Da “Il regalo del Mandrogno” – Mayno della Spinetta
L’accesso alla Pietra diveniva talvolta impossibile. Per questo, le nozze di Carolina Bàilo, figlia primogenita di Pietro Bàilo, che dovevano celebrarsi alla Pietra per sciogliere un voto della sposa, furono anticipate per non cader nella stagione piovosa ed ebbero luogo il dieci ottobre del 1801.
Non doveva essere troppo bella la nostra antenata, se aveva fatto voto, qualora non rimanesse zitella, di celebrar le nozze al piccolo Santuario del Monte Spineto, che domina dall’alto i boschi del Rovinale: ben poco però sappiamo di lei, anche perché non abbiamo mai frugato nella soffitta della Pietra, il che sicuramente ha valso a mantenere buoni i rapporti nella nostra famiglia.
Le nozze si svolsero con molto fasto campagnuolo: il piccolo Santuario era stato insolitamente animato nelle ore mattutine da marsine variopinte, da lunghi costumi femminili, da basse tube ad ampi bordi. Molti cavalli avevano battuto gli zoccoli sui ciottoli del piccolo sagrato.
Parenti ed amici, che dalla sera prima erano ospiti dei Bàilo, avevano affrontato sin dall’alba a piedi o a cavallo l’aspra salita dalla Pietra al Santuario e, terminata la funzione, erano scesi alla Pietra pel contratto e pel pranzo di gala. Nella sala principale, vegliata dall’alto camino di mattoni, mentre gli invitati facevano siepe nella parete di fondo, il notaio, gli sposi ed i parenti sedettero al tavolo per la firma della stipulazione nuziale. L’atto rivestiva una certa solennità anche perché a Carolina Bàilo erano assegnate diecimila lire nuove, il che rappresentava una dote indubbiamente cospicua. Avrebbe dovuto avvenire, per seguire il rito, il passaggio materiale della somma nel tradizionale sacchetto o nel cofanetto-forziere appositamente costruito. Ma per comune consenso degli interessati le diecimila lire nuove erano rimaste a Torino nella sicura cassaforte di un banchiere e il lungo viaggio per le zone deserte e malsicure era stato affrontato soltanto dal cofanetto lavorato in acciaio, che conteneva per l’occasione il simbolo di una pannocchia di granturco e di alcune spighe di grano.
Apposte le firme al contratto e avvenuta la formale tradizione del cofanetto, le due famiglie e gli invitati si erano finalmente posti a tavola, quando si udirono sul selciato della corte scalpitare gli zoccoli di numerosi cavalli. Ognuno tese gli orecchi e vi fu un istante di silenzio e di attesa. Brevissimo però, perché in un attimo irruppero nella sala tre, cinque, dieci uomini col viso coperto da un fazzoletto e con le armi spianate.
C’era poco da illudersi; la banda di Mayno della Spinetta era ben nota, e sebbene l’autorità francese la tenesse un poco a bada e lontana dall’Alessandrino, essa vi faceva frequenti ritorni. Il bandito aveva una vasta rete di manutengoli, di favoreggiatori, e più di un covo provvisorio – la zia Nanette direbbe un pied-à-terre – per le brevi tappe necessarie alle sue scorribande.
Si diceva che uno di quei covi fosse Mont’Antico, la vecchia bicocca sui monti del Rovinale. La casa era disabitata, ma talora di notte vi si vedeva qualche luce: nessuno ne sapeva e nessuno cercava di saperne di più.
I figuri minacciosi che fecero sbiancare il volto ai commensali non potevano che appartenere alla banda famosa e temuta. Uno di loro infatti – l’unico che non avesse il viso coperto – si fece avanti, aggirò con calma il tavolo sino a mettersi tra gli sposi, e disse semplicemente:
– Più presto faremo e meglio sarà per tutti. Fuori la dote e non sarà torto un capello ad alcuno. Parola di Mayno.
Seguì un silenzio agghiacciato: nessuno tra i presenti osava muovere un dito; ognuno teneva d’occhio con visibile orgasmo la bocca della pistola più vicina. Pietro Bàilo, il padre della sposa, un bell’uomo di quarant’anni alto e tarchiato, noto pel suo fegato a tutta prova, fu l’unico a sorridere in faccia al bandito. Posò il tovagliolo e si alzò. Il suo movimento non tranquillizzò Mayno, che diresse contro lui la canna della sua pistola.
– Niente paura, vecchio mio, – disse al bandito continuando a sorridere – vado a prendere il « morto».
E, volgendo tranquillamente le spalle alla pistola come se la minaccia non lo riguardasse, andò con calma sino al mobile su cui stava il cofanetto. d’acciaio, lo prese e lo presentò al bandito.
– Eccolo. E buon pro vi faccia.
Mayno ricevette il cofano, lo soppesò un istante, poi, messo in diffidenza dal poco peso e dall’aria ironica del suo interlocutore, lo posò sul tavolo e, senza abbandonare la pistola, con la sinistra lo aprì.
– Che cos’è questa storia? – disse vedendone il contenuto. – Abbiamo. voglia di scherzare?
– Nessuna: – gli rispose Pietro – tutto quello che oggi ho dato a mia figlia è qui. Non è vero, notaio?
Il notaio, a cui denti e ginocchia battevano, non ebbe la forza di rispondere: una signora tra gli invitati svenne tra le braccia del suo vicino.
– Meno storie: – replicò Mayno – la dote è di diecimila lire nuove. Dov’è?
– Dicono che in questi paraggi sia imprudente far viaggiare del denaro. – rispose senza alterare il suo sorriso il Bàilo. – Io non ci ho mai creduto perché penso che quassù siamo tutti galantuomini; ma nel dubbio la dote è rimasta al sicuro, lontano di qui.
Vi fu un silenzio. Mayno non metteva affatto in dubbio ciò che il Bàilo gli dichiarava: egli era ugualmente contrariato dal colpo andato a vuoto e dal tono ironico della sua mancata vittima, che lo esautorava di fronte ai suoi uomini, non avvezzi a tanta disinvoltura. Non volle per ciò essere da meno: abbassò la pistola, incrociò le braccia e, sullo stesso tono del Bàilo, rispose:
– Bene; niente di male. Potrei rifarmi qui perché alla Pietra c’è molta bella roba – e col calcio della pistola fece risonare una grossa zuppiera d’argento che adornava la tavola. – Ma son venuto soltanto per la dote e mi darete la dote.
– Eccola – tentò ancora di ironizzare il Bàilo additandogli il cofano aperto; ma già sentiva che stava per perdere la partita. Mayno lo fece tacere con un’occhiata e continuò: – Dov’ è il denaro?
Pietro Bàilo non rispose. – È vostro interesse di dirmelo – incoraggiò Mayno ricominciando a giuocare con la pistola.
– È presso il mio banchiere a Torino. – Potrebbe anche essere a Novi – rispose il bandito. – Se dico che è a Torino, vuoi dire è a Torino – ribatté il Bàilo guardandolo diritto in viso.
– Mi spiace per voi, perché da Novi avrebbe potuto essere trasportato qui in poche ore; e questo bel giovanotto qui – e così dicendo si avvicinò a Michele, il secondogenito del Bàilo, ponendogli una mano su una spalla – sarebbe rimasto con me soltanto ventiquattr’ore.
– Che cosa volete dire? – gli chiese il Bàilo che era diventato pallido. – Voglio dire che sino a quando non mi porterete come e dove dirò io le diecimila lire nuove, questo giovinotto rimarrà con me. – E, preso Michele per un braccio, lo fece alzare.
Michele, un ragazzotto di sedici anni, cacciò un urlo e, atterrito, col viso contratto, si aggrappò disperatamente al collo del notaio che gli sedeva vicino, strillando con tutte le sue forze. Mayno, che non lo aveva abbandonato, cercò di staccarlo dal povero vecchio tremante di spavento; la madre di Michele si alzò urlando e si abbatté sul tavolo presa da convulsioni. Tra i convitati era corso un fremito e qualcuno fece istintivamente l’atto di alzarsi; Pietro d’un balzo si pose tra il figlio e Mayno cercando di afferrare quest’ultimo per le braccia.
– Fermi tutti! – gridò il bandito; e ai suoi uomini: – Ragazzi, attenti! Il suo grido valse ad immobilizzare ognuno; solo Michele continuava ad urlare disperatamente. – Mamma! Mamma! No! No! – Staccatelo da quell’uomo e datemelo – intimò Mayno al Bàilo. – Non voglio scene; non ho alcuna intenzione di fargli del male.
E mentre il Bàilo, che aveva compreso il pericolo d’una resistenza violenta, cercava di staccare Michele dal collo del notaio mezzo morto di paura, improvvisamente, tra lui e Mayno, sorse una vocina imperiosa:
– Lascia stare Michele!
Bàilo e Mayno si curvarono a guardare. Il figlio minore del Bàilo, Francesco, un bambinetto di otto anni, stava tra di loro e, piantato sulle gambette aperte, coi pugni sui fianchi e un cipiglio duro, ripeté rivolto a Mayno: – Lascia stare Michele. Non vedi che ha paura?
Vi fu un momento di attesa, durante il quale Michele, accortosi dell’aiuto sopraggiuntogli, aveva cessato di piangere; Francesco, senza diminuire il suo cipiglio e sostenendo lo sguardo di Mayno, ripeté per la terza volta. – Lascialo stare, ti dico. Vengo io con te.
Mayno non poté a meno di essere interessato. – Ah! Vuoi venire tu al suo posto? E non hai paura? – No. Mi piace – rispose Francesco.
Fu così che Francesco Bàilo visse a otto anni la sua prima avventura, rimanendo come ostaggio per una settimana nel covo di Mayno della Spinetta sino a quando in luogo sicuro e vigilato tutto intorno dalla banda, suo padre fece la consegna delle diecimila lire nuove. I suoi rapporti con Mayno e coi suoi uomini dovevano essere stati in quella settimana dei più cordiali, a giudicare dalle virili strette di mano che egli diede a tutti i componenti la banda sul luogo del convegno, prima di accomiatarsi da loro; Mayno lo guardava con una espressione che andava ben oltre la semplice curiosità. E il piccolo, presi alcuni dolci che il padre gli aveva portato temendo di trovarlo affamato e spaventato, glieli diede dicendogli: – Dàlli a tua figlia Giuseppina da parte mia.
– E tu aspetta un momento – rispose il bandito; e, frugato nel sacchetto che conteneva le monete prezzo del riscatto, ne scelse una d’oro, la più grande e la più bella, e gliela porse dicendo: – Questa doppia d’oro te la regala Mayno della Spinetta: e tu conservala perché noi siamo amici.
Ora, come tutti i fatti che hanno qualche cosa di leggendario, questo episodio della vita di Mayno della Spinetta, sulla cui autenticità non esiste dubbio, non è concordemente attribuito a Francesco Bàilo, padre di nostro nonno: più di una famiglia alessandrina conserva una moneta d’oro e vanta tra le sue memorie il piccolo antenato offertosi volontariamente in ostaggio; l’opinione generale dei disinteressati propende anzi per attribuire l’esclusività del ricordo ad altra nota famiglia che coi Bàilo non è nemmeno in rapporti di parentela; ma per noi, ultima generazione della famiglia nostra, la doppia d’oro è talmente inscindibile dal ventre autorevole dello zio generale, che ci sentiremmo in peccato contro i nostri Lari se osassimo dubitare di questa gloria ancestrale.
E poi, v’è un altro fatto. Mayno della Spinetta cadde nel 1806 in un’imboscata di gendarmi e vi lasciò la pelle; pare che, ferito, abbia tenuto per sé l’ultimo colpo della sua pistola per non farsi prendere vivo. Con la sua morte fu disgregata la sua banda; molti dei suoi accoliti furono ammazzati in conflitti, o presi, processati, condannati e impiccati con tutto l’onore che spettava ai seguaci dell’illustre brigante; ma parecchi altri riuscirono a scampare alla polizia e alla. forca; qualcuno si nascose in Fraschetta, qualcuno riparò nei boschi sui monti, e gli sperduti alberghi del Rovinale ne ospitarono più d’uno nelle notti d’inverno. Poi, col passare del tempo, gli sparuti superstiti tornarono, ma in forma assai dimessa, al vecchio covo di Mont’Antico, dove Francesco Bàilo aveva passato la settimana più avventurosa della sua vita; e là vivacchiarono in una via di mezzo tra un modesto brigantaggio, che nulla più aveva dell’antico splendore, e la mendicità. Qualcuno per disperazione si mise a lavorare.
Però tra la Pietra e Mont’Antico corsero sempre ottimi rapporti. Si dice che più d’una volta qualcuno che a Mont’Antico aveva fame ricevesse un insperato soccorso dalla Pietra, e che qualche furto commesso da terzi nelle stalle della Pietra fosse scoperto, punito e riparato dagli ultimi abitanti di Mont’Antico.
Certo è che dopo l’avventuroso soggiorno di Francesco Bàilo nel covo di Mayno, la Pietra fu immune da qualsiasi aggressione e da qualsiasi molestia.
[…]
Poi il tempo passò, passò altra gente da Mont’Antico e a poco a poco anche gli ultimi Mainotti se ne andarono. E quando si cominciarono ad abbattere i boschi, e i vecchi alberghi diventarono piccole case coloniche, anche il diroccato tugurio fu restaurato e civilizzato e vi sorse attorno un piccolo podere.
Ma la valle del Rovinale continuò ad essere visitata da qualche sperduto che non amava le strade maestre: pareva che quei relitti umani si passassero la parola o sentissero di lontano il tintinnio di una moneta d’oro che un Bàilo portava come ciondolo al suo orologio. Perché Francesco Bàilo non volle mai separarsene e morendo la passò a suo figlio Pietro, che era nostro nonno.
Quando noi eravamo bambini, alla Pietra vedevamo ancora passare di tanto in tanto qualche pezzente che non sempre aveva un aspetto rassicurante. In casa li chiamavano «banditi» evidentemente in ricordo dei tempi eroici; ma erano disgraziati morti di fame: probabilmente semplici accattoni, sebbene di qualcuno si dicesse che aveva un vecchio conto insoluto con la giustizia. Ma doveva trattarsi di conticini da nulla. E noi sapevamo due cose che avevano il rigore di leggi inviolabili: che a costoro, quando si fermavano davanti a casa, bisognava dare un piatto di minestra, mezza pagnotta e un bicchiere di vino, e lasciarli dormire nel fienile dopo aver tolto loro di tasca gli zolfanelli; e che da costoro, da tutti, anche da quelli che avevano l’aspetto meno rassicurante, gli abitanti della Pietra non avevano nulla da temere.
Questa tradizione, passata di generazione in generazione, era rispettata da tutta la gente nomade che veniva chissà di dove. Ma era, indubbiamente, una tradizione assurda, relitto di tempi incivili, e di mentalità sorpassate. La civiltà progredì, aprì nuovi orizzonti alle menti umane, e gli uomini, diventati coscienti della realtà, si elevarono moralmente e spiritualmente nel rispetto della legge.
In questi ultimi anni la Pietra è stata svaligiata tre volte.
Da “Il regalo del mandrogno” di Pierluigi e Ettore Erizzo – Edizioni Araba Fenice, Boves ISBN 9788886771108
Torna alla HOME