un taglierino riscaldato in campo con una fiammella. Quando sono andata a imparare da altri apicoltori, ho concluso che i metodi della nonna erano ancora buoni. Una cosa che io non ho mai fatto è dare tuorlo d’uovo e aglio mescolati al candito come medicinale. Ho invece usato artemisia o frassino nell’acqua da dar da bere alle api. Il frassino ha una corteccia che dà un colore azzurrino all’acqua”.
Annalia ricorda ancora: “L’arrivo della varroa è stato una tragedia. Il nonno aveva duecento alveari e nel giro di due anni li ha persi quasi tutti, per una testardaggine in senso buono: diceva che l’Apistan era cancerogeno e ha preferito continuare a curarle in modo meno efficace, ma rifiutando l’uso di prodotti nocivi alla salute. Dopo due anni gli erano rimaste solo 60 arnie, molto debilitate.
Io, quando ho ricominciato a creare nuovi apiari, ricordando il suo desiderio ho cercato di mettere in atto quei metodi che oggi vengono considerati biologici, per tener fede a una condotta di vita che mi è stata trasmessa.
Ancora oggi smielo a mano e tolgo le api dai melari con un mazzetto di rami di rosmarino, come faceva il nonno, che a volte usava anche piume d’oca. Il nonno smielava sul posto: aveva tutto l’occorrente in una stanzetta organizzata vicino ad ogni apiario. Altrimenti, si usava il furgone chiuso”.
Gianvittorio: “Quando si rimettevano i telaini si formavano nuvole d’api e saccheggi. L’acqua sporca di miele con cui ci lavavamo le mani mio padre la spruzzava con una spugna sui telaini smelati prima di rimetterli e le api s’acquetavano, e riparavano più velocemente i favi”.
Annalia: “Anche il sig. Merlo, un anziano apicoltore di Monreale, usava lo stesso metodo per calmarle e farle ricostruire subito i favi”.
“Mio padre e mio nonno sono andati soprattutto in Val Borbera, io mi sono spostata in Valle Spinti dove c’è un ambiente ancora più salubre e genuino perché non ci sono coltivazioni ed è rimasta selvaggia. C’è soltanto un po’ di fienagione, un’ azienda biologica che produce piante officinali, principalmente lavanda. Dobbiamo affidarci soprattutto alla flora spontanea. C’è molto timo, prati da pascolo e acqua di sorgente a cui le api possono abbeverarsi. E prugnolo, che una volta veniva usato per definire i confini delle proprietà, biancospini, rosa canina, lupinella, genziana, genzianella, lamponi, mirtilli. Produco acacia, castagno e melata, anche di abete, e anche un millefiori di montagna raccolto sopra i mille metri in zona di alpeggi. Nelle zone dove ho gli apiari c’è anche una splendida fioritura di ciliegio, che fiorisce presto, a metà aprile e solo le famiglie forti vanno a melario: così produco una limitata quantità anche di questo miele”.
Annalia è coltivatrice diretta, e la produzione di miele è la sua attività principale, anche se il metodo di produzione resta amatoriale. “L’apicoltura è più una passione che un lavoro. Ho puntato più sulla qualità che sulla quantità. Ho un rapporto di collaborazione con una fattoria didattica, per sensibilizzare le nuove generazioni all’amore per la natura e la terra.
Da noi ci sono tantissime mele carle, tipiche della Val Borbera e della Valle Spinti, che erano state abbandonate e ora vengono recuperate. Sono piante molto rustiche, fanno un buon raccolto e non hanno bisogno di trattamenti. Danno frutti coperti di una patina cerosa, che li protegge. Ci sono 7 specie di questa mela, che più matura più prende il gusto della banana. L’Università di Torino ha raccolto le piante madri vicino a Grondona, in un vivaio di conservazione, per poi innestarle. Collaboro con questa fattoria didattica, dove svolgo servizio di impollinazione, e cerco di selezionare i telaini di questo miele profumatissimo, rossiccio, dal retrogusto aromatico”.
Annalia produce anche, in limitata quantità, idromele e birra di miele su ricette lasciate dal nonno. La birra è sottoposta a un anno di fermentazione. Non ha malto, è fatta soltanto di acqua, miele, luppolo e lieviti: “una ricetta veramente semplice all’uso dei contadini che non avevano la possibilità di complicarsi troppo la vita”.
La storia della famiglia Bisio testimonia di un’apicoltura non specializzata o professionale, ma diffusa, alla portata di molti e integrata nella vita di un territorio, intrisa di amore per la natura a maggior ragione in quanto nata come l’altro lato di un’attività artigiana o operaia. Anche con la crescita del benessere e la trasformazione dell’economia del territorio, i valori di naturalità e genuinità rimangono portanti, tanto da costituire la base su cui ridefinire l’attività, in modo alternativo ma adeguatamente a un diverso momento storico.