Negozi a Serravalle negli anni Sessanta
Era deciso, ci saremmo trasferiti a Serravalle; dopo un breve soggiorno a Novi Ligure ci saremmo dovuti ancora muovere! Un altro trasloco, una casa nuova e diversa e ancora una volta l’infelicità di non conoscere niente e nessuno.
E non immaginavo che avrei amato tanto questo luogo da non volermene più andare.
Arrivammo qui che ero una bambina. Serravalle era viva e vitale, ma per me che avevo vissuto a Novi a Gavi e a Genova il primo impatto fu difficile perchè la trovai angusta, serrata tra quelle colline che quasi la soffocavano.
La mia famiglia aveva scelto di trasferirsi qui per ragioni logistiche; era un punto di raccordo tra la Liguria e il borgo dove mio padre non poteva fare a meno di recarsi ogni sera per seguire il suo vigneto. Se devo dire la verità, non è che subito mi piacque molto, mi sentivo un po’ straniera. La gente di Serravalle, come quella di tutti i paesi, era chiusa nei confronti dei nuovi arrivati e prima di accoglierti doveva “prenderti le misure” così appena trasferiti non è che ci siamo sentiti proprio a casa. E poi non avevamo parenti né amici, al contrario dei posti in cui avevamo vissuto in precedenza. Il centro della piccola cittadina partiva da Porta Genova e lungo la Via Berthoud (ex Via Umberto I), era un susseguirsi di negozi ed attività commerciali: luci, gente per la strada ad ogni ora del giorno e della sera. La mia prima abitazione fu proprio a Porta Genova in salita Depretis , una stradina che collega la via principale a Via Tripoli. Era una palazzina gialla con un piccolo terrazzo sul davanti. All’interno i locali erano disposti lungo uno stretto corridoio, non c’era il riscaldamento e nelle camere da letto dove non c’era nemmeno una stufa, si gelava. In più la casa condivideva il bagno con la famiglia che abitava al piano superiore e che per entrare in casa doveva attraversare il nostro corridoio. Però erano brave persone delle quali ricordo ancora il nome:Marisa e Fernando. Io frequentavo la quarta elementare, feci subito amicizia con Carmelina, una ragazzina della mia età che tutti i giorni mi veniva a chiamare per una passeggiata e a quei tempi, camminare per Serravalle era molto gradevole. All’inizio del paese, arrivando da Gavi, nello slargo, da cui si accede a Via Roma c’era un piccolo chiosco dove lavorava l’orologiaio Perversi. Lo si poteva osservare dalle vetrate mentre a capo chino, occhiali inforcati sul naso, svolgeva il suo lavoro. Aveva molti clienti perché un tempo i fortunati che possedevano un orologio erano pochi e se lo si rompeva si portava ad aggiustare. A quei tempi, possedere un orologio da polso o da taschino era un piccolo lusso e in caso malaugurato di rottura si portava a lui che lo sistemava a regola d’arte, indipendentemente dalla marca, e il prezzo era onesto. Proseguendo verso la via principale c’era il garage autofficina del meccanico Pino Traverso (suo figlio Valerio non ha portato avanti l’attività del padre ed ha preso un’altra strada) e lì c’è ancora un meccanico riparazioni auto.
Ricordo che all’inizio di Salita Depretis esisteva una Trattoria denominata “Trattoria della marina”, di Aurelio e Virginia.
Non ho memoria di Aurelio ma Virginia mi sembra di vederla ancora lì, i capelli grigi raccolti in una crocchia sul capo, gli occhi grandi, scuri e ridenti e la parlantina sciolta. Era una donna attiva, sempre in movimento. Sopra gli abiti portava perennemente un grembiule da cucina; era lei la cuoca, ed era un’ottima cuoca. Su per la stradina durante le ore dei pasti gli effluvi delle sue specialità arrivavano prepotentemente alle narici. Cucinava piatti semplici ma gustosi, più vicino alle tradizioni liguri che a quelle piemontesi. Ravioli, coniglio alla genovese, cima, minestroni di verdura di quelli spessi, quelli che dovevano stare sul fuoco per ore, dentro cui maceravano anche croste di formaggio. Si fermavano in molti a mangiare da lei, viaggiatori e clienti fissi. Nei momenti di tranquillità metteva fuori qualche sedia e si attardava a chiacchierare con i clienti del locale o con chi passava per caso e aveva tempo per scambiare qualche parola sulle ultime novità del paese, sul tempo e sul governo. Era sempre allegra, o almeno così sembrava ; avrà avuto anche lei i suoi problemi ma se li aveva li celava dietro un sorriso.
All’inizio di via Berthoud, sul lato sinistro della strada, c’era un piccolo negozio di generi alimentari, gestito dalla signora Emma Demicheli e dalla figlia Gianna. Al venerdì si poteva acquistare lo stoccafisso già ammollato nell’acqua e pronto per essere cucinato, in bella vista dentro una bacinella di plastica bianca. Mentre andavo a scuola al mattino, comperavo la focaccia per la merenda delle dieci e lo vedevo immerso nell’acqua limpida; era morbido e chiaro, e mi veniva fame. Sapevo che al ritorno dal lavoro sarebbe passato mio padre e lo avrebbe comprato. Lui adorava lo stoccafisso, bollito con i pomodori e un filo d’olio. Era il rito del venerdì sera: per mio padre un boccone succulento, per mia madre il supplizio dell’odore forte che aleggiava in casa e la faceva arrabbiare. E poi diceva che costava troppo. Ricordo le due titolari della bottega molto nitidamente. Emma era una dolce signora dai modi gentili e raffinati. Io la ricordo magra e molto alta, forse perché io ero una bambina e tutto mi appariva più grande di quanto in realtà non fosse. Anche lei, come la maggior parte delle donne di quei tempi, portava i lunghi capelli grigi raccolti in uno chignon. Era sempre pettinata con cura, non un capello sfuggiva alla sua acconciatura. Indossava un camice nero come quelli delle maestre, pulitissimo e stirato, senza una grinza. Sembrava una nobildonna non una bottegaia e io mi rivolgevo a lei con un certo timore, misurando le parole. Lei rispondeva in modo garbato, la voce chiara e sommessa, i gesti eleganti anche quando tagliava a metà lo stoccafisso. Ogni tanto mi regalava una caramella. Una caramella al limone o all’arancia e io la portavo a mio fratello che allora aveva poco più di due anni. La figlia Gianna era più bassa della madre e dall’aspetto più moderno e dinamico, anche il colore del camice, bianco e azzurro dava l’idea della modernità. Aveva capelli scuri e ricci, tagliati corti con la frangia e la riga di lato. Parlava e scherzava volentieri con tutti ma pur chiacchierando, non smetteva un attimo il lavoro: puliva il bancone, lavava i vetri, spolverava da qualche parte. Non c’era un granello di polvere in tutto il negozio. Parlava volentieri anche in dialetto serravallese; io non lo capivo molto, ero appena arrivata ed in casa mia il i miei usavano il genovese e il gaviese ma facevo finta di comprendere cosa mi si diceva e a volte le sarò sembrata un po’ tonta. L’ alimentari Demicheli ha chiuso intorno al ’90. Dopo la morte di Emma, Gianna ha continuato l’attività da sola solo per un po’. Già da molti anni era stato inaugurato il primo piccolo supermercato e lei diceva che questo nuovo genere di empori, non avevano futuro. Ribadiva che la gente voleva essere servita e consigliata negli acquisti. Per qualche tempo è rimasta l’insegna a ricordare i tempi andati, poi è sparita anche quella. Il nostro giretto pomeridiano verso il centro del paese cominciava da lì e quasi subito ci si imbatteva nella vineria Pollero dove oltre a comperare il vino sfuso ed imbottigliato si poteva gustare un’ottima farinata. La taverna era frequentata da tanti bevitori e l’atmosfera era quella delle mescite di una volta. Per entrarvi era necessario scendere tre scalini, dentro l’atmosfera era fumosa e calda. C’erano alcuni tavoli ai quali sedevano uomini che giocavano a carte col bicchiere del nero accanto, molto spesso si giocavano la bevuta, ogni tanto qualcuno urlava per questioni di punteggi relativi alle carte ma poi tutto tornava tranquillo come sempre. I clienti erano perlopiù uomini che passavano le giornate a tracannare vino e a discutere sempre più animatamente mano mano che si alzava il livello alcolico nel sangue. Poteva capitare che qualcuno si ubriacasse e uscisse barcollando. Si dice ci fosse un cliente abituale che a casa veniva regolarmente picchiato dalla moglie a causa delle sue esagerate libagioni. Ora al posto della vineria c’è l’“Osteria tre scalini” .Si possono gustare ottimi ravioli e, finchè visse, godere della compagnia di Canuto, il titolare, che intratteneva i clienti con le sue storielle ed i suoi aneddoti.
Sempre sullo stesso lato della strada esisteva il negozio ortofrutta “U sopu”, a pochi passi idem Bonafiglia e poi la tabaccheria Ameri dove mio padre mi mandava a comperare le nazionali col filtro sfuse. Può sembrare strampalato, a chi non ha vissuto in quegli anni, ma allora si potevano acquistare le sigarette a numero. Il tabaccaio le sistemava accuratamente in minuti sacchetti di plastica se erano più di due, altrimenti le avvolgeva in piccoli pezzi di carta velina. Venivano vendute tranquillamente anche ai bambini, non erano ancora noti i danni causati dal fumo, anzi qualcuno credeva che fumare tenesse lontano le influenze, i raffreddori e comunque i microbi in generale. Sempre su quel lato della strada c’era il Bar Pasticceria di Marco Traverso, un personaggio simbolo del paese. Era il punto telefonico locale ed esisteva una cabina all’interno del locale. Se si aveva la necessità di fare una telefonata Marco vendeva i gettoni e si potevano cercare i numeri nel grande mucchio di elenchi posizionati su una mensola. Marchein era conosciutissimo in paese oltre che per i suoi rinomati pasticcini, anche per la sua voglia di ridere e di scherzare. Sapeva raccontare barzellette per ogni occasione e non mancava mai di ironizzare sugli eventi locali; conosceva tutti e tutti erano sue vittime occasionali. Un personaggio anche nel modo di vestire, gli ultimi anni della sua vita indossava sempre un cappello a larghe falde e anche se aveva ceduto il Bar lo si poteva incontrare per le vie cittadine con il suo tipico atteggiamento. Sullo stretto marciapiede di fronte alla pasticceria c’era il panificio “Poncroun” che esponeva in vetrina dolci di tutte le qualità. Le proprietarie erano due anziane signore con i capelli grigi, abbigliate allo stesso modo e molto somiglianti tra loro. Una volta una delle due mi regalò una meringa. Era la prima volta che ne assaggiavo una così enorme. A vederla pensai fosse deliziosa, bianca e gonfia con tante piccole bollicine sulla superficie liscia. Assaporarla fu un’estasi. La consistenza fragrante della meringa contrastava con il suo aspetto delicato. Un paradiso per il mio palato. Una delle due signorine era famosa per il suo lunghissimo fidanzamento. Vedeva il moroso solo la domenica e non si sposarono mai. E poi, latteria Angelina, latte fresco tutti i giorni. Si portava da casa la bottiglia di vetro e la si faceva riempire.
Un poco più su ortofrutta ”A Rosa”, panificio alimentari “Ei Checu”, il calzolaio Cabella specializzato nel taglio dei sandali sull’alluce quando diventavano stretti, così facevano ancora una stagione. Tutti i sandali subivano questo trattamento e nessuno se ne vergognava. Io ne avevo un paio rossi.
In quegli anni non si buttava via niente. Tutte le mie giacche e i miei cappotti erano stati ricavati da altri usati, rivoltati e ricuciti. Mia mamma era un’ottima sarta e sapeva creare capi bellissimi da scampoli da poco prezzo ma di ottima qualità. Anche i negozi di abbigliamento erano numerosi , di fronte a Iside c’era il negozio di alta moda di Punta, e ne ricordo almeno tre di tessuti: Tessuti Algeri, Tessuti Prati , tessuti Scalabrino. E tutti e tre avevano una folta ed affezionata clientela. Noi ci servivamo quasi sempre da Algeri. Mi piaceva quando accompagnavo mia madre nel grande e luminoso negozio vicino alla Piazza del monumento, amavo guardare le pareti ricoperte di scaffali ricolmi di pezze multicolore. Il proprietario e le commesse le posavano sul bancone con un colpo secco e le svolgevano davanti ai nostri occhi così che si potessero esaminare con calma. Si sceglieva il colore, il tessuto, si discuteva sulla qualità. Si faceva questo alla luce artificiale della bottega e poi si andava fuori, al sole per l’ultima conferma. Si palpava la consistenza, si contrattava un po’ il prezzo anche se non era molto facile farsi fare uno sconto. L’ultimo pezzo di stoffa acquistato in quel negozio è stato uno scozzese di lana grigio con il quale mia mamma ha cucito il mio primo kilt. I kilt, erano molto di moda negli anni settanta. Ce l’ho ancora adesso anche se non lo indosso più.
Mentre girellavo sbrigavo le commissioni per la famiglia, a volte dovevo andare a prendere le medicine per mio padre che soffriva di mal di stomaco, oppure per mio fratello che era piccolo ed ogni tanto si ammalava delle tipiche malattie dell’infanzia. Io, per fortuna avevo una salute di ferro. Vicino alla piazza Della Collegiata c’era la Farmacia Balbi. Era una farmacia arredata in modo antico, gli scaffali erano in legno e sopra ad essi campeggiavano vasi di ceramica sui quali erano i scritti i nomi latini delle erbe officinali . Il farmacista era un uomo dai lineamenti marcati e gli occhiali da presbiopia perennemente appoggiati sul naso. I capelli erano brizzolati e folti. Prima di cercare le medicine che mi servivano, commentava le prescrizioni, l’efficacia dei farmaci e si interessava della salute del titolare della ricetta, faceva molte, moltissime domande e poi finalmente le avvolgeva nella carta, metteva un elastico intorno e me le porgeva. Non mancava mai di fare gli auguri di pronta guarigione. Vicino alla farmacia c’era la latteria del lattaio “Giuvanein”. Lì di solito andavo io. Dentro la latteria, l’arredamento era minimalista: un bancone sul quale stavano i secchi col latte e tutti i misurini: da un litro, mezzo litro, un quarto e qualche imbuto. Forse le norme igieniche non erano severe come ora ma nessuno è mai successo nulla di male per aver bevuto quel latte che arrivava fresco ogni giorno. Anzi quel gusto meraviglioso oggi non lo ritrovo di sicuro nello sterilizzatissimo e pastorizzatissimo latte che si trova adesso in commercio . Tant’è che io di latte non ne bevo quasi più. Ho cercato quel gusto antico anche nei nuovi distributori che hanno sistemato vicino ad alcuni agriturismi ma , niente da fare non è la stessa cosa. A quei tempi mi capitava di attaccarmi alla bottiglia lungo la via del ritorno a casa e all’arrivo mi rimandavano indietro perché senza che io me ne accorgessi avevo bevuto tutto. Era gustoso, era tiepido di mucca, era denso e corposo. Era genuino e nutriente. C’è anche da dire che le mucche non venivano nutrite a mangime ma a trifoglio, erba medica e fieno.
Nell’arco di cento metri c’erano ben tre macellerie: macelleria Cavo, Macelleria Gifra e la rivendita della carne di cavallo Manfredini. Sempre in questo perimetro, la merceria “Miglieta”che vendeva anche profumi e bellissimi foulard, l’oreficeria Stringa, il parrucchiere “U Cescu”, l’elettricista Balbi, l’elettricista Moncalvo Lino che vendeva anche gli elettrodomestici, il panificio alimentari Orsini, Il bar tabacchi Berto d’Angelo. Di fronte, ortofrutta Marisa rilevata poi da Iside, mia futura vicina di casa in via Palestro.
(continua)
L’immagine in evidenza raffigura la vineria Pollero (Trattoria d’Italia), citata nell’articolo di Emma Bricola. La foto è già stata utilizzata, con l’autorizzazione del proprietario, nell’articolo “La Farinata”
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