Enciclopediaenciclopedia-approfondimentiIl regalo del mandrogno

Da “Il regalo del Mandrogno” – Incipit

«Zio Policleto spirato stamane assistito da me Alt Solenni esequie domattina ore nove. Abbracciamovi. ZIA NANETTE

La notizia, per quanto dolorosa, non era tale da sconvolgere dalle fondamenta le nostre esistenze. Il gentiluomo campagnuolo di cui la zia Nanette ci annunziava la scomparsa non era legato a noi da vincoli di stretta parentela né di consuetudine assidua: era un prozio, fratello di nostra nonna materna, col quale da molti anni non avevamo conservato altri rapporti se non quelli dettati dalla buona educazione e occasionati dalla relativa vicinanza delle nostre case di campagna. Ogni anno, al nostro arrivo o alla nostra partenza dalla villeggiatura, ci recavamo al Cucco – la casa ove egli solo con una figlia nubile, conduceva la sua ritiratissima esistenza – a salutare il vecchio prozio ormai decano delle nostre famiglie; poi, sino all’estate seguente non avevamo più notizie di lui. La sua vita, priva di contatti col mondo esterno, e il suo carattere alieno da qualsiasi familiarità coi numerosi parenti prossimi o remoti, contribuivano a mantenere le nostre relazioni entro i limiti della pura e semplice cortesia. Ci trovavamo quindi di fronte a una di quelle tristi notizie il cui effetto normalmente si esaurisce qualche commento compunto, in una lettera accorata e in una corona di fiori

Ma il telegramma non era firmato da uno dei suoi numerosi figli o nipoti: chi ci avvertiva era la zia Nanette, una vera zia, e per di più una carissima zia, la vedova di un fratello di nostra madre, stretta a noi da molto affetto e da quasi quotidiani rapporti: essa costituiva quindi il naturale collegamento fra il prozio morto in campagna e i pronipoti viventi in città, la sua firma in calce al telegramma che era indirizzato a noi due fratelli che indicava l’ora delle esequie, rivelava l’evidente proposito di conferire al rito luttuoso dignità e grado di solennità familiare.

[…]

Squillò il campanello del telefono. Era nostra sorella Nicoletta. «Avete sentito la notizia?» «Si, povero zio!» «I funerali sono domattina. Bisogna andare» Il pensiero che il nostro subcosciente aveva sino allora tenuto pusillanimemente lontano, prendeva corpo e figura e sorgeva ostile dinanzi a noi. «Credi, Nicoletta?» «Certamente. Bisogna»

[…]

Nicoletta aveva toccato le tre corde fondamentali dell’armonia familiare: la pietà pei defunti, le leggi di famiglia e il rispetto umano. La pietà pei defunti è un sentimento nobile e doveroso, ma presso noi occidentali non assurge al grado di religione a cui si innalza nel lontano oriente, sicché può avvenire che due uomini d’affari si chiedano per qual ragione le esequie d’un parente lontano non possano aver luogo in giorno festivo. Le leggi familiari costituiscono la spina dorsale della famiglia, ma queste riunioni di parenti lontani attorno a una culla a un velo o a una bara inducono inevitabilmente allo sfoggio di sentimenti profondi che non tutti in coscienza sono perfettamente sicuri di provare. Più d’un esemplare della nostra estesa parentela fu da noi visto per la prima volta a un funerale e non si ebbe più notizia di lui se non al funerale successivo – sia pure al suo.

Ma Nicoletta aveva anche detto «per il paese» e in realtà aveva un certo peso sulla bilancia quel paese povero brutto sporco e caro, dove nessuno di noi era nato, o aveva vissuto, ma che pur tuttavia era per noi qualche cosa: vorremmo dire qualcuno. Quel modesto aggruppamento di case non presentava alcuna attrattiva né storica né artistica né naturale: una chiesa, una stazione ferroviaria, un ponte e poche umili abitazioni: polvere d’estate, fango d’inverno. Il Cucco, la casa dove lo zio Policleto aveva trascorso la sua quasi centenaria esistenza, dove erano nate nostra nonna Eleonora, sua sorella la bellissima Aspasia e tanti altri Montecucco prima e dopo di loro, il Cucco, che era un poco la casa madre delle nostre famiglie, sorgeva a qualche chilometro ad occidente del paese, sulle dolci colline che lo fiancheggiano da quel lato. Molto più lontana dall’abitato, in direzione opposta, nascosta nella chiusa e selvaggia valle del Rovinale, era la Pietra, l’antica casa dove nostra nonna, lasciando il Cucco, era entrata sposa. In quella casa bianca che i boschi rinserrano da ogni parte e tengono appartata da ogni rumore di vita, erano nati nostra madre e i suoi fratelli; poi, a poco a poco, vi erano morti i vecchi nonni e due nostri zii. Ora vi si riunivano d’estate i superstiti della nostra famiglia materna: la zia Nanette, vedova dello zio Cleto, coi due figli e l’ultimo fratello di nostra madre, lo zio Napoleone, accompagnato da sua moglie Ada. Quando era lassù, perdeva un poco del suo classico sussiego di generale a riposo; e le due cognate, la zia Nanette e la zia Ada, riuscivano persino ad andare d’accordo tra di loro, forse perché si trattava dei soli mesi di vacanza, forse anche perché nella vecchia casa semplice ed un poco triste tutte le cose presenti perdevano inconsciamente gran parte delle loro asperità e sfumavano leggermente nel passato.

Dalla Pietra era uscita, sposa, nostra madre, e nostro padre quando lasciò definitivamente il Veneto, desiderando che possedesse anche lei la sua casa nell’ambito delle terre familiari, le aveva regalato lo Spineto, alto su un contrafforte, protetto alle spalle da alberi secolari, dominante l’intera pianura che, stesa ai suoi piedi, non era limitata se non dalle pallide Alpi all’orizzonte. Tanti ricordi si tessevano fra quelle tre case lontane l’una dall’altra e pur vicine: esse vivevano la loro vita completamente fuori dal paese, ma questo era il naturale centro di smistamento e di raccolta delle tre famiglie e costituiva il legame fra le ville sparse sulle colline. Noi scendevamo alla modesta stazione ferroviaria quando, bambini, andavamo ancora in villeggiatura alla Pietra, da nostra nonna: oggi, dalla piazzetta ove hanno innalzato il monumento ai Caduti, svoltiamo per una strada diversa che ci porta in altra direzione allo Spineto. Parecchi nomi incisi ai piedi del piccolo monumento ci ricordano ragazzi di contadini che hanno giocato con noi.

Il nostro arrivo, negli anni lontani dell’infanzia, era salutato dai tre odori caratteristici del paese. Sulla piazzetta della stazione aleggiava fortissima la testimonianza ammoniacale di un lungo stazionamento di cavalli: poche carrozzelle, qualche carro agricolo. Più avanti, una filanda emanava uno strano alito molle e nauseante, e più avanti ancora la piazza era appestata da un formidabile fetore di baccalà che svelava di lungi la presenza del salumaio. Ora i cavalli alla stazione sono stati sostituiti da motori a scoppio e sulla piazzetta aleggia un odore meno acre e più impersonale di olio e benzina; la filanda è stata chiusa pel fallimento della piccola anonima durante la crisi delle sete; ma la vecchia salumeria, se pure ha rinnovato le sue vetrine in un deprecabile stile novecento a buon mercato, appesta ancora la piazza con l’inconfondibile odore del suo baccalà. E quando ora, stanchi del lavoro e della città, ci rifugiamo in cerca di riposo e di silenzio allo Spineto, quell’odore ci saluta ancora come un vecchio conoscente un po’ sordido ma tollerato e ci aiuta forse a ritrovare l’anima più leggera degli anni lontani.

Questo è il paese di cui parlava Nicoletta al telefono: il paese di fronte al quale era necessario sentirsi qualcuno che assolutamente non può mancare ai funerali del vecchio prozio.

[…]

Ed avremmo certamente incontrato la zia Celestina e la zia Nanette.

– La zia Nanette era ancora alla Pietra a malgrado del novembre inoltrato: – disse Nicoletta i cui pensieri seguivano evidentemente la stessa strada dei nostri – probabilmente aveva ritardato la partenza avendo saputo che lo zio Policleto era ammalato …

E lo ha assistito—completò uno di noi. — “Assistito da me” diceva il telegramma, il che è talmente fatale che poteva ritenersi sottinteso.

—Alvise! — gridò Nicoletta pur frenando un sorriso. — Non dir malignità. La zia Nanette è la bontà personificata: è sempre pronta a prodigarsi dove c’è bisogno di lei.

—E vero. E le vogliamo tanto bene per questo. Ma è innegabile che nelle nostre famiglie nessuno può permettersi di morire senza che la zia Nanette lo abbia assistito nell’ultima malattia e senza che la zia Celestina lo abbia accompagnato con le sue lacrime all’ultima dimora. Giungono al loro momento inevitabilmente, come il fato.

Nicoletta cercò di protestare in difesa delle due zio, ma, subito coalizzati contro di lei, glielo impedimmo.

—Nicoletta, taci. La zia Nanette è un’appassionata dell’ultima malattia. Una aficionada direbbero gli spagnuoli; è un apparecchio radioricevente registrato alla lunghezza d’onda della prossima fine. La sente nei componenti delle nostre famiglie, come certi animali presentono il terremoto. Dimmi, Nicoletta: da sei o sette anni a questa pane, da quando è rimasta vedova, chi è morto fra tutti i nostri parenti affini e collaterali che non sia stato assistito da lei? Se domani tu ti senti meno bene, una cosa da nulla, un semplice raffreddore, ma vedi apparire in camera tua la zia Nanette col camice in dosso che si offre di assisterti, preparati: è l’ultima.

—E il più interessante è come le nostre due zie si sono sincronizzate. Quando un caro parente si mette a letto per l’ultima volta, la zia Nanette compare automaticamente al suo capezzale e lo assiste: ma non appena egli esala l’ultimo respiro nelle sue amorevoli braccia, giunge fatalmente da Casale Monferrato la zia Celestina, eternamente in gramaglie: la zia Nanette passa per competenza il venerato cadavere, e lei lo piange.

—E una tombale. —Polo, Alvise, smettetela! — ribatté Nicoletta che pure rideva; ma ormai eravamo lanciati.

—Nicoletta, di chi porta il lutto la zia Celestina? Lo zio Pino è morto da almeno quindici anni e a poca distanza da lui sono morti i suoi due figli. Di casa sua, non mi consta che nessuno abbia recentemente abbandonato questa valle di lacrime. Di chi porta il lutto?

— Non ha più smesso il nero dopo la morte dcl marito; è naturale.

— Il nero. Giusto. Anche Mamma nostra, sin che ha vissuto, ha portato il nero dopo la morte di Papà; ma la zia Celestina non è vestita di nero; è ammantata, è paludata di nero. Io non saprei disegnarla a memoria, ma credo che se dovessi farlo, le metterei tn capo una di quelle penne nere di struzzo che stanno fra le orecchie dei cavalli d’un carro funebre. Ha sempre su di sé un complesso imponente di passamaneria funeraria: veli, scialli, paludamenti, festoni…

Nicoletta, in omaggio alla solennità familiare a cui eravamo avviati, interruppe le nostre osservazioni mancanti di ortodossia col mansueto e sedativo argomento del tempo.

Guardammo fuori. Aveva nevicato, ma poi un principio di scirocco aveva ricoperto le strade di un deplorevole strato di fanghiglia. Pensammo con disagio che avremmo dovuto calpestarla. Nello scompartimento si diffondeva un principio di calore; e poiché la conversazione non riprendeva, un senso dì appisolamento accarezzava le nostre palpebre; il sonno che avevamo invano cercato all’inizio del viaggio si abbatté sudi noi invincibile. Nicoletta dovette scuoterci energicamente quando il treno stava per fermarsi. Scendemmo frettolosi ed assonnati.

— Facciamo colazione prima di prenda la corriera? — Non c’è tempo — rispose Nicoletta. — Siamo in ritardo.

La corriera infatti stava per partire. Lanciammo uno sguardo nostalgico ai vetri appannati del caffè della stazione e salimmo. L’autobus si mosse.

Da “Il regalo del mandrogno” di Pierluigi e Ettore Erizzo – Edizioni Araba Fenice, Boves ISBN 9788886771108


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